Laura Agnusdei: il suono è il mezzo, non il fine

Laura Agnusdei è apparsa sul mio radar auricolare abbastanza tardi, grazie alla collaborazione coi Julie’s Haircut, per poi esplodere con lo splendido ed intenso Laurisilva. Prima di arrivare all’ascolto del suo ultimo disco, Goro, ho avuto la fortuna di vederla a teatro a Lugano, coinvolta nell’intenso Lazarus di Valter Malosti, insieme ad un vero e proprio parterre de roi di musicisti. Da sotto il palco sentire i suoi polmoni svuotarsi nel sax e lasciarci pervadere dalla sua energia è stata cosa rara. Ho quindi colto l’occasione per fare due chiacchiere con lei, con il tramite del buon Jonathan Clancy. Prima di questa serie di domande, però (e prima dell’ascolto di Goro), mi sono ripassato il suo catalogo di incisioni, che lascia stupefatti per la vastità di spazio e di suoni messi all’opera, quasi una trasfigurazione naturale ed ambientale in note.

Ciao Laura, come stai? Sei ancora impegnata con le ultime date di Lazarus, corretto? Come sta andando la vita in scena? Personalmente ho trovato lo spettacolo molto toccante e la parte sonora tutt’altro che scontata, con la possibilità per tutti i musicisti di lasciar filtrare le proprie sfumature nei brani, che riescono in qualche modo a diventare rappresentativi anche di una certa sezione della scena italiana.  

Laura Agnusdei: Sì, ieri sera abbiamo messo in scena Lazarus per la 50esima volta ma ci mancano ancora 16 repliche! La cosa più bella di questa esperienza sono le persone con cui la sto condividendo, siamo una trentina tra produzione, tecnici, band e attori e si sta bene, si scherza molto, sono tutte e tutti – oltre che talentuosi – belle persone. Sono molto felice di far parte della band perché stimo molto i miei compagni e siamo soddisfatti del lavoro che abbiamo fatto sugli arrangiamenti dei brani di Bowie, fa molto piacere aver raccolto fino ad adesso solo feedback positivi per la parte musicale dello spettacolo.

Goro è il tuo ultimo disco, ma è anche una località in provincia di Ferrara. È anche ispirato a Quasi nessuno ha riso ad alta voce, graphic novel di Pastoraccia aka Alessandro Pastore. Una storia di anemoia (… il sentimento di nostalgia per un tempo che non si è potuto vivere in prima persona) e di sospensione. Conosci l’autore? C’è stata una collaborazione oppure trattasi solo di ispirazione? In che maniera ti sei fatta influenzare dalla storia e che tipo di accompagnamento (o di contrappunto) hai voluto dare con la tua parte? Che cosa dobbiamo aspettarci dal nastro? 

Lo scorso autunno Jonathan mi ha chiesto se volessi essere la prima musicista coinvolta in una serie di eventi curati da Maple Death e Canicola Edizioni. Si tratta di EOLICA, serate in cui un/una musicista e un/una illustratrice sono invitati a collaborare. In questo caso particolare Pastoraccia, autore che prima di allora non conoscevo, avrebbe presentato il suo libro con una mostra composta da alcuni video e alcuni disegni. Mi sono dunque interfacciata con il lavoro finito e ho concepito il mio contributo musicale inizialmente con un’impronta più installativa, per entrare meglio in dialogo con la mostra. Ho composto dunque una traccia di 15 minuti da mandare in loop per tutta la serata, sulla quale intervenivo randomicamente col sax, questa è poi diventata il lato B della cassetta ovvero “Pontelagoscuro”, prendendo il nome da una delle località che compaiono nella graphic novel. Ho voluto restituire l’atmosfera sospesa ed enigmatica di tutta la storia, facendo convivere suoni di origine “outdoor” con altri di origine “indoor” e squarci elettronici ad aprire portali per dimensioni altre.  All’interno del libro, che vi consiglio di leggere perché è bellissimo, un’altra ambientazione mi ha colpito molto: il queer club Maciste. Ho pensato dunque di comporre dei brani per questo luogo e così sono nate “Matilde’s Lemon Dance” e “Maciste, Wet Nights”. La prima è una proto-techno ballad, in cui canto psichedelicamente un testo dedicato a Matilde, tragica figura motrice del libro; la seconda è invece un ostinato loop dal sapore noise-dub su cui un sax sospettoso dialoga con la voce warpata di Grace Jones. Completa il lato A dedicato al club Maciste “Sasha”, una traccia composta insieme a Giulio Stermieri dopo la mostra, vera e propria “sonorizzazione” di una pagina del libro: un terzinato dal sapore vintage accompagna il monologo del personaggio da cui la traccia prende nome.

