Le parole di Jazz Is Dead! 2019 – interviste & contributi

Una serie di brevi interviste a integrare il report di Jazz Is Dead! 2019.

Max Marchini (Dark Companion/Manticore)

Sei stato il principale responsabile del rilancio artistico di Lino Capra Vaccina negli ultimi anni. Cosa rappresenta per te la sua musica e quali altri artisti pensi si avvicinano alla sua estetica del suono?

Beh, mi è difficile spiegare realmente la musica di Lino, sicuramente com’è complesso esprimere la profondità dell’amicizia che mi lega a lui. Forse è utile ricordare quello che Keith Tippett ha detto di lui quando lo conobbe, definendolo come il “poeta del silenzio”. Lino è ripagato oggi della sua coerenza e perseveranza artistiche, dopo che per molto tempo è rimasto dimenticato e fuori dalle scene. Metafisiche Del Suono è sicuramente per me il suo disco più bello in assoluto. La sua concezione di suono e sacralità mi riporta non solo alla Third Ear Band, ma anche a un autore come Frank Perry.

Quali sono le idee e aspirazioni che ti stanno accompagnando nell’avventura di un’etichetta come la Dark Companion?

Quello che cerco di fare con la Dark Companion è un po’ come quello che faceva la mitica e storica Esp-Disk, cioè far coesistere nello stesso contenitore cose diverse tra di loro. L’idea è ovviamente quella di una musica nuova, non necessariamente contemporanea, ma agile nel far coniugare diversi verbi e tendenze. Guardo all’etichetta come a una famiglia di musicisti, con la volontà di far incrociare i loro percorsi all’interno delle uscite discografiche. In questo percorso, grande forza mi ha dato anche il mio grandissimo amico Greg Lake, che poi mi ha affidato la gestione della Manticore. Con autori come John Graves e Annie Barbazza, che hanno riscosso un enorme successo con la rivisitazione di Rock Bottom di Robert Wyatt nel disco Folly Bololey, e ancora Paolo Tofani e Keith Tippett, continuiamo ad alimentare la voce italiana nel contesto del Rock In Opposition. Ma sono molto legato anche ad un musicista come Paul Roland. Per la Dark Companion curo anche l’aspetto grafico-visuale delle copertine.

Tomaga – Valentina Magaletti

Tomaga

Qual è il tuo background musicale e quali sono le vostre principali influenze? Raccontaci delle collaborazioni e di come secondo te è recepita la carica del vostro sound in Europa come negli Stati Uniti.

Ho avuto una formazione da batterista e percussionista, tanto nell’ambito classico che in quello del jazz, e da sempre ho cercato di approcciarmi a strumenti differenti. Tra le nostre influenze ci sono sicuramente anche autori del minimalismo storico come Terry Riley, Steve Reich o La Monte Young. In questo senso si colloca pure la nostra collaborazione con i membri dei Blutwurst, dell’etichetta Tempo Reale, per la realizzazione del nostro Shape Of Dance. Abbiamo lavorato molto con i synth Buchla e nella nostra musica affiorano sicuramente influenze rock-industrial e minimal techno, e un certo interesse per il paesaggio sonoro filtrato attraverso l’uso di field recordings. Molto importanti sono state alcune collaborazioni con Charles Hayward dei This Heat e con Pierre Bastien, mentre posso dirti che anche Memory In Vivo Exposure è probabilmente tra i nostri lavori più rappresentativi. Per quanto riguarda l’approccio compositivo, non abbiamo nessun tipo preciso di modus operandi, se non quello di portare idee in studio e svilupparle insieme. Durante i nostri concerti, anche fuori dall’Europa, il pubblico si è dimostrato sempre preparato e disposto all’ascolto: abbiamo la fortuna di essere in contatto con booking che ci trovano date in luoghi e contesti consoni al nostro tipo di proposta sonora.

Ariel Kalma

Qual è la tua impressione generale sul nuovo disco con Sarah Davachi, come si colloca in un ambito di kosmische music e perché l’ascoltatore può veramente connettersi con qualcosa di mitologico, lontano e perduto?

