Jonathan Clancy: meglio solo e ben accompagnato

Sprecato di James Jonathan Clancy, appena pubblicato, porta al suo interno una storia piuttosto lunga e sembra essere un punto di snodo importante all’interno di un percorso artistico molto intenso del suo autore, un musicista che giovanissimo iniziò coi Settlefish fino a proiettarsi in diverse fasi artistiche (produttore con Maple Death Records, ad esempio). Dopo aver fatto sedimentare un lavoro che, complice l’uscita dei primi singoli abbiamo iniziato a masticare a ottobre, abbiamo quindi approfittato per sentirgli il polso. Poi abbiamo inevitabilmente allargato lo sguardo.

Ciao Jonathan! Innanzitutto grazie mille, anche perchè penso tu sia abbastanza impegnato con il disco, ma ormai mi sono affezionato a Maple Death e a scaglioni vi sto intervistando tutti… Volevo partire dall’inizio: tu sono più di vent’anni che suoni, è corretto?

Jonathan Clancy: Sì, sì!

Classe? 1980?

1982, sono 24 anni che suono…

Beh, quindi fa più di metà vita tutto sommato… Sprecato è un bilancio, una logica conseguenza, un nuovo inizio oppure soltanto un disco?

Beh, ti dico come la vivo io… io lo sento come una conseguenza, nel senso che tutte le cose che ho fatto – non solo come musicista ma anche con l’etichetta – mi hanno portato a fare questo disco. Un po’ anche come un nuovo inizio, perché è anche la prima volta che mi metto in gioco completamente da solo. Nel senso: in particolare con His Clancyness, che era l’ultimo progetto che avevo, ero partito da solo ma amando molto l’idea della band e nonostante, ahimé, avesse quel nome che richiamava me perché da me si partiva, gli altri contribuivano ed eravamo una band a tutti gli effetti anche se scrivevo io le canzoni. I contributi oltre al mio erano importanti e mi è sempre piaciuto averli, perché danno quella diversità che poi io ricerco nella musica. Per quanto mi riguarda Sprecato forse è anche più sentito, perché arriva dopo un periodo anche abbastanza lungo nel quale non ho pubblicato nulla, mentre prima ero abituato a far uscire qualcosa ogni anno ed ero sempre in tour. Poi forse, tendendo a controllare tuti gli aspetti io. mi sembra sia anche il mio disco più libero…

Più personale anche?

Sì, sì, assolutamente, anche perché quando arrivi ad una certa età, non è che vai sempre avanti con la conoscenza, in qualche modo sei sempre sulle cose che ti sono sempre piaciute, raggiungi una maturità da un punto di vista musicale, quindi non sento di aver cambiato le mie influenze rispetto a cinque o sei anni fa ma sono molto più consapevole di quello che so fare ed anche di quello che non so fare.

L’impressione che ho avuto ascoltando il disco è stata proprio questa, che sia un disco di un artista maturo, sia a livello anagrafico che a livello di carriera. Per i riferimenti che ci sono dentro, per la ricchezza della costruzione e della musica mi sembra proprio che sia un disco quasi di una sicurezza, ricordandomi in diversi momenti le cose di un David Thomas o comunque di artisti con una bella storia alle spalle e facilmente riconoscibili, personali.

Intanto ti ringrazio! Sicuramente quello che sento, a differenza degli altri dischi, è che sia quello dove mi trovo maggiormente consapevole. Mi sentivo abbastanza sicuro di quello che andavo a fare, poi – lo si dice sempre – è quello del quale sono più contento, mi sono sentito molto libero nel farlo.

Mi accennavi a questo fatto della stabilità a livello artistico e di immaginario. Una cosa che ho notato spesso, soprattutto nelle band, è che magari ci sono dei tempi di produzione, di lavorazione e di stampa un po’ più lunghi e si rischia che il disco, una volta pronto, non sia più rappresentativo. Nel tuo caso invece mi sembra di capire che ci sia una buona aderenza con la tua condizione odierna? Quanto tempo ci hai lavorato?

