Stefano Pilia: dialoghi dell’immaginario

STEFANO PILIA, Decay Music N.2: In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni

Stefano Pilia: dialoghi dell'immaginario

Stefano Pilia ci conferma ancora di attraversare un felice momento creativo e, dopo l’eccellente Dark Night Mother in compagnia di Massimo Pupillo, torna a illuminarci con un nuovo album, diverso dai precedenti ma quanto mai ispirato e suggestivo.

Dovete sapere che, poco prima di essermi addentrato nelle trame nascoste di questo … In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni, avevo finito di guardare per la prima volta “Antichrist di Lars Von Trier, credo tra i film più ricchi di pathos e tensione oscura del regista danese, totalmente immerso in una simbologia occulta dai risvolti psicoanalitici particolarmente foschi e agghiaccianti. Quando poi, durante gli ultimi bagliori crepuscolari di una fresca serata, ho ascoltato “Caduta”, la prima traccia, questa mi ha portato inconsciamente a collegare l’impatto emozionale delle sue sonorità con alcune sequenze del film, specie quelle in cui le anime dei due protagonisti sprofondano tragicamente nella foresta ombrosa delle loro coscienze perturbate. Nei giorni successivi, continuavo a riformularmi nella testa l’incipit iniziale del film con quel medesimo brano, e poco importava se invece nella colonna sonora originale la musica fosse quella di “Lascia Ch’io Pianga” di Händel. Come ovvio, questa mia proiezione non poteva che essere strettamente personale, ma rimaneva comunque il sintomo lampante di quel potenziale immaginifico che accompagna da sempre la musica del chitarrista genovese. Tuttavia, a ben guardare, e al di là di ogni possibile coincidenza e libera associazione, c’era una cosa, anzi più di un elemento, che poteva in effetti farmi accomunare il film di quel regista con l’arte lirico-visionaria di Pilia: da un lato c’era proprio il ricorso alla figura-archetipo della “caduta”, e l’intero snodo narrativo della pellicola partiva proprio dal salto nel vuoto del bambino; dall’altro c’era quel denso alone esoterico, che permea (ed è costantemente presente anche in) tutte le tracce. Di fatto Stefano, nella realizzazione di questo lavoro, ha voluto condensare con passione diversi suoi interessi filosofici e letterari. Il senso poetico del tutto si definisce perciò nel racconto di una “caduta” nel mondo o più in generale del manifestarsi dentro a un processo e il suo consumarsi” (Pilia, vedi intervista più sotto),  idea che si ricollega alle teorizzazioni di Hillman sulla natura specifica del daimon, quella personalità unica e irripetibile che esiste in ciascuno di noi e costituisce l’emblema della nostra esistenza: Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino. (J. Hillman, Il Codice Dell’Anima). Del resto, la prospettiva magica del disegno generale è già tutta insita nel titolo palindromo di derivazione dantesca, combinazione curiosa di endecasillabi che rispecchia anche la ricercata simmetria delle forme sonore, con ogni traccia che si sviluppa in maniera speculare rispetto a un’altra. In questo modo, il materiale e le soluzioni armoniche di base sono oggetto di una ri-contestualizzazione, ottenuta tramite un ardito gioco di specchi e lenti concave e convesse, secondo un libero ma coordinato