Sono davvero felice per questo nuovo lavoro, perché la prima volta che ho ascoltato Sarah ho pensato subito che potesse nascere qualcosa di unico da noi insieme. È stato molto semplice perché lei sembrava già sapere perfettamente quali dei suoi strumenti potevano accordarsi con i miei. Entrambi abbiamo utilizzato l’harmonium, il cui suono dilatato ci ha particolarmente coinvolti. Tutto è fluito magicamente inserendo anche la tampura e le tabla indiane. È “kosmische” perché è appunto “intemporale”, non ha né un inizio né una fine ma è tutto l’Universo. Se c’è qualcosa di perduto in questa musica, lo è perché noi dimentichiamo, ma la musica ha il potere di far ricordare e riportarci ad uno stadio di eternità e questo accade quando siamo davvero “deeply tuning” e appare tutto chiaro, come nella pratica dello Yoga e del Qi Kong. La musica ci fa sintonizzare così perfettamente…

Al Doum & The Faryds

Al Doum & The Faryds

Matteo Saronni

Hai mostrato sin da subito un forte entusiasmo nel suonare la batteria in una band come quella degli Al Doum & The Faryds. Cosa ti piace di più della vostra musica e quale componente ti coinvolge maggiormente a livello personale?

Quella degli Al Doum la vivo come un’esperienza di libertà, una possibilità di sperimentare ed esprimere senza limiti le idee ritmiche, confrontandomi con gli altri senza costrizioni. Questo è di fondamentale importanza per me, che mi sono formato ascoltando specialmente la musica di autori come John Coltrane, Max Roach, Elvin Jones o Ed Blackwell, vedendo nel jazz un ideale canale per la ricerca di se stessi. Ad esempio, con gli Al Doum ho iniziato a suonare anche il clarinetto, che poi ha arricchito la timbrica della sezione fiati della band. Anche quella della ritmica africana è una piattaforma di sperimentazione molto importante per me.

Martina Lazzeri

Sei la vocalist della band, sei entrata a far parte in questa formazione dalla fisionomia radicalmente diversa rispetto al tuo background musicale. Come ti sei integrata e cosa più ti coinvolge nel far parte di questa esperienza?

Con gli Al Doum ci siamo conosciuti per caso durante una jam. Si parlava molto e semplicemente fui invitata alle prove. Le prime volte sono state incredibili, c’era un’energia pazzesca e ammiravo molto Dome per la sua volontà di estendere le possibilità vocali e corali del gruppo. Avendo avuto trascorsi nell’ambito della World Music, mi piace molto la componente afro della band, nella quale mi sono maggiormente ritrovata, mi sono sentita a casa. In questo modo, viene curata anche la sperimentazione dello stile vocale, potendo utilizzare una voce non canonica ma con timbri particolari. È poi sicuramente affascinante la vita “on the road” della band in Europa rispetto alle mie esperienze più locali di quando vivevo in Toscana.

Antonio Palladino e Jimmy Catagnoli

Rappresentate la sezione fiati della band e date un fondamentale contributo alle sonorità più free-jazz. Cosa vi piace di più di questa esperienza sonora?

AP: Ciò che più mi coinvolge è sicuramente la naturalezza, compattezza e libertà con cui nascono gli arrangiamenti e le soluzioni strumentali.

JC: Rispetto agli altri gruppi e progetti in cui suono, con gli Al Doum ci sono quella differente “pacca” e un’attitudine freak. Attraverso le trame corpose del nostro sound posso attraversare al meglio questa esperienza musicale, potendo indagare liberamente le potenzialità fluido-improvvisative del sax.

Ivan “Capiten” Cosenza

Come definiresti la musica degli Al Doum, e cosa è cambiato negli ultimi anni rispetto al sound degli esordi, specialmente con l’introduzione di uno strumento come il Fender Rhodes?

Sin da quando sono entrato nella band come flautista, ho vissuto la musica del gruppo come una “tuffata” in una situazione di atmosfere, dove le cose si costruiscono anche secondo una scalata progressiva, ed è fondamentale per me potermi esprimere in questo modo. Il Fender è uno strumento maledettamente ritmico, dall’imprinting emotivo ed estemporaneo, da cui possono nascere forme belle e contorte come con l’effetto wah-wah. Rispetto all’inizio, oggi abbiamo un maggiore bilanciamento tra tensione improvvisativa e composizione. Prima dominava la “regola della semplicità”, minima cellula sonora da cui si sviluppava il tutto… adesso abbiamo sicuramente più regole nell’approccio totale in vista del miglior sound possibile.