Tanto, tanto… le prime cose alle quali ho lavorato, che tra l’altro sono andate a comporre il brano che apre il disco, “Castle Night”, secondo me potrebbero essere del dicembre 2017 o gennaio 2018, quindi parecchio tempo! È vero che poi, quando ho mixato il disco quest’estate con Stefano Pilia siamo andati a toccare tutti i brani, ho aggiunto cose e ho tolto altre, rimesso mano a diversi progetti, quindi c’è una bella uniformità, poi le voci sono state ricantate quasi tutte. Però ricordo benissimo l’idea che ho avuto fin dall’inizio: quando ho iniziato a lavorarci mi sono fatto una playlist con i suoni che avevo in testa, che sono rimasti i medesimi. Il disco corre un po’ su due binari, le due musiche che io amo (cercando di semplificare), che sono il folk rock e la psichedelia suonata (con la canzone e la chitarra acustica), e il primo ambient, il mondo kraut e “cosmico” di cui sono fanatico, tutte quelle cose lì e volevo assolutamente unirle. Poi a me piacciono tantissimi generi, ma questi sono quelli per i quali mi sento più portato e volevo che la voce fosse un po’ il legame e nei dischi precedenti non ero mai soddisfatto. Essendo la voce il mio strumento, il luogo dove mi sento più a mio agio, non ero mai contentissimo di come la registravo. Questo disco invece è come lo volevo: un po’ per consapevolezza e un po’ per Stefano Pilia che mi ha registrato e che ha capito subito dove volevo andare a parare, ecco.

Com’è nato questo disco? A livello di scrittura, di coinvolgimento degli altri musicisti, di produzione… lavorando sul lungo periodo come ti sei mosso?

Guarda, è andato un po’ in due fasi. La prima fase che sono i primi quattro anni dove ho fatto tutto da solo registrandomi con i miei mezzi. Il disco nasce un po’ dal fatto che vivevo a Londra, non stavo scrivendo e Michelangelo Setola, un illustratore di Canicola Edizioni e mio amico, secondo me un po’ vedendomi in difficoltà e un po’ per scherzo mi ha detto “Anch’io ho un libro, ti mando delle tavole e tu mandami della musica”. Senza uno scopo preciso come pubblicare una roba insieme, probabilmente per spronarmi da amico, vedendomi un po’ in un buco nero come periodo. Lui mi mandava proprio dei jpg di notte ed io il giorno dopo gli rispondevo con un minuto, un minuto e mezzo di musica che io ci scrivevo sopra, creando un meccanismo per tornare a scrivere ma senza l’idea di pressione legata al dove sarebbe finita, al cosa metterci sopra, ai testi…

Avevo in testa il suo immaginario, poi pian piano lui ha finito il suo fumetto e l’ha fatto uscire, mentre io ho preso un po’ la mia strada, usando il suo fumetto come una sorta di ispirazione quando non ne avevo io. Aprendo anche le pagine ci sono delle canzoni che io riesco ad intravedere e a piazzare nel suo lavoro, poi sono andato da un’altra parte, ho scritto i pezzi registrandoli subito per fermarmi in seguito per un anno e mezzo. Quando sono tornato a suonare dal vivo, non volevo farlo solo e ho coinvolto J.H. Guraj aka Dominique Vaccaro e Andrea de Franco aka Fera, e abbiamo fatto una o due date dal vivo.  Gli ho suonato quel che avevo del mio progetto e loro hanno iniziato a suonarci sia le mie parti, sia a contribuire e ad arricchire con dei loro spunti. Poi io volevo continuare e finire il disco da solo, ma capivo che non ci sarei riuscito e quindi Stefano Pilia, col quale siamo amici fin da ragazzini, quando avevamo sedici anni, mi ha detto “facciamolo insieme”. Da lì abbiamo iniziato a prendere le cose che avevo fatto io, ad aggiungere oppure a registrare meglio alcune delle mie parti cercando un suono migliore e, man mano che avevo in mente delle parti scritte che però potevano funzionare suonate da un altro strumento, siamo andati a pescare fra gli amici e tutto è andato molto veloce. Ci sono due pezzi con dei flauti e Stefano mi ha detto subito “Dai, Enrico (Gabrielli) è un amico, scriviamogli, secondo me ce lo fa”. Dandogli giusto un paio di indicazioni in due parti mi ha mandato i contributi che ci sono sul disco, idem gli altri che partecipano, Francesca Bono di Bono/Burattini, Andrea Belfi alla batteria, il mio amico canadese Kyle che suona il sax, l’unico che c’è in qualche modo dall’inizio. Appena scritta “Castle Night”, della quale parlavamo prima, glie l’ho spedita e mi ha aggiunto quei sax che sembrano quasi dei flauti. Da lì ho avuto anche l’idea di sperimentare di più con il sax e con gli strumenti a fiato, perché, non avendo il disco quasi batterie, ha molto spazio, è aperto e ci sta bene avere questi piccoli arrangiamenti che entrano ed escono.

