CATERINA BARBIERI, intervista e presentazione di “UHV”

CATERINA BARBIERI

Caterina Barbieri è una musicista di ventiquattro anni che piano piano sta catalizzando l’attenzione su di sé. Come si capisce anche dall’intervista, è giovane ma con esperienza (il sogno di ogni agenzia interinale) e anche in possesso di un bagaglio tecnico-culturale che le dà un ulteriore grado di unicità. Ecco perché quest’intervista ci ha insegnato più di qualcosa non solo su di lei, che spazia dall’elettronica vecchia scuola alla psichedelia carnale dei Sex With Giallone, passando per le collaborazioni audiovisive con Giovanni Brunetto, che siamo lieti di farvi conoscere qualche riga più sotto.

Gli unici musicisti coi quali abbiamo avuto a che fare che siano andati all’EMS a fare un disco sono O’Malley e Rehberg per il progetto KTL. Ti andrebbe di raccontarci qualcosa sulla tua esperienza lì? Crediamo possa interessare molto i nostri lettori.

Caterina Barbieri: Ho iniziato a frequentare l’Elektronmusikstudion (EMS) a maggio 2013 quando studiavo al Conservatorio di Stoccolma (KMH), poi ho continuato a lavorarci fino a che non sono tornata in Italia a settembre 2013 e in seguito vi ho fatto ritorno ogni volta che mi trovavo in Svezia. L’EMS, centro nazionale di musica elettroacustica dal 1964, è retto dallo stato svedese e ospita ogni anno artisti internazionali tramite residenze e altri progetti. È costituito da sei diversi studi per la produzione audio-video aperti 24 ore su 24, due dei quali attrezzati con sintetizzatori analogici vintage, un sistema modulare Serge e uno Buchla 200. È un posto fantastico e unico nel suo genere, un modello sociale di fruizione dell’arte e condivisione dei saperi, degli spazi e delle tecnologie comuni veramente illuminato. I primi tempi faticavo a credere che un luogo tanto democratico e avveniristico fosse reale, mi sembrava che gli EMS sintetizzassero il modello in piccola scala di una società cyber ideale: mi chiudevo in studio per delle notti intere a lavorare col Buchla, incontravo musicisti (tra cui O’Malley), producer e tecnici fantastici, con background e inclinazioni diversissime, leggevo e ascoltavo rarità dalla ricca biblioteca multimediale degli studi… Ero profondamente colpita e ad oggi provo un’immensa gratitudine per tutto ciò che anni di politiche culturali e socialismo svedese hanno reso possibile (il mio amico e compositore Daniel M Karlsson ha ben interpretato questo senso di gratitudine nel suo “Common Ownership”, un testo scritto a corredo di una sua omonima composizione fatta col sistema Buchla dell’EMS, che potete leggere qui).
Comunque solo un pezzo dell’album Vertical è stato fatto col Buchla dell’EMS, tutto il resto l’ho composto col Buchla del Conservatorio di Stoccolma, il primo sistema modulare che io abbia mai suonato.

Di sicuro tu conosci la musica cosiddetta “colta”, ma che musica “incolta” ti ha influenzato?

In adolescenza ascoltavo tantissimo noise e alcune frange sperimentali del doom metal. Ascolti importanti a quell’epoca furono Keiji Haino, Dominick Fernow, i Corrupted e Stephen O’Malley. Gli Swans pure. Ma anche l’astrattismo più sentimentale del noise gaze (My Bloody Valentine) e l’ambient (Basinski) erano ascolti del cuore. Poco dopo crebbe sempre più la passione per la psichedelia, dai Les Rallizes Dénudés ai Silver Apples, dal pionierismo ludico e lirico sui synth di Bruce Haack all’eclettismo neo-psych-folk dei Master Musicians Of Bukkake, fino alla riscoperta in anni più recenti del prog più mistico con gli “Space Hymns” di Ramases e delle derive cosmic kraut. Nel mondo techno gli ascolti seminali sono stati E2-E4 di Manuel Göttsching e Nommos di Craig Leon. Anche Plastikman mi piace.