Stefano “Puma” Tamagni

Sei uno dei membri storici insieme a Dome e Lorenz. Quali sono stati secondo te i cambiamenti fondamentali  della band negli ultimi anni?

Sicuramente con il Fender c’è stata una grande svolta. Ivan ha uno stile energico e ruggente che si rifà al blues e al jazz rock anni Settanta, che sono da sempre le sue sonorità predilette. In questo modo la composizione ha acquistato nuova linfa rispetto a quando la linea guida della nostra performance era soprattutto lo spirito lisergico della jam. L’architettura dei brani oggi è diluita in più solide atmosfere, e questo grazie anche alla sezione fiati rinnovata e all’estensione delle voci.

The Winstons – Enrico Gabrielli

Nel vostro nuovo lavoro, Smith, ogni pezzo sembra essere davvero un ardito cesello, un organismo a parte. Quanta importanza ha per voi questa cura nella composizione di ampio respiro, e come interpretate il passaggio verso una forma-canzone eclettica ed evoluta dal sapore più rock-glam-progressivo, rispetto alla più marcata indole prog-jazzata del vostro album d’esordio?

Per quanto possiamo dirti, la faccenda è più semplice di quello che sembra: non c’è un percorso ragionato, non c’è un passaggio da uno stato A ad uno stato B, noi se andiamo dal liquido al gassoso al solido, sempre acqua saremo. “Be water my friend”, dice Bruce Lee… Durante i periodi di tour degli scorsi tre anni abbiamo assemblato materiale su materiale, senza criterio alcuno. Poi una volta arrivati al setaccio si è profilata l’idea del disco dalle discendenze più “glam”. Ma è un passaggio davvero casuale. Felice caos, sempre.

Quanto è importante per una band come quella dei Winstons recuperare oggi, in un’epoca dalla prassi iper-tecnologica del fare musica, tanto certi linguaggi e sonorità del passato, quanto l’esigenza di riaffermare una solida preparazione e versatilità strumentale come la vostra?

Beh, qualcuno ci deve pur essere a fare lo sporco lavoro di mantenere la memoria dell’inventiva old school del rock’n’roll, no? Ad altri lasciamo le tastiere “qwertyuiop”: ci prendiamo volentieri noi i tasti neri e bianchi, alla vecchia…

Nelle esibizioni dal vivo, ancora più che sul disco, emerge quella componente furibonda, lisergica e ancestrale che caratterizza il vostro suono. Il vostro set al Jazz Is Dead! è stato anche alquanto grezzo, diretto e potente. Che impressioni avete avuto di questo concerto?

È stata una prima data super-grezzona e molto sentita. Sia da noi che dal super pubblico, che ha sfidato una serie di temporali di merda. Quel luogo, l’ex cimitero di San Pietro in Vincoli dietro al Cottolengo, è a suo modo un posto perfetto dove celebrare la cerimonia della nostra anarchia ancestrale. Smith si mischia alle cose del primo disco senza soluzione di continuità: a noi non interessa la logica del presentare pedissequamente il “nuovo disco” come se fosse chissà che. Jimi Hendrix non ha praticamente mai suonato live buona parte dei suoi album, lui si presentava ogni volta per quello che era. E noi facciamo altrettanto, la musica e cosa siamo sono la stessa cosa.

Siete stati invitati al Jazz Is Dead! insieme agli Al Doum & The Faryds, un altra band che come voi ha un forte legame con il passato. Quali pensi siano i vostri punti in comune e di divergenza nell’intendere il rapporto di una nuova contaminazione tra jazz-rock e psichedelia?