Volevo chiederti un po’ del tuo rapporto con Stefano. Credo che ognuno ottenga quello su cui lavora e costruisce, e dopo 24 anni di musica tra te e Stefano siete arrivati ad avere questo bacino di artisti intorno a voi e poterlo usare credo sia un po’ compimento e chiusura di quanto fatto in questi anni, no?

Certo, è vero quel che dici tu. La questione per noi, che siamo tutta gente che suona da una vita e che fa le cose per suonare, è che nessuno di noi considera tutto questo un lavoro. C’è chi è riuscito a farne un lavoro ma è la passione che ci ha portato avanti. Io ero un po’ ossessionato dall’idea di volerlo fare e chiuderlo da solo, ma è stato talmente facile confrontarmi ed appoggiarmi a questi amici sul disco che poi è stato naturale. Prima di entrare in studio con Stefano ero anche abbastanza teso, perché mi piace finire le cose da solo. Poi essendo veramente fratelli, ci conosciamo da quando ho sedici anni figurati, non è stato naturale, di più.

Non è più facile operare insieme? Ho sempre l’impressione che chi lavora da solo possa essere in difficoltà a capire quando una cosa sia da chiudere o da finire sia più difficile rispetto a qualcuno con delle orecchie esterne alle quali chiedere un riscontro?

È vero, io però quando mi impunto su una cosa poi mi ci butto fino alla fine, poi sono sempre stato molto fortunato, ho sempre avuto amici ed amiche alle quali far ascoltare le cose, però era proprio più una sfida rispetto a me stesso, in una fase dove dopo anni, per un mio trip mentale, avevo bisogno di chiudere una cosa da solo. Per fortuna poi la cosa è andata da un’altra parte, anche perchê senza l’aiuto degli altri non sarebbe mai uscito un disco così.

Riguardo a Maple Death: tu nella tua carriera hai inciso e lavorato con diverse etichette anche piuttosto grosse, l’idea di produrre Sprecato su Maple Death come ti è venuta? Non sarebbe stato più semplice affidarsi a qualcuno di esterno? Non è un peso in più che ingorga il lavoro il fatto di uscire per Maple Death?

Assolutamente sì, hai ragione, è una cosa alla quale ho pensato molto, ma alla fine forse non avevo voglia di quello sbattimento per trovarmi un’altra etichetta. All’inizio volevo far uscire Sprecato non dico sottotraccia, ma volevo un po’ liberarmi da tutte quelle sovrastrutture che ci sono di solito. Non ho pensato a mandarlo in giro, forse anche perché avendo un’etichetta so come succede dall’altra parte quando hai qualcuno al quale far uscire il disco. Una cosa che non mi piace troppo è l’idea che poi un disco mio possa… come dire, non voglio che sia il disco cardine dell’etichetta, voglio che sia uno dei dischi dell’etichetta, con una storia normale. Voglio che tutti siano raccontati bene e quindi uno dei rischi era questo. La fortuna è che l’etichetta è comunque cresciuta molto e ci sono artisti che girano anche molto più di me. Poi alla fine mi sono tolto tutte queste paranoie dicendomi che alla fine siamo una famiglia eccetera eccetera. Per fortuna poi la promozione del disco non la seguo io, questa è proprio una cosa che non riesco a fare!

Direi che il riscontro per ora è molto più che buono comunque!

Sì, sì, è super! Io sono ambizioso ma con me stesso non avevo aspettative alcune. Sono contento di come il disco venga recepito come denso, nemmeno bello né brutto ma magari un po’ complesso da ascoltare. Mi considero anch’io quel tipo di ascoltatore, quando c’è quell’attenzione in più (e me ne accorgo dalle recensioni che escono), quando non si riprendono le quattro righe dal comunicato, arrivo a situazioni ed a riferimenti ai quali non avevo pensato nemmeno io!