In Vertical c’è la magia del suono puro e della voce, ma c’è anche della “geometria”. Quando creavi quelle tracce usavi la testa o andavi d’istinto?

In the sound, we become aware of its subatomic structure, an eternal dance of particles – playful, recombining, recreating, and dissolving.

(Terry Riley)

La geometria è una delle mie principali ispirazioni. È da quando sono piccola che provo una fascinazione quasi sensuale nel visualizzare geometrie e concepire pensieri astratti. Ad oggi vedo particelle, onde e raggi ovunque. Il pensiero delle eterne geometrie che le armoniche di un suono disegnano nell’aria, così come le severe prospettive di luce e ombra di un’architettura neoclassica a Milano, mi possono riempire di gioia immensa per interi giorni.
La musica è geometria e in noi fa rivivere le geometrie del cosmo. Poiché tramite il suono e le sue architetture arriviamo a intendere universali principi di vibrazione. La musica opera la connessione fra manifesto e non manifesto, uomo e cosmo, corpo e mente, in una spirale fra il dentro e il fuori, il micro e il macro, svelando l’infinito potenziale spirituale e fisico che ogni individuo si porta dentro. Tutto ciò può suonare molto astratto – la gente dice “distaccato dalla realtà” – ma per me non lo è. Non lo vedo come qualcosa che vive nell’impero della mente, perché investe anche una dimensione fortemente fisica. I suoni disegnano invisibili geometrie d’amore nello spazio e nel tempo, io mi sento grata di poterle anche solo concepire nella mente e nel corpo, cristallizzarle poi in una forma compositiva è ciò che vorrei tentare quando faccio musica. Trovo questo molto romantico o almeno questo è il mio modo di fare musica romantica.
“Undular”, per esempio, la traccia da cui ha avuto origine tutto l’album Vertical, è una meditazione sulle forme d’onda semplici, che eredita e coniuga alcune implicazioni del minimalismo e della techno, in particolare l’induzione psicomotoria originata dalla ripetizione di patterns. L’idea dietro a questo pezzo è quella di cristallizzare la danza dei cicli d’onda in algide architetture di tempo e spazio, lavorando sulla stratificazione per creare pattern poliritmici e in piccola misura polifonici e poi, in post-produzione, sulla spazializzazione. Sono partita con l’ascoltare la poliritmia delle armoniche nei ricchi spettri che il Buchla produce, per poi trarre ispirazione da tutto questo in maniera cruda e stilizzata, grezza.
Tutti i pezzi di Vertical sono stati composti e suonati live sullo strumento. C’è sicuramente una componente istintiva, quindi, ma ho sempre avuto un’idea formale piuttosto nitida di cosa volevo ottenere nel processo compositivo.

Sembra che un altro italiano, Alessandro Cortini dei Nine Inch Nails, sia un maestro col sintetizzatore Buchla. Se dovessi spiegare a un profano cosa ti affascina di questo strumento, cosa gli diresti?

We are now living in a hyperdimensional collectivity, not only of earth and space but also of past and future, of conscious and unconscious […] The zeitgeist of hyperspace that is emerging, initially freighted with technology and cybernetics, requires that it be consciously tuned to an erotic deal.