Quando certi generi musicali che afferiscono al passato vengono tirati fuori come “etichetta” o “ricetta”, significa che non hanno più molto da dire. Meno si pensa a come affrontare l’annosa questione della “commistione” e più la cosa avviene. Sono gli esperimenti chimici che escono fuori dalle accademie mentali che necessitano di spiegare il funzionamento delle cose. Noi ne vorremmo stare alla larga e se un po’ di jazz lo facciamo anche noi, così come un po’ di psichedelia, ben venga.

Indianizer – Matteo Givoni

Indianizer

Siete stati invitati a suonare nello stesso giorno insieme ai Winstons e agli Al Doum & The Faryds, due band che hanno un forte rapporto con certa psichedelia del passato. La vostra proposta musicale, invece, affonda le radici in un psych-sound rituale più moderno, che guarda anche al krautrock e a certo tribalismo ritmico e ad influenze esotiche. Quali sono le vostre principali coordinate di un percorso che avete condensato nel vostro album Zenith?

Ci siamo incontrati ritrovandoci tra certa psichedelia moderna alla Animal Collective, Peaking Lights, Goat (svedesi), King Gizzard And The Lizard Wizard, certi episodi della Not Not Fun Records e anche determinata techno, con però un interesse comune per tutti i tipi di rock sperimentale e per “freakerie” a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, dai Faust ai Gong e agli Amon Düül II, dai Can a Sun Ra. Fu proprio a partire da questa fissazione comune per l’ipnosi e la ripetizione che, iniziando a suonare assieme, abbiamo poi esplorato la musica non Occidentale alla ricerca dell’ossessione sonora e della ritualità del ritmo, a partire dalla musica Gnawa per arrivare al blues del Mali, alla psichedelia turca e Mediorientale, alla musica malgascia, ai più classici afro-beat e afro-disco, al Gamelan indonesiano, fino a sbarcare in Centro e Sud America. Contemporaneamente, infatti, ci siamo letteralmente immersi nel folklore afro-latino di Colombia, Cuba e Perù, e alcuni di noi hanno anche intrapreso un percorso di dj-set a base di salsa, cumbia e boogaloo con Maria Mallol e Stefano Isaia (Gianni Giublena Rosacroce, Lame) e Samuel Baena, a nome Cuchilla y Pegante Clan, alimentando ulteriormente la passione per queste sonorità.

Evan Parker & Setoladimaiale Unit – Stefano Giust

A parte le tue varie incarnazioni in trio, quartetto e nel duo Camusi con la tua compagna Patrizia, hai già avuto modo di sperimentare la forma allargata dell’ensemble, penso ad esempio alla TAI No Orchestra. Mi sembra però che tieni particolarmente a questa “Unit” con Evan Parker, che stai cercando di portare in giro il più possibile. Rappresenta effettivamente per te un’ideale sintesi e una fusione totale del tuo lungo percorso nel campo della libera improvvisazione attraverso l’avventura Setola di Maiale? Quali sono le tue principali impressioni?

Ho sempre avuto molti progetti musicali e negli anni ho suonato in tutte le varianti possibili, dal “solo” ai grandi organici, anche esagerati nel numero, ma direi che non amo particolarmente le orchestre seppure alcune mi abbiano entusiasmato, come quella di tredici elementi di cui ho fatto parte, l’Hanoi New Music Ensemble. La TAI No Orchestra è un’altra a cui sono affezionato e il cui organico è anche maggiore, seppure spesso è suddiviso in piccoli gruppi. Venendo all’ensemble Setoladimaiale Unit, ci tengo particolarmente perché è il mio ensemble, l’espressione dell’etichetta a cui fa esplicito riferimento e di cui è appena uscito in questi giorni il cd con Evan Parker – con una introduzione di gong del compositore Fluxus americano Philip Corner e della danzatrice Phoebe Neville – registrato al festival AngelicA di Bologna nel 2018, un felice incontro che nasce da una commissione del festival per i venticinque anni dell’etichetta. Quest’anno ho ricevuto la proposta di suonare con lo stesso organico (purtroppo leggermente ridotto) insieme a Parker al Jazz Is Dead!, la qual cosa mi ha fatto molto piacere naturalmente. Diverso sarebbe dire che cerco il più possibile di trovare ingaggi per questa formazione, perché le occasioni non sono molte, questa è la realtà. L’unica altra occasione in cui la Unit ha suonato (con organico differente) è stata nel lontano 1999 per la Biennale di Venezia. Comunque i due concerti fatti con Evan sono stati molto differenti: a Bologna si è unito all’ensemble come parte del tutto (c’erano anche i clarinetti di Marco Colonna e i corni di Martin Mayes, oltre ad Alberto Novello al synth analogico, sostituito qui da Daniele Pagliero, a Patrizia Oliva all’elettronica e voce, a Giorgio Pacorig al pianoforte e Michele Anelli al contrabbasso); a Torino, invece, siamo stati il suo gruppo, quindi lo spazio musicale è stato differente ed infatti c’è stato un suo “solo”, cosa che a Bologna è mancata per il motivo che ho detto prima. Gli improvvisatori amano davvero suonare tra loro e poterlo fare con Parker è semplicemente meraviglioso per qualsiasi musicista che ne conosca il talento, l’apporto e ne abbia rispetto. Lui, con pochi altri, in Europa ha iniziato tutto quanto!