Opinione mia, i comunicati sono comunque per buona parte la rovina delle recensioni, nel senso che questo copia e incolla poi diventa letale!

Eh, lo so, lo so!

Ti chiedevo queste cose legate alla scelta dell’etichetta memore di discussioni anni fa con Bruno Dorella che mi diceva, ad un certo punto, che riuscire a distinguere quanto suonasse da quanto operava come etichetta, a livello di produzione e promozione, fosse un vantaggio per lui. È anche vero che vista la produzione recente di Maple Death probabilmente è una macchina talmente oliata che non approfittarne sarebbe stato un peccato?

Ti dirò, probabilmente se avessi avuto tempo mi sarebbe piaciuto anche farlo uscire con un’altra etichetta, è che non ci ho proprio pensato. Volevo quasi togliermelo di dosso e farlo da solo, controllando i tempi di stampa, è la via più immediata. Poi quello che dicevi di Bruno è assolutamente vero e secondo me la parte più difficile è quella promozionale nel senso che, il fatto di parlare di sé stessi e cose di questo tipo le odio, cioè il fare i post e cose del genere non sono cose che mi divertono. Per fortuna non ho dovuto seguire io questa cosa, nel senso che scegliendo di farlo uscire io è stato il primo disco per il quale ho scelto di delegare questo ambito. Non essendo io a prendere contatto e a inviare il materiale ai giornalisti e non mandando mail, ho potuto vedere le cose con un pochino di distacco ed è anche bello così!

Anche perché il tuo l’hai fatto con la fine delle registrazioni e forse è giusto fermarsi lì ad un certo punto. Tornando al dialogo con Michelangelo, di recente avevo intervistato Laura Agnusdei per il suo Goro, legato a Pastoraccia, poi c’era stata questa rassegna fra musica e fumetti che stava andando avanti e che ancora continua. La letteratura, il cinema, il fumetto, la pittura, che tipo di ispirazione possono dare ad un musicista?

Totale! Tra l’altro mi fa sorridere questa domanda perché ero con Laura fino ad un’ora fa, visto che suona anche nel mio gruppo dal vivo! Comunque è sempre stato così, spesso pensando alla musica la penso propio a livello visivo, suonando un po’ di tutto ma nulla a livello prettamente tecnico. Quindi i colori, libri, film, sono sempre cose che mi ispirano. In questo caso avendo un riferimento preciso come quello di Michelangelo (tra l’altro non essendo un fan particolare del mondo dei fumetti, lo conosco poco pur essendo cresciuto leggendone le cose cose più grosse ma non ne sono mai stato un esperto) riconosco in lui un tratto particolare, pittorico in qualche modo, e mi è sempre piaciuto. Tra l’altro collaboro con Canicola da tanti anni aiutandoli a volte con le traduzioni, siamo molto amici da quando hanno aperto ed abbiamo proprio l’ufficio uno accanto all’altro, quindi c’è questa sinergia, essendo assieme tutto il giorno! Quindi nascono spesso queste vicinanze e con questo disco volevo uscire dalla mia comfort zone; conoscendomi in passato sarei andato su ambiti più fotografici o grafici, poco o niente disegno. Non lo so, avevo voglia di cambiare, spingendomi a fare qualcosa di completamente diverso. Ci siamo stati addosso un bel po’ lavorando alla copertina e a tutte le immagini associate e pian piano quelle immagini me le sono sentite dentro. Tutti i singoli hanno queste copertine diverse e ormai fanno parte di me e mi identifico tantissimo. Dal vivo tra l’altro Michelangelo ha disegnato questo telo nero 3×3 metri e ce lo stiamo portando in giro per le date ed è pazzesco, anche se è una cosa banale, è come un’armatura che mi fa concentrare molto di più quando suono dal vivo. Per me ci deve essere un’immersione totale nelle cose, anche a livello estetico (senza che prenda il sopravvento) ma le cose devono andare assieme.

Questo taglio nella cura della grafica e nell’immainario è una cosa che è uscita anche nell’intervista a SabaSaba, anche loro certosini nel cucire l’abito intorno all’opera.

Certo, siamo sicuramente molto nerd in questo senso e mi piace quando ad esempio un gruppo come i SabaSaba mi porta un mondo e un riferimento. Cerco sempre di capire, nel caso non ci fossero le idee così chiare, quali possano essere i temi o i riferimenti artistici e grafici che possano fare al caso dei musicisti. A volte arrivano con delle idee perfette, altre volte meno, ma che una copertina racconti un disco ed un immaginario è assolutamente importante e fondamentale.