processo di sottili analogie. In “Caduta”, come già lasciavo intendere, possono palesarsi tanto i nostri desideri come le nostre iperboliche incertezze. È uno spleen sofferto ed epico dall’acuto respiro sinfonico, con l’incedere sacro e solenne della chitarra; sono trionfi di immagini allo stesso tempo di ascesa e discesa, è come dimorare in un perenne limbo, naufragare lentamente nell’abisso di un vortice di memorie fisiche e psicologiche. Tuttavia, l’archetto sulle corde sembra anche creare spirali di luce, come nell’aprirsi arioso e luminoso delle cupole barocche. Con “Salita” troviamo le stesse linee armoniche della chitarra, ma questa volta restituite in maniera più concitata, distorta e nervosa. Rifacciamo il medesimo percorso all’inverso, e per quanto il rapporto tra ascesa e discesa rimanga inversamente proporzionale, il viaggio si fa più complesso, si perde in anfratti ignoti che sono sempre fantasmi, presenze e strane apparizioni. Nelle tracce speculari 3 e 6, il richiamo alle misteriose figure femminili della Sirena e della Melusina amplifica invece il sentore mitologico della narrazione e può svelarci i segreti di un antico mondo marino. All’inizio del primo brano c’è come un tonfo oceanico, quasi perfetto rimbombo delle grotte tra gli scogli. Il violino elegiaco di Rodrigo d’Erasmo ha il sapore delle rugiade autunnali, e incarna al meglio quella vibrazione esoterica che avvolge tutto il disco. Quelli di “Sirena” sono puri lumen drones, echi ancestrali di voci lontane tra le pietre, in cui maggiormente si percepisce il legame e l’affinità di Pilia con certa musica dalle tonalità sacre, in particolar modo con quella di un autore come Arvo Pärt. Non è forse un caso, ma io ci leggo soprattutto un’inconscia tensione tipicamente nordica, che mi ha riportato a diverse atmosfere proprie del suono rarefatto di molti artisti dell’orbita ECM. Troviamo simili echi nella corrispondente “Melusina”, dove la chitarra esibisce il suo procedere più lento e meditativo. Ora il dialogo è ancora più dimesso e silenzioso, ode sublime alla notte incantata, gemito finale e sofferto, con quella sospensione del tempo propiziata dalle cesellature preziose del piano di David Grubbs, quasi un rimando al minimalismo estatico di Brian Eno. Durante “In Girum Imus Nocte” aleggiano temi elettro-acustici ricorrenti, ma restituiti con spirito e prassi decisamente più tortuose e destrutturanti. Troviamo le solite interferenze zonali della mente, gira e rigira di traiettorie oblique, frammenti di fotogrammi rallentati o accelerati, sibili criptati di materia granulosa. Lo stesso procedimento vive in “Et Consumimur Igni”, dove l’inserimento della voce umana, tratto già fortemente distintivo in Dark Night Mother, interviene come valore aggiunto nella resa drammaturgica di un disco dal così forte impatto narrativo. I canti polifonici di Palestrina diventano perciò come nastri invertiti e alterazioni oniriche, filtraggi eterei di infiniti singhiozzi gutturali. Con questo nuovo parto creativo, il secondo pubblicato per l’etichetta milanese Die Schachtel dopo Action Silence Prayers del 2008, Pilia raggiunge come mai in passato il giusto equilibrio tra sperimentazione e immaginario extra-sonoro, e lo fa con esiti compositivi assolutamente coerenti ed omogenei.