Patrizia Oliva

Suoni principalmente in solo e in duo con Stefano, ma hai anche alle spalle esperienze d’improvvisazione in contesti allargati come nella Bologna Improvisers Orchestra o la TAI No Orchestra. Come ti trovi in questa Unit, qual è il tuo approccio timbrico-espressivo principale nell’ensemble, e come cerchi d’integrarti al meglio?

Negli anni ho maturato la pratica della musica improvvisata con altri musicisti, di varie estrazioni e attraverso diverse esperienze. Quello che si crea nell’ensemble è davvero qualcosa di magico, unico, forse anche inspiegabile. Intendo dire dal momento che si sale sul palco, senti le energie sottili degli altri musicisti e i primi momenti sono davvero potenti, è la creazione che nasce da un nulla, ci sono connessioni, stimoli a fare delle scelte in quel momento che davvero non si possono spiegare, un rapporto d’insieme in continuo ascolto. Diciamo che il mio ruolo nelle varie esperienze di ensemble che ho avuto è sempre stato molto minimale, c’è molto ascolto, attenzione. La cantante in questi contesti può prevaricare, perché la voce può avere questa forza: io posso emettere suoni, usare parole, creare loop o fraseggi, ma per me è prima fondamentale ascoltare e poi partecipare attivamente. Questo non credo accada tra gli altri musicisti nella stessa misura, perché penso che tra gli strumentisti ci debba comunque essere sempre un dialogo che non si interrompe mai, ovviamente con delle pause. Improvvisare non è fare musica a caso, come tante volte ho sentito dire, perché i musicisti hanno davvero la responsabilità di “portare a buon fine” la loro pratica musicale affinché ci sia un buon risultato, basta che solo un musicista non sia connesso e in sintonia con la musica che questa può esserne stravolta. Una voce troppo presente, quindi, può fare la differenza. La voce per me nel contesto d’insieme diventa come una pennellata su di una grande tela, e non è quindi assolutamente importante riempirla. È un grande privilegio suonare con Evan Parker.

Jooklo Duo (& Thurston Moore)

Jooklo Duo (& Thurston Moore)

Non è la prima volta che siete invitati a suonare come Jooklo Duo con Thurston Moore. Raccontateci del vostro primo incontro e di qual è, secondo voi, il feeling sonoro che vi può accumunare…

David Vanzan:: Diversi anni fa Thurston venne a conoscenza dei nostri dischi per la Qubico, e così ci invitò ad aprire alcuni concerti in Italia dei Sonic Youth. Ciò che ci accomuna è certamente il modo con cui cerchiamo sempre qualcosa di nuovo in un canale diverso. Per quanto possiamo essere sullo stesso pianeta, lui ha un altro linguaggio, e perciò quella tra di noi rimane sempre una reciproca conoscenza tra sperimentatori. Ad esempio, l’ultima volta che abbiamo suonato insieme aveva usato la chitarre a dodici corde, ma dopo aver ascoltato le registrazioni disse che avrebbe voluto usare la sei corde per trovare soluzioni differenti. Per quanto il codice dell’improvvisazione possa sembrare una lingua omogenea, in realtà non è mai facile coniugare i singoli creoli. Thurston ha fatto cose diverse, dal rock al folk a quelle più meditative, e l’improvvisazione accresce la sfida nel trovare un nuovo e diverso codice d’espressione.