(Terence McKenna)

La serie di Cortini “FORSE” per Important Records è una delle cose più belle che io abbia ascoltato negli ultimi anni. La musica di Alessandro produce un fortissimo impatto emotivo con il minimo dei mezzi. Una qualità rara. Una forma di neoclassicismo, quasi, che io trovo molto potente. “FORSE” sintetizza un linguaggio che è fortemente idiomatico della macchina (Buchla Easel) da cui è nato e allo stesso tempo definisce l’inconfondibile stile di Cortini.
Per me la scoperta del Buchla nella primavera del 2013 è stata un accadimento magico, che non solo ha ridefinito la mia visione sulla musica ma ha riorientato la mia esistenza in maniera olistica. Non è facile esprimere in poche righe che cosa la sintesi e i sintetizzatori rappresentino per me. Storicamente la sintesi modulare ha generato una pratica estetico-compositiva molto diversa da quella sviluppatasi in seno alla musica concreta, in quanto permette di generare processi real-time, che possono essere suonati live, portando a concepire nella maggior parte dei casi forme musicali aperte e appunto generative, dotate di una propria vita infinitamente cangiante, basate sul continuum organico e un pensiero musicale “di flusso”. Nella musica concreta, invece, prevale la tecnica del montaggio sonoro e l’idea formale del collage “after-the-experience”, dato che vengono per lo più assemblati eventi discreti, ovvero suoni collezionati su nastro in momenti diversi, appartenenti a contesti etereogenei, la cui successione è giustificata da logiche altamente intellettualizzate, nel senso di esterne alla genesi naturale del materiale sonoro e mediate da un alto grado di intenzionalità autoriale e “interventismo” compositivo egotico. I sintetizzatori modulari, invece, sono progettati per essere sistemi integrati, dove possano avvenire quasi tutte le principali fasi della composizione elettroacustica: questo è garanzia di organicità sia a livello di materiale sonoro che di attitudine compositiva. Inoltre il fatto che siano strumenti effettivamente suonabili preserva un approccio fisico e viscerale alla musica, con tutti i suoi sani limiti. In questo senso i synth sono stati grandi “laboratori” di un pensiero musicale improvvisativo e, dicevo, “di flusso”, ispirato a logiche compositive che funzionano in divenire piuttosto che in retroazione.
Se in ambienti digitali l’infinita varietà di tecniche compositive adottabili può mettere in crisi il compositore e guastare un sano equilibrio tra caso e pensiero organizzato, nella sintesi modulare i maggiori limiti della macchina possono invece esplorare la possibilità di una convivenza intelligente fra improvvisazione e strutture predeterminate.
Ciò rende possibile l’integrazione tra diversi approcci compositivi e la compresenza di diversi gradi di strutturazione del pensiero compositivo, senza incappare nelle contraddizioni che le musiche “after-the-experience” possono produrre o i dilemmi che gli infiniti poteri dell’ambiente digitale possono generare.