Saltabeccando fra i tuoi diversi dischi, quel che mi colpisce è il tuo continuo travalicare la soglia della strumentista. Sembra che il tuo sassofono sia solo una chiave per entrare in un universo sonoro che abbraccia più ambienti e più mondi. Ci sono lo spazio, gli insetti, la melodia, la sorpresa, l’essere guidato attraverso la musica di ambienti sconosciuti all’ascoltatore. Quando hai iniziato a suonare? Qual è la tua storia? Che dischi ti hanno segnato, quali esperienze?

Da piccola suonavo la chitarra, da adolescente ho iniziato ad avere le prime band, per approdare al sax all’ultimo anno del liceo. I miei anni formativi si son divisi tra un sofferto per certi versi, ma comunque importante, studio al conservatorio e la militanza in diverse band dal repertorio un po’ inclassificabile, come Empressite Arcade e Sex With Giallone. Una volta presa il diploma di sax classico ho studiato per tre anni all’Institute of Sonology di Den Haag in Olanda. Sono stati anni di forte crescita sul piano artistico in cui ho messo a fuoco una mia ricerca personale che per semplicità possiamo collocare nell’ambito della musica elettroacustica. Per quattro anni (2015-2019) ho inoltre fatto parte della psych rock band Julie’s Haircut, con loro ho girato l’Italia e l’Europa e inciso 3 dischi. Molti dei miei ascolti del cuore affondano le radici nella musica afroamericana.

Mi ha colpito molto, fra le tue pubblicazioni, Hand In Hand With A Stranger, che sembra riunire in modo magico umanità, ritmo e spaesamento, quasi come una persona che attraversi gruppi, ceti e borghi senza appartenervi ma serbando quanto la sfiora. Che tipo di ricordi hai di quell’operazione di raccolta? Che diversità di sguardo metti fra i lavori di raccolta sonora e quelli espressivi? Ci sono due Laura Agnusdei in questo senso?

Mi fa molto felice ti sia piaciuto, è una delle cose che ho fatto che ho avuto meno occasione di raccontare e ti ringrazio per la domanda. È una composizione che fotografa un momento della mia vita in cui mi sentivo fortemente spaesata, nel senso letterale della parola. Ero appena rientrata in Italia dopo 3 anni di studio in Olanda, ma mi recavo ancora spesso lì, veramente poco convinta della mia scelta. Non più al riparo dalle traiettorie scolastiche, cercavo di rendere effettivamente la musica il mio lavoro ancora in bilico tra mille altri lavoretti, ma dopo poco è arrivata la pandemia, il materiale infatti è stato in gran parte assemblato durante il primo lockdown. Tenere un diario, sia con le parole che con i suoni, era stato nei mesi precedenti un esercizio di presenza, un ritrovamento di senso nell’attimo più che nella progettualità disciplinata. Quelli che chiami “lavori di raccolta sonora” sono per me già di per sé pratiche espressive, premere REC non è un gesto neutro, ma è un atto di “framing”, come l’atto di scattare una foto o girare un video. Ascoltando ci collochiamo in posizione nel mondo, entriamo in relazione. La registrazione è spesso per me solo un pretesto per innescare questa relazione, molte volte non riascolto neanche quel che registro. Hand In Hand With A Stranger è il mio lavoro più intimo ad oggi, e anche il primo in cui ho sperimentato il formato del libro, grazie all’aiuto del mio talentuosissimo amico Rob Shuttleworth, designer dalla sensibilità e inventiva infinite che mi ha aiutato a dar vita all’oggetto cartaceo che accompagna la composizione e ne riporta i testi. Tornando alla tua domanda e riprendendo anche quello che notavi in quella precedente: sempre più vedo tutte le mie pratiche e i vari risultati che ne derivano come una cosa sola, senza ansia di coerenza o dispersione, perché il suono è solo la via che prediligo per una ricerca che penso debba andare oltre gli strumenti che utilizza, il suono è il mezzo, non il fine.