Intervista a Stefano Pilia

Stefano Pilia

Mai come questa volta, la tua musica rivela un perfetto equilibrio tra ricerca formale e immaginario extra-sonoro. Il titolo dell’album richiama un famoso palindromo di derivazione dantesca, e racchiude in sé anche la fisionomia simmetrica, di ciclicità armonica con la quale hai concepito il lavoro. Quali sono state le principali coordinate, impressioni e visioni che ti hanno accompagnato lungo questo nuovo percorso creativo? 

Stefano Pilia: Il palindromo in questione è in realtà considerato di origine virgiliana, seppur non ve ne sia traccia nella sua opera. L’associazione dantesca – seppure Dante non usasse il latino – deriva dalla sua forma endecasillaba, metro tipico della Commedia, ed è certamente dovuta pure al fatto che venga appunto attribuito a Virgilio, psico-pompo del viaggio dantesco. Forse le coordinate più importanti di questo lavoro si trovano soprattutto in campo letterario e poetico: oltre alla Divina Commedia, anche altre opere dal sapore biblico o legate al senso del mito come “Moby Dick” oppure “Valis” di P. K. Dick, poi la poesia di Whitman e di Emily Dickinson, l’opera di Jung e Hillman. L’incontro stesso con il titolo è arrivato perché stavo cercando di costruire un percorso armonico che tornasse numericamente con gli endecasillabi danteschi, e nella costruzione della sequenza mi sono accorto di aver individuato una matrice di 16 accordi con delle proprietà simmetriche interne. Così, nell’elaborare diverse modalità di lettura della matrice, ho generato una sequenza armonica palindroma. Ho iniziato a cercare endecasillabi palindromi e con grande sorpresa ho incontrato appunto “In girum imus nocte et consumimur igni” (“giriamo in tondo nella notte ed, ecco, veniamo consumati dal fuoco”). Il titolo era perfetto sul piano formale ma racchiudeva appieno anche il senso poetico ed esoterico del lavoro: il racconto di una “caduta” nel mondo, più in generale del manifestarsi dentro a un processo e il suo consumarsi.

Nel brano d’apertura “Caduta”, l’incedere solenne della tua chitarra può suggerire, oltre a un pregevole “respiro” di dimensione sinfonica, anche un tocco epico che ben si sposerebbe ad alcune sequenze cinematografiche. In tal caso, quanto può essere per te importante il comporre per immagini nella ricerca delle giuste armonie?

Questo è un argomento su cui, a mio avviso, si dicono spesso cose a sproposito. Suono e Musica possiedono un forte potenziale evocativo e credo che ancora di più certa musica che opera su una diversa percezione del tempo e dello spazio o che esce, per così dire, da linguaggi formalmente più codificati, tenda a stimolare un alto potenziale immaginifico e sinestetico. Spesso nel parlarne ne scaturisce poi un paragone con il cinema. Come se a tutti i costi quel potenziale immaginifico dovesse essere espresso in qualcosa oppure completato o addirittura soppresso da qualcosa. Credo invece sia fondamentale che questo aspetto rimanga appunto “in potenza” e crei spazio di proiezione attiva per chi ascolta. Credo che sia uno dei principi di funzionamento di certe musiche, l’ascolto come esperienza attiva e generativa. Non più solo un soggetto che ascolta od osserva un oggetto, ma una trasformazione reciproca dei due poli. Forse sì, hai ragione, su un certo piano estetico si sposerebbe bene con una sequenza visiva, ma cosa ne rimarrebbe della possibilità di evocare immagini nella mente dell’ascoltatore se quel campo venisse già occupato da altri contenuti visivi? Perché rubare qualcosa a chi ascolta? Voglio offrire un’esperienza in cui opera e ascoltatore possano congiungersi. Credo che le musiche per il cinema o la scelta di certe musiche nel cinema nascano invece da presupposti e finalità diverse, che spesso servono ad esprimere altri significati. Perdonami, ma sono molto critico su questo tipo di argomenti perché trovo molte esperienze di accostamento tra musica e immagini completamente fallimentari. Sia nel cinema, sia in molti lavori e live audio-visuali, sia in certa musica per il cinema presentata fuori dal cinema. Spesso queste operazioni si inibiscono vicendevolmente, sottraendo funzioni e dinamiche importanti proprie degli atti percettivi. Per rispondere poi alla tua domanda, direi che non compongo quasi mai lavorando per immagini, ma cercando di costruire un certo tipo di percezione del tempo e dello spazio e di individuare all’interno di queste coordinate un percorso drammaturgico e in parte anche narrativo. Tuttavia devo riconoscere che, talvolta, certe idee per alcuni brani sono arrivate proprio a partire da commissioni per sonorizzazioni. Ma diciamo che poi queste idee si sono completamente alienate dal loro contesto, germinando in suggestioni larghe ed extra-musicali per lo sviluppo di altro materiale, che nulla aveva poi a che fare con sequenze per immagini. 

Oltre a una omogeneità formale, la trama segreta di queste sei tracce è pervasa da una costante componente magico-esoterica, che nel caso delle speculari “Sirena” e “Melusina” mette in gioco due figure femminili mitologiche molto forti. Questo richiamo naturale a un immaginario marino è connesso in qualche modo anche ai tuoi trascorsi liguri? È riconducibile a un legame intimo e personale con l’acqua e il mare?

