Con Claudio Rocchetti nel suo Labirinto Verticale

La prima immagine che l’ascolto di “Non Essere Freddo” mi dà, appena posata la puntina sul disco, è quella dell’organicità. Labirinto Verticale dovrebbe essere il decimo solista di Claudio Rocchetti, ed è un insieme di suoni nati e scelti durante il suo lavoro con Lenz Fondazione nell’arco degli ultimi quattro anni. Rocchetti mi ha sempre lasciato l’impressione di un musicista che gode nel controllo, nel far confluire in fili e composizioni metodiche e finite flussi e forze che potrebbero deragliare in maniera davvero rumorosa. Non fa eccezione questo disco, evocativo ed in qualche modo ieratico, quasi suonato da un’orchestra di spiriti. Sentite “Questa Debole Forza”presenze ed energie che vengono manipolate fino a perdere materia in quel che pare un gioco di specchi. I suoni, i versi, le arie, sembrano stringersi attorno a un microcosmo cupo ed ecclesiastico colmo di tormento, mai esibito (il controllo, ricordate) ma c’è quella sensazione che fa trasfigurare i volti e rabbrividire le schiene. Le voci si sovrappongono, potrebbero venire da altri pianeti e da altre specie, e “Sono Molto Teso”il titolo della parte in questione, suona come un leggero eufemismo.

Giriamo il disco, accomodiamoci e facciamo partire il pezzo che dà il titolo a tutto l’album. È una summa, ma anche un amplificatore di quanto vissuto finora, con relativi straniamento e dispersione, voci e latrati che ci confondono come le sirene di Ulisse, tanto che – a fermarsi in quel dedalo – c’è il rischio di chiedersi se questo rollio, se questi suoni stiano fuori dalla nostra testa o siano un sintomo del nostro progressivo impazzimento.

Il fatto, infine, che tutto questo sia un oggetto relativamente piccolo, racchiuso in una Schachtel, lo rende simile a un carillon del dolore.

Considerata l’importanza che diamo a quest’uscita, abbiamo raggiunto Claudio per fargli qualche domanda.

Claudio, a che punto del tuo percorso artistico ti senti? Ascoltando Labirinto Verticale e pensando alla tua discografia ho sempre ritenuto riuscissi a dosare in maniera personale ed agile la furia e la fisicità del tuo suono materico con il corollario concettuale dei tuoi dischi. In quest’ultimo ci sento una profondità ed una sintesi che mi fanno pensare possa essere un punto dopo il quale andare a capo. Riascolti spesso i tuoi lavori? Che effetto ti fanno?

Claudio Rocchetti: Credo che Labirinto Verticale possa essere considerato il primo approdo di una serie di nuove esplorazioni. Il materiale è nato per interagire con testi e azioni teatrali, quindi in un contesto molto diverso rispetto al passato. Ovviamente le connessioni e gli intrecci con i precedenti lavori sono sempre presenti, mi porto sempre dietro suoni e ambienti, anche solo in forma di citazione a volte, ma comunque in ogni nuovo disco sono presenti parti spurie di quelli precedenti. In genere non ascolto i dischi finiti, ma appunto continuo a lavorare e ri-lavorare i suoni contenuti in quei lavori.

Labirinto Verticale è in qualche modo un concentrato della tua collaborazione con la Fondazione Lenz in questi ultimi 4 anni. Ascoltandolo, così come altri due lavori da me approfonditi di recente, quelli di Bruno Dorella e di Fabrizio Modonese Palumbo, la scintilla di partenza ed il contesto sembrano scomparire rispetto alla storia che musicalmente viene narrata, sfatando completamente il mio timore di una fruizione monca dell’opera. Quando hai deciso che quanto stavi facendo aveva raggiunto lo spessore necessario per essere inciso? Che riflessione e che gestazione ci sono state dietro questo disco?

La collaborazione con Lenz è iniziata grazie soprattutto alle solide basi comuni che ci legano. In questo senso, pur essendo musica “funzionale” a quel contesto, mi sono sempre mosso in completa libertà ed ho sviluppato un percorso che era già iniziato con Memoria Istruttiva. Il disco poi è una selezione dei materiali più musicali, per Lenz ho prodotto svariate ore di suoni, per questo funziona perfettamente anche al di fuori del contesto teatrale. Le parole chiave che hanno contraddistinto il lavoro con loro sono le stesse che mi ronzano in testa da anni… Memoria, stratificazione, assenza fantasmica, questa è stata l’occasione per vedere il tutto da un punto di vista per me inedito.

La figura del Labirinto Verticale si è avvicinata molto a quella che mi sono immaginato con un disco che ho amato molto di recente, Axis Mundi di Gianluca Becuzzi. L’esplorazione delle viscere e delle profondità, questi sentieri di catarsi e di passioni; cosa significa ad un certo punto staccarsi da una propria opera? Credi di aver trovato l’uscita del labirinto, concludendolo? Che tipo di viaggio vorresti suggerire all’ascoltatore: perdizione completa e senza freni od ascolto attento e vigile?