Dopo quasi 25 anni, in questa fase della tua vita e della tua carriera credi che la musica possa essere portatrice di un messaggio? Esulando da stili e mode l’aver dimostrato di poter portare avanti un’idea artistica e commerciale come Maple Death Records credi possa essere in qualche modo d’esempio? Che tipo di percezione hai rispetto a quanto si muove fra le nuove leve? Spesso ho la sensazione di essere nel pieno di un momento di rottura…

Secondo me sì. È un’ottima domanda ed è strano perché come etichetta di sicuro ho un po’ il vantaggio (per fortuna organizzando anche festival ed eventi legati ad essa) di vedere questo mondo di persone ai cocerti di Maple death o anche di etichette di amici. Poche settimane fa a Smania (festival che ha coinvolto una cinquantina di etichette italiane a Bologna) ho incontrato diversi giovani sui 19-20 anni al nostro banchetto a consegnarci cdr o chiavette usb con le loro composizioni. In passato succedeva meno, ho un po’ la sensazione ci sia questo momento di rottura ma allo stesso tempo i più giovani abbiano voglia di sostanza e che intravedano e riconoscano la sostanza. Forse c’è di nuovo più ricerca di densità e di profondità, anche perché la musica che va per la maggiore oggi assomiglia veramente alla spazzatura. assomigliandosi tutta, e vanno a cercare della verità inqualche modo. Non sono negativo e sul fatto di essere portatore di qualche valore. mi piace il fatto che l’etichetta porti avanti l’arte, non con la A maiuscola ma un modo di fare le cose con una certa poesia, confrontandosi con le persone e organizzando eventi, facendo anche politica. Ci credo tantissimo e sono poco per la polemica online e più per la creatività e l’azione.

Tu sei italo-canadese, come hai speso la tua crescita sui due paesi? Ragionavo sulla breve presenza di mio fratello in canada ai sui 15 anni e di quanto questo soggiorno ci fruttò a livello musicale e culturale in generale, rispetto a quello che avrei potuto ascoltare qui (dai Nomeansno ai Naked City, per dire). Credi sia stato un tuo punto di forza, anche a livello di apertura mentale?

Sono nato in canada e cresciuto con mia mamma, canadese ma che abita in Italia da moltissimi anni. Sono nato là e fra gli 0 ed i 12 anni ho fatto avanti e indietro, stabilendomi qui verso i 15 anni, abitando poi per un periodo a Londra. Io ho fatto la seconda e la terza media in Canada e mi riconrdo benissimo che compravo le cassette, in classifica c’erano Nirvana e Soundgarden, passando poi a Beck e Sonic Youth, scendendo poi sempre più nel particolare. Spesso mi chiedo se senza quegli anni formativi (vero che anche in famiglia abbiamo sempre ascoltato buona musica, da Neil Young e Van Morrison ed andando a concerti) sarei arrivato qui ora. La cultura italiana non ha quella base rock’n’roll che esiste altrove, mi ricordo che Paul Rafferty (aka Ancient Plastix, su Maple Death) mi raccontava che ad un certo punto finì a suonare con un vecchio progetto alla BBC e i suoi genitori già ascoltavano la BBC abitualmente, ascoltando Pink Floyd e Who come mega pop star! Forse la tradizione di musica bella italiana è molto più di nicchia. Forse è una musica che per forza di cose si avvicina meno alle controculture, dove nascono di norma le cose più storte che poi ci formano, sostanzialmente…

Fantastico, grazie mille Jonathan! Devo dirti che prima di arrivare al tuo disco ero abbastanza dubbioso a causa dell’uscita dei quattro singoli, pensando di trovarmi un album già bruciato, invece poi ascoltandolo li ho persi nella tracklist godendomelo veramente per intero.

Ti ringrazio, son contento anche perché non sapevo minimamente che pezzi scegliere come singoli, non essendoci singoli intesi in senso radiofonico e siamo andati a sensazione mettendo dei brani un po’ diversi fra di loro e probabilmente i miei preferiti sono invece quelli rimasti nell’album, quindi grazie mille!