Non saprei. Non ci ho mai pensato in questi termini. Potrebbe essere. Il mare stesso come luogo dell’inconscio da cui nasce la vita e nel quale come il sole tramontiamo e risorgiamo. In questo caso mi interessavano le figure della Melusina o della Mermaid come indizi dell’inconscio e della sua natura femminile, talvolta fate, talvolta lamie che turbano il viandante provocandone lo smarrimento. Presenze che evocano o annunciano una Nekyia e il viaggio nel mondo dell’Ade.  Entrambi i trittici del disco (lato A e lato B) sono simbolicamente il racconto di un venire al mondo, del suo manifestarsi e consumarsi.

Il violino elegiaco di Rodrigo D’Erasmo in “Sirena” apre a pure sonorità di natura ancestrale, quasi un “lumen drone” dalla forte tensione nordica, come nei brani più atmosferici di Paul Giger per ECM. Qual è il tuo rapporto con una certa “vibrazione nordica”, che può ricondurre anche ad autori sacri come Arvo Pärt?

Non conosco il lavoro di Paul Giger e non mi è ben chiaro cosa intendi per “vibrazione nordica”. Certamente posso dirti di sentirmi molto solidale con la musica di Arvo Pärt e col suo approccio alla tonalità. Antico e nuovo allo stesso tempo, il senso dell’uno e della triade tonale sempre presente ma sempre cangiante attraverso il contrappunto del tintinnabuli, il risuonare della polifonia antica in un modo rinnovato. Mi interessa molto anche il modo in cui Philip Glass lavora, ad esempio, sul movimento delle terze e questo continuo ondeggiare tra minori e maggiori. E altrettanto il lavoro di molti minimalisti sulla “just intonation”, il rapporto tra suoni armonici e lo sviluppo di geometrie legate alle serie armoniche. Poi ascolto molta musica antica fondata sul contrappunto e sulla tonalità: Bach, Palestrina, Monteverdi, ad esempio. In generale trovo il lavoro sulla tonalità e sulla sua articolazione interna un terreno sempre incredibilmente significativo, capace di racchiudere un senso di verità universale che va al di là di qualsiasi discorso storico o storicizzato o idealizzato sull’argomento. Mi torna ora in mente Pierre Schaeffer stesso: persino lui, teorico dell’arte degli oggetti sonori, padre della scuola della musica concreta francese,  affermava poi – forse anche in modo eccessivamente critico rispetto al suo incredibile lavoro – di ritrovarsi, alla fine di tutte le sue ricerche, ad ascoltare soprattutto Bach.

Nel brano “Et Consumimur Igni” hai utilizzato campioni di parti vocali di Palestrina, canti sacri polifonici che diventano quasi della alterazioni oniriche dagli umori “eterei”.  Quanto è stato importante per te l’elemento della voce, specialmente per accentuare il tono drammatico di un disco dal forte impatto narrativo come In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni?

All’inizio non prevedevo di sviluppare il brano in questo modo. Simmetricamente, i due trittici si rispecchiano traccia per traccia e condividono delle modalità operative e compositive. Alla conclusione del trittico presente sul lato B mancava la traccia centrale “Et Consumimur Igni”. Non riuscivo a trovare delle matrici armoniche con un certo grado di simmetria interna che risultassero interessanti, come per “In Girum Imus Nocte”, cosi ho deciso di tentare con una sorgente diversa dalla chitarra: musica per coro. In pratica ho mantenuto come modalità operativa lo stesso tipo di elaborazione del segnale – la granularizzazione e il lavoro con il delay stereofonico – ma utilizzando come sorgente sonora la musica di Palestrina. La presenza stessa della voce umana, cosi come hai sottolineato tu, aggiungeva un nuovo senso semiotico a tutto l’album. Solo a quel punto ho sentito che il lavoro si era magicamente completato.