Mentre in passato la narrazione era più chiara, per esempio in Memoria Istruttiva la sensazione di viaggio, scoperta e naufragio era diretta e leggibile, in questo disco si tratta di esplorazioni più astratte (qualcuno direbbe spirituali). Osservare la vita non come una linea retta o contorta, ma come un susseguirsi di scelte ed ostacoli, un labirinto che punta verso l’alto. Ma non sempre la ricerca di assoluto porta a chiarezza, a volte il cielo e la terra si invertono e il labirinto ci spinge in luoghi oscuri. Credo che il percorso di questo labirinto sia senza uscita. C’è quasi da augurarselo, che ci si perda o meno, il labirinto verticale è senza fine.

Con questo disco ritorni su Die Schachtel dopo 15 anni, periodo quello in cui alcuni musicisti diedero un bel giro di vite ad un certo tipo di suono partendo dall’Italia. Come te Andrea Belfi e Stefano Pilia, che proprio di recente sono tornati con due album intensi, maturi ed unici, come Spiralis Aurea ed Eternally Frozen. Che tipo di slancio prese vita attorno alle produzioni di Bruno Stucchi e di Fabio Carboni? Ricordo gli anni dei concerti all’Artoteca a Milano in cui mi si aprì letteralmente un mondo dal vivo, poi tutto il discorso legato all’accesso a dischi ed a compositori laterali e dimenticati, vicino alle più piccole autoproduzioni da Soundohm. Vedi altri agglomerati artistici così compositi altrettanto fertili in giro? Dove cercare una simile coesione espressiva in Italia od altrove?

È un ciclo molto lungo che torna a ripetersi (ma non a chiudersi), si ripassa dal punto di partenza, ma nel frattempo quel punto è cambiato completamente. Soundohm e Die Schachtel sono due realtà che – nonostante le mutazioni – continuano ad essere un riferimento per intere scene musicali, degli snodi importanti attorno al fare e pensare suoni (e non solo). Del periodo che ricordi mi piacevano soprattutto l’energia e la sensazione di partecipare a qualcosa di vivo ed aperto al futuro. Da qualche tempo non sono molto in contatto diretto con situazioni o scene particolari, quindi non saprei rispondere nei dettagli, ma non ho dubbi sulla fertilità delle nuove musiche. Certo dobbiamo cercarle e a volte ci vogliono pazienza e tempo, ma questo sta a noi…

Labirinto Verticale è il racconto di parte degli ultimi quattro anni musicali. Nel frattempo su che altri lidi ti sei mosso e ti stai muovendo? Hai già materiale in cantiere oppure ti concentrerai su questo al momento? Speranze di risentire Geodetic nel prossimo periodo per caso?

La casa editrice, Black Letter Press, assorbe molto delle mie energie creative e ne sono felicissimo. Sul versante creativo ti posso anticipare una nuova uscita Geodetic per Instruments Of Discipline nel prossimo futuro e un mio libro, “An Imitation of Life”, per Kohlhaas. Più la solita massa di progetti che si stratificano, mescolano e poi ad un certo punto trovano uno sfogo in un qualche modo…

Negli ultimi anni, appunto, a fianco della musica, hai iniziato anche con l’editoria, nello specifico con Black Letter Press insieme a tua moglie Alice. Testi magici, occulti, storici, finemente rilegati, ricercati e belli anche solo a vederli da lontano. Agendo anche sotto questo cappello che tipo di pubblico hai ritrovato? In qualche modo sovrapponibile a quello musicale oppure sono due mondi profondamente diversi? Che tipo di impegno vi porta gestire Black Letter Press e che tipo di progettualità avete con essa?

Black Letter Press è il frutto delle mie esperienze e ricerche personali che incontrano quelle di Alice, la casa editrice è possibile grazie all’incontro dei nostri percorsi, ci si completa. Il pubblico in questo caso è diviso equamente tra collezionisti e accademici. La qualità editoriale si accompagna a ricerca e traduzioni al massimo livello, cerchiamo di differenziarci alzando l’asticella della qualità ad ogni uscita. Ci sono punti di contatto con il mondo musicale, ma tendenzialmente è un pubblico nuovo per me.

Che tipo di ascoltatore sei? Come vivete la musica in famiglia? Come reagisce tua figlia ai tuoi suoni? Curiosità o repulsione? Sei riuscita a terrorizzarla con l’ultimo disco?

La musica è centrale nelle nostre giornate. La radio è sempre accesa, si va, per quanto possibile a concerti o spettacoli, e di solito non facciamo differenza tra pop, musica per bambini, metal o avant che sia… la musica è musica, il suono è interessante o non lo è (oppure divertente, spaventoso…). Questo finora ci ha permesso di divertirci molto: Olivia, la figlia più grande, tende ad apprezzare chitarre e melodie ripetitive ed a descrivere la musica in termini narrativi. Non ti dico le storie che sono saltate fuori mentre lavoravo ai demo di Labirinto, un po’ Timothy Leary un po’ Edward Gorey!