Personalmente non ho mai percepito che l’automatismo insito nel funzionamento delle macchine sia “tiranno” del risultato musicale, anzi è un limite amichevole e un orizzonte assolutamente creativo, surrealisticamente lo vedo come strumento per liberare il potenziale immaginativo interiore ed esercitare i propri poteri psichici. Giocare col limite della macchina sviluppa un equilibrio armonico e profondo tra diversi gradi di coscienza, in uno spettro continuo tra diversi poli psichici (se rimanessimo nella metafora dei surrealisti, uno spettro continuo fra il sonno e la veglia). Il Buchla (e in particolare i sistemi instabili con cui ho lavorato io) dà tutta l’idea di essere un organismo vivo (infatti è stato uno dei miei migliori amici in Svezia), che pensa con la sua intelligenza e con il quale puoi realmente interagire. Le macchine pensano in modo differente da noi, ma questo non significa che non abbiano un’intelligenza loro peculiare e che il loro modo di pensare non ci possa insegnare tanto.
Sono affascinata dalle ricerche sull’intelligenza artificiale e in effetti ho l’utopia di un mondo in cui le macchine diventino strumenti sempre più potenti per conoscere ed esercitare i meccanismi della psiche verso nuovi orizzonti percettivi. Non mi suona strano che in un mondo del genere anche l’amore per i robot abbia un suo legittimo posto.
Mi interessa la sintesi anche perché permette di lavorare con timbri semplici e complessi non esistenti in natura, dietro i quali chi ascolta fatica ad immaginare la fonte d’origine e l’energia fisica umana causante. Ricondurre un suono alla sua fonte fisica e associarlo a un’attività gestuale causante è una tendenza naturale profondamente radicata nella nostra attitudine all’ascolto, da ricondurre, oltre che a motivi di ordine acustico (come il tipo di propagazione che si irradia da uno strumento acustico vs un altoparlante), all’archetipo del gesto strumentale che affonda le proprie radici nel centenario inconscio audiovisivo della nostra cultura. Nella musica elettronica questo legame con la fonte (“source bonding” è l’espressione coniata da Denis Smalley) perde di intuitività per la ricchezza e la varietà del vocabolario sonoro, che comprende anche suoni sintetizzati artificialmente o fonti il cui grado di “riconoscibilità” risulta remoto poiché processate. La sintesi in particolare permette di attivare un ascolto che in larga misura non possa appigliarsi agli attributi “aneddotici” del suono e alle sue relazioni estrinseche, che fanno cioè a riferimento a un contesto extramusicale, di ascendenza visivo-culturale. Questo “superascolto” che spoglia il suono delle sue relazioni estrinseche e ci porta ad agirlo come spettro (qualcosa di vagamente simile all’ “écoute réduite” di cui parlava Schaeffer) ci stimola a pensare spettralmente e ad affinare la nostra arte percettiva tramite il suono.
Pensare spettralmente richiede un notevole livello di astrazione – e quando la musica è aneddotica o il legame con le fonti molto evidente non è facile per noi separare le informazioni spettrali da ciò che ascoltiamo – ma può potenziare l’esperienza della musica aprendola a nuovi orizzonti percettivi e attivare un’attitudine all’ascolto acuta ed evoluta, in cui l’ascoltatore viene attivamente coinvolto come entità olistica e non come semplice soggetto culturale.
Infine è forse superfluo dire che il motivo principale per cui ho iniziato a lavorare col Buchla è che ha una grande qualità e ricchezza di suono, dando la possibilità di modellare lo spettro a un livello microscopico e avere un controllo infinitesimale su fenomeni acustici e psicacustici. Questo mi ha stimolato naturalmente all’ascolto verticale (cosa che anni di musica classica non avevano fatto), l’ascolto cioè focalizzato sulle relazioni interne del suono, come la densità e la mistura delle armoniche, i loro pattern di rarefazione e compressione, i segreti delle loro variazioni nel tempo e nello spazio, la loro eterna danza.