Non è la prima volta che come Jooklo Duo suonavate insieme a Thurston. Quali sono state le vostre impressioni del set fotonico di Torino e dell’intermezzo in cui sul palco con voi c’era anche Evan Parker?

Virginia Genta: Quello di Torino è stato il nostro terzo live con Thurston, il primo era stato in trio a Nottingham nel 2013, il secondo a Brighton il giorno dopo durante lo stesso tour, in quartetto con anche Dylan Nyoukis, quest’ultimo documentato su cd-r dall’etichetta di Nyoukis, Chocolate Monk. I tre concerti sono stati tutti molto diversi tra di loro e sempre unici. A Torino è stata una bella scarica di scintille ed entusiasmo. Ci siamo sentiti tutti molto concentrati durante tutto il set e, quando nell’ultima parte Thurston ha dato il via ad una lunga coda di modulazioni di feedback, ci siamo sentiti davvero a casa e il concerto a quel punto avrebbe potuto continuare tranquillamente per almeno un’altra ora! Onestamente devo dirti che è stato davvero bello suonare insieme, perché con la musica ci siamo detti delle cose che le parole non possono esprimere… è fantastico quando ci si rende conto che parlare a volte è inutile, quando si può interagire tramite l’incredibile telepatia del suono. Thurston è uno dei migliori improvvisatori che conosciamo, perché sa ascoltare e interagire, invece che suonare seguendo i propri tricks e cliché come capita a molti improvvisatori al giorno d’oggi. La parte con Evan Parker (che è saltato sul palco su invito di Thurston) è stata forse l’unico intramezzo in cui tutti e tre abbiamo dovuto un po’ adeguarci ad un tipo di energia diversa, e penso che servisse comunque una parte di tregua per poter poi ritornare a essere ancora più potenti di prima. Devo dire che ho ammirato molto il coraggio di Evan, che ha accettato di mettersi in gioco inserendosi in un trio già molto compatto a livello sonoro e con un approccio forse diverso da quello a cui probabilmente è abituato negli ultimi tempi… Ci siamo fidati di Thurston e della sua iniziativa di invitare Evan per una parte del set e siamo sicuri che la cosa abbia avuto un suo senso.

My Cat Is An Alien – Roberto Opalio

Conosci bene da tempo Thurston Moore, in virtù della vostra amicizia e delle vostre collaborazioni. Che impressione hai avuto e con quale entusiasmo hai vissuto il suo set finale del Jazz Is Dead! con i Jooklo Duo?

L’11 ottobre del 2008, all’indomani dell’inaugurazione al Museion di Bolzano della mastodontica mostra itinerante “Sonic Youth etc.: Sensational Fix”, che celebrava i trent’anni dei Sonic e a cui partecipavamo come My Cat Is An Alien, mio fratello Maurizio ed io vagavamo con Thurston per le tristi vie della città, alla (vana) ricerca di vinile, e fu in quel momento che citai Free Serpent, lp di debutto della giovane coppia Jooklo Duo: “ “Virginia al sax scatena l’inferno, mentre David sembra voler sfondare le pelli della batteria”. Erano premonizioni, visto che David dopo nemmeno mezz’ora di set ha sollevato in aria il rullante appena sfondato! È solo uno dei tanti momenti topici della performance del trio di Thurston & Jooklo Duo che sancisce il finale di Jazz Is Dead! nel modo più appropriato in assoluto: con la distruzione totale. Anzi, mi correggo, con l’arte della distruzione totale! Mi riferisco a una qualità inscritta nel dna: “essere posseduti dalla musica”, caratteristica che Byron Coley definisce innata, dunque impossibile da apprendere in alcun modo… o ci nasci oppure no. Qui l’Arte c’è stata, ha regnato sovrana durante tutto il set. Virginia è stata micidiale nel trapanare il cervello come un black & decker, ma anche delicata e poliedrica. Thurston e la sua Jazzmaster consumata sono stai una cosa sola!