Diversi dei tuoi lavori (Ubi Consistam e Bologna, Tube Bench Flip Bag e Den Haag, Hand In Hand With A Stranger e l’Italia) sono strettamente connessi a delle località geografiche. Quanta valenza ha l’ambiente per una composizione? Credi che queste opere comunque connotate possano essere trasfigurate dal contesto d’ascolto?

Il suono è una vibrazione che si propaga nel tempo ma anche nello spazio, dal mio punto di vista per essere ancora più specifici, il suono è tempo ed è spazio. La musica, come anche la sound art, in quanto pratica che si occupa dell’organizzazione dei suoni, volente o no è sempre un’arte che ha a che fare con la dimensione spaziale. Ubi Consistam è di certo il mio lavoro che indaga di più questa relazione tra suono e spazio, si tratta di un libro contenente le preziose grafiche di Giulia Polenta all’interno del quale tramite un QR code si accede a 6 tracce dedicate a 5 luoghi di Bologna. Queste tracce sono composte con suoni strumentali e ambientali registrati nei suddetti luoghi, giocando con diverse prospettive microfoniche. Possiamo definirlo dunque un progetto site specific e dunque no, in questo caso il mio desiderio è proprio che non si prescinda dal contesto d’ascolto (vero motivo per il quale non sono reperibili tutte le tracce online, per stimolare una curiosità proattiva, per spingere l’ascoltatore a seguire le indicazioni e recarsi davvero sui luoghi). L’idea era proprio quella di cercare nuovi contesti di fruizione del suono, idea certamente molto figlia del complicato periodo della pandemia ma che ritengo tuttora molto stimolante seppur difficile da comunicare (come tutto quello che esce dal tradizionale meccanismo ‘faccio un disco- lo suono dal vivo ai concerti’). Non a caso l’unica volta che ho suonato dal vivo materiale di Ubi Consistam l’ho fatto proprio in uno dei luoghi a cui è dedicato, la sala del Colombaio del cimitero monumentale della Certosa di Bologna. Tube Bench Flip Bang è una traccia che possiamo descrivere come il mio primo esperimento in questa direzione, dedicata ad una panchina tubulare posta al centro di un piazzale davanti al municipio di Den Haag, la città olandese dove vivevo al tempo, il luogo è ritrovo di skaters. Hand in Hand With A Stranger invece è un racconto radiofonico, concepito dunque per smaterializzarsi nell’etere. Nella sua forma diaristica non lineare e randomica, che si muove tra l’Olanda e l’Italia, è tuttavia presente una riflessione di stampo più emotivo che concettuale sul rapporto tra individuo e il suo ambiente.

Goro esce in digitale e su nastro: che tipo di ascoltatrice sei? Legata al supporto o proiettata nell’incorporeità? Quali suoni ti attraggono al momento? C’è qualcosa che ti sentiresti di consigliarci uscito di recente per caso?

Sono un’ascoltatrice un po’ disordinata. Mi piace possedere i vinili e le cassette e nell’ultimo anno anche mixarli dal vivo per i concerti segreti di Impulse Response o a Grabinski Point, ma per scoprire nuovi dischi uso soprattutto l’app di Bandcamp (boicotto fieramente Spotify). Ascolto Battiti su Radio 3 e ultimamente anche la web radio Fango, sulla quale ho anche un programma con Impulse Response insieme a Giulio Stermieri. Vi consiglio l’ultimo lavoro del sassofonista napoletano Antonio Raia, La Memoria Bucata, e altra recente scoperta che mi ha colpito è il disco Bocca D’ombra dei Rosso Polare.

Presenterai Goro dal vivo?

Non sono intenzionata a portarlo in tour, ma ho accolto volentieri l’invito di Jonathan a presentarlo a Bologna il 15 giugno a ridosso dell’uscita.