Come ti poni, a fronte di un disco come il tuo, e ammesso che ti interessi, rispetto all’annosa diatriba analogico contro digitale?

Penso che Vertical suoni male su cassetta. Ci sono frequenze che non si sentono, dinamiche compresse, suoni che perdono di definizione. Penso che le cassette vadano bene per altri tipi di musica, come quelle in cui i suoni sono effettivamente vissuti nell’aria prima di essere registrati e non unicamente passati in circuiti elettrici… Comunque mi piace il tipo di fruizione musicale che la “cassette culture” stimola e penso che questo sia anche ciò che interessi di più alla collana Cassauna di Important Records, così come anche a tante altre etichette di controtendenza.

Insieme ad Alberto Boccardi, uno che conosciamo bene, sei appunto arrivata a Cassauna, un bel risultato. Una grossa sfiga è la tiratura limitata dell’edizione, a fronte di una progressiva crescita d’interesse nei tuoi confronti. C’è modo di rimediare con una ristampa?

Sì, anch’io conosco il bel lavoro di Boccardi (in effetti l’ho conosciuto tramite Cassauna) e sì sono felicissima di collaborare con Important Records… ha pubblicato i dischi degli artisti che più ho ascoltato negli ultimi anni e che più amo (oltre a fare delle grafiche che fanno un uso fantastico della geometria!). A parte riportare alla luce gemme storiche della musica di ricerca, penso che l’Important abbia svolto un ruolo davvero prezioso nel supportare e determinare una scena neo-minimalista, coalizzandone il rinascimento secondo prospettive innovative che hanno prodotto risultati originali. Vorrei che se ne parlasse di più in Italia di questa scena, ma per fortuna c’è Gino Dal Soler (Blow Up) che ha scritto bellissimi articoli sull’“holy minimalism”, in cui si indaga anche il filo conduttore fra l’opera di alcuni artisti editi da Important, fra cui C.C. Hennix, Amelia Cuni, Werner Durand, Eleh e Duane Pitre.
Per quanto riguarda la tiratura limitata sono molto dispiaciuta anch’io, ora sto lavorando al nuovo disco (stavolta non una cassetta!), ma spero in una ristampa di Vertical quanto prima possibile!

Come porti tecnicamente dal vivo il tuo suono? Che ci puoi dire della tua collaborazione audiovisiva con Giovanni Brunetto? Anche lui recupera uno strumento del passato, che poteva sembrare obsoleto (la televisione “catodica”).

Caterina Barbieri: Finora nei concerti ho sempre lavorato con materiale preregistrato col Buchla processato live e associato a interventi di voce dal vivo, rielaborata con effetti che ne de-umanizzino un po’ il timbro. Ora sto cambiando il mio set, che sarà gradualmente meno dipendente dal computer, anche se non ho niente contro l’uso del computer nei live. Adoro la musica acusmatica e non sento la necessità di un contenuto gestuale-visivo associato al suono per goderne appieno. Per quanto riguarda la collaborazione con Giovanni Brunetto posso solo dire che ne sono molto felice e non penso che avrei dato un contenuto visivo alla musica che faccio col Buchla se non mi fossi imbattuta nel lavoro di Giovanni; per il resto lascio rispondere direttamente a lui. Includiamo anche un’anteprima di questa collaborazione in cui potete vedere frammenti della prima versione live di UHV (vuoto estremamente alto) che abbiamo presentato per la riapertura del Teatro AtelierSi a Settembre 2014.

Giovanni Brunetto: L’incontro con Caterina è nato da una mia ricerca di’immagini d’archivio su un periodo storico fondamentale per la musica e la videoarte: il ventennio che va dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta. Ho iniziato a fare degli esperimenti di proiezione mediante diapositive con delle figure geometriche in una sala prove avendo già in mente il nome di questo lavoro UHV (vuoto estremamente alto), ma non immaginavo ancora chi lo avrebbe completato nella parte sonora. Ho consultato decine di siti internet alla ricerca di immagini d’archivio sui pionieri della musica elettronica, le tecnologie video e l’arte visiva dell’epoca per dare una sezione grafica di UHV e ho trovato una foto di Caterina Barbieri davanti a un sintetizzatore Buchla. Scoprendo poi che viveva a Bologna, ci siamo scritti e incontrati a una serata dove lei suonava al TPO e proprio lì le ho proposto di collaborare assieme per un’anteprima di UHV il 26 settembre 2014 all’inaugurazione dell’AtelierSi a Bologna, trovando una corrispondenza nella sua musica alla sensibilità delle immagini generate.

UHV (vuoto estremamente alto) è nato da una curiosità storica per quello che riguarda l’utilizzo di vecchie tecnologie per la produzione di una sequenza di immagini manipolabili dal vivo. Ho rinunciato sin da subito al computer in quanto non volevo creare un visual moderno da abbinare a un set di musica elettronica, ma volevo spingermi oltre, servendomi solo di apparecchiature ormai desuete come proiettori da diapositive classici, videocamere, immagini delle onde sonore catturate da un oscilloscopio, monitor a tubo catodico, utilizzando le immagini proiettate in diapositiva abbinate alla tecnica del feedback video generato da telecamere e videoproiezione, e contestualizzare il lavoro alle applicazioni odierne (negli anni Settanta utilizzavano i tubi catodici essendo i videoproiettori ancora lontani dall’essere realizzati). Anche il set scenografico di UHV si avvale di oggetti d’epoca per ricreare visivamente una specie di studio di ricerca.

La ricerca filosofica, scientifica e architettonica sul concetto di “vuoto” fisico e psicoanalitico ha generato una serie di “parole chiave” che hanno sintetizzato il lavoro e mi hanno permesso di dare un’immagine ad esse tramite un progetto di realizzazione grafica (l’unica volta che ho fatto ricorso al computer) di mie immagini originali, facendo degli studi sui tipi di colore e le forme da utilizzare (principalmente figure geometriche ispirate alla Bauhaus e all’arte suprematista e dadaista).

Ho realizzato più di un centinaio di miniature da 36 per 25 millimetri (il formato delle diapositive fotografiche) che poi sono riuscito a fare stampare con un processo di impressione fatto in studio in modo da ottenere le pellicole necessarie da montare sui classici telaietti di plastica da dispositiva, ormai è quasi impossibile riprodurre file digitali su diapositiva, ma io ci sono riuscito! L’esecuzione dal vivo è abbastanza complessa, in quanto per ottenere i risultati desiderati devo lavorare con più macchinari contemporaneamente (un diaproiettore, due telecamere, un oscilloscopio collegato a un piccolo mixer e un equalizzatore video, due videopoiettori); ciò comporta in assoluto l’impossibilità di replicare in maniera identica gli effetti creati, rendendo tutto molto fisico. Di fatto l’esecuzione delle immagini si avvicina concettualmente più a un concerto fatto con degli strumenti, in quanto la variabile è molto umana e, a parte le immagini già preimpostate delle diapositive, il resto è generato dall’umore del momento e dal riscontro emotivo.

Attualmente UHV è in fase di ulteriori prove e registrazioni su nastro analogico (tramite vecchi registratori professionali Betacam e U-matic) per realizzare un video completo dell’opera sonorizzato da Caterina Barbieri e riportare UHV per dei momenti live come al suo esordio nel settembre 2014.

Abbiamo scritto un articolo un po’ più lungo del solito su di te e sui tuoi progetti. Abbiamo però solo accennato a Sex With Giallone, poi è uscito il disco in free download e abbiamo scoperto un gruppo molto viscerale, che riesce a far convivere una miriade di spunti, senza annoiare, senza andare a caso per il gusto di andare a caso. Come può saltar fuori una cosa del genere? Ce lo racconti?

Sex With Giallone è la band con cui ho iniziato a suonare al liceo. Una volta una persona l’ha definita una stella a cinque punte e per ora non ho trovato descrizione migliore. Tutti i cinque membri della band, infatti, hanno background e inclinazioni divergenti ma il potenziale centrifugo è tenuto insieme da una logica collettiva che prescinde dai singoli e che si è magicamente cementata negli anni in cui siamo cresciuti insieme, condividendo un sacco di ascolti ed esperienze. I pezzi del disco We Had A Room At Tropicana Motel sono stati composti nei primi anni di collaborazione tra il 2010 e il 2011, purtroppo le fasi di registrazione e mixaggio poi hanno richiesto tempistiche più lunghe, a causa degli svariati impegni che ci hanno diviso e rallentato il lavoro. Considero una prova di decenza la trasgressione dell’appartenenza stilistica a un genere o a una scena in un panorama musicale omologante come quello di oggi. I Sex With Giallone si sono sempre mossi lungo questo solco. Come dici tu nel disco convivono una miriade di spunti diversi, che fanno un po’ evaporare le categorie. C’è un focus psichedelico onnipresente ma con influenze da kraut, dark folk, no wave. Le voci slittano dall’hip hop al grunge e alla plasticità gothic pop anni ’90. Abbiamo sempre vissuto il fatto di mescolare diversi stili come una necessità vitale, da conquistare anche con violenza e in questo sta l’anima punk del gruppo.