Tristan Da Cunha: going for the Unknown

Tristan Da Cunha – foto di Letizia Marazzi

Ho parlato varie volte dei due Tristan Da Cunha (Pavia) e del loro “honest post-rock”, così come lo hanno battezzato da soli. Oggi l’isolazionismo del nome influenza ancora di più il sound della band. Provo a partire dalla batteria, buttando giù un listone, una di quelle cose che si può fare solo per iscritto senza che ti ammazzino: Lê Quan Ninh, Jason Van Gulick, Vanessa Tomlinson, René Aquarius, Mike Weis, Cevdet Erek, Balázs Pándi, Samuel Rohrer, Steven Hess, Riccardo La Foresta, Andrea Belfi sono batteristi che hanno reinventato il suono del loro strumento in chiave atmosferica o elettronica, tanto che potrei usare paroloni tipo “decontestualizzazione” o “decostruzione”, ma io a scuola non ci voglio tornare. Semplicemente, se uno va a sentire alcuni di questi musicisti, gli viene più facile capire cos’hanno fatto i Tristan Da Cunha, microfonando a modo loro piatti e timpano, riutilizzando queste registrazioni alla ricerca di un mare nascosto (o di “un porto sepolto”, ma non ci torno a scuola, l’ho già scritto), profondo, buio, atemporale. Pieno di band che provano a trasportare l’ascoltatore in un’altra dimensione, qualcuna ci riesce di più e qualcuna meno: i Tristan Da Cunha qui alzano in piedi in tempo zero uno scenario totalmente diverso, credibile, percepibile come reale anche se non l’abbiamo mai visto prima. A dare un’identità separata a questi pezzi rispetto a quelli di altri “batteristi aumentati” provvede un lavoro molto discreto sulla chitarra, che si integra col resto senza mai occupare l’inquadratura. E forse qui ho indovinato nel dare Mark Nelson come riferimento.

Un altro pregio di Hidden Sea è la concisione, quella bella di alcuni dischi del passato che amiamo tutti: mezzora basta per questa discesa in regioni da un lato affascinanti, dall’altro pericolose. Io ve lo dico: vi cagherete in mano.

Segue intervista a Francesco e Luca. Nota personale: detesto re-intervistare le stesse persone, di recente mi è capitato con Andrea Cauduro (prima da solo nel 2023, poi per Chaos Shrine), poi con loro due (prima per Bosco Sacro nel 2023, poi adesso per Tristan Da Cunha), ma mi seccava dare poca rilevanza a Hidden Sea.

Noi ci scriviamo da tempo. Non tutti quelli davanti allo schermo, però, sanno come si sono conosciuti i Tristan Da Cunha e perché vi chiamate così. Mi aiutate? Con un nome simile non dovrei sorprendermi, ma vorrei soprattutto che ci diceste perché in ogni disco (anche in quest’ultimo) c’è così tanto mare…

Francesco Vara (chitarra): I Tristan Da Cunha nascono nell’agosto 2016. Io e Luca stavamo attraversando un momento molto difficile delle nostre vite personali. Ci siamo trovati in sala prove a suonare quelli che sarebbero diventati i nostri primi brani, per noi assolutamente terapeutici. Tristan Da Cunha è l’isola abitata più lontana da tutto il resto del mondo, ed è lì che idealmente avremmo voluto essere in quel momento. Il mare è la distanza, ma anche la misura di noi stessi. Nei nostri dischi abbiamo cercato di descrivere e dare suono a questo “mare” da diversi punti di vista e declinazioni. In quest’ultimo disco il mare diventa metafisico.

All’inizio vi siete autodefiniti “honest post-rock”. Uno dei motivi per cui vi voglio bene è proprio che non vi inventate le cose. Quali band vi hanno fatto da nume tutelare (che non vuol dire “quali band avete copiato”) all’inizio?

Francesco: Diciamo che non c’è stata una band di particolare ispirazione per noi, ma posso citare gli ascolti che mi hanno più influenzato come chitarrista, soprattutto nel periodo dei nostri primissimi brani: Earth e Dylan Carlson su tutti, John Fahey e il primitivismo americano in generale, i Talk Talk di Laughing Stock.

Ci ho messo molto poco a capire che Hidden Sea sarebbe diventato uno dei miei ascolti ricorrenti del 2024. C’è un grandissimo lavoro, molto personale, sul suono, un modo molto contemporaneo di riscoprire la batteria. Com’è successo? Anche spunti esterni? Un po’ di Labradford? Un po’ di Thomas Köner?

Francesco: Mi fa molto piacere il richiamo ai Labradford (ma anche Pan American), una delle mie band preferite di sempre, soprattutto nel disco omonimo Labradford.
Il processo di composizione di Hidden Sea è stato molto impulsivo e naturale, un mondo misterioso (sul serio!) da esplorare man mano che l’intuizione veniva a galla, lasciandoci stupire dal fluire della composizione. Possono aver contribuito ascolti recenti come Eliane Radigue, Nurse With Wound, Iannis Xenakis.

Luca Scotti: Hidden Sea è nato da un’idea che ballava nella mia testa da un po’, quella di registrare e catturare le frequenze (in questo caso le frequenze dei piatti della batteria) che sono udibili solamente avvicinando l’orecchio alla fonte sonora. È stato possibile registrare tutto il disco usando esclusivamente un registratore zoom H1 che abbiamo posizionato a pochi millimetri dalle fonti sonore, abbiamo raccolto diverse registrazioni di basse frequenze dei piatti, creando così dei drone che abbiamo successivamente campionato e leggermente elaborato. Da qui il nome Hidden Sea, un “mare nascosto” di suoni e frequenze che normalmente non sono udibili.

Per quanto riguarda gli ascolti, personalmente per questo disco devo molto al geniale ed eccezionale batterista Andrea Belfi: ho tratto totale ispirazione dai suoi metodi e dal suo uso innovativo e non convenzionale dei suoni della batteria.

Inutile dire che per mesi i miei ascolti sono stati i suoi dischi, in particolare Natura Morta e Ore, consumati nel mio stereo…

Siccome Gem dei Bosco Sacro è stato uno dei dischi belli del 2023 per tante persone, è impossibile non parlarne e vi chiedo: avere i Bosco Sacro ha influenzato questa strada più difficile che avete intrapreso come Tristan Da Cunha?

Luca: Di sicuro il percorso con Bosco Sacro ci ha fatti crescere artisticamente, musicalmente e personalmente, grazie anche alle molte esperienze live che abbiamo vissuto ma non parlerei di influenza diretta su questo disco da Bosco Sacro, anche se per certo Bosco Sacro ci ha dato una gran voglia di fare qualcosa di nuovo come Tristan Da Cunha, qualcosa che staccasse dal passato del nostro duo e credo che musicalmente questo stacco si senta.

Per me Hidden Sea è introspezione. In alcune fasi dell’album, molto cupe, per colpa vostra mi trovo a vagare nella mia testa e a dirmi “no, non aprire quella porta”, “non andare lì”. A che cosa associate voi Hidden Sea?

Francesco: Hidden Sea è risultato alla fine essere un disco sulla Paura, intesa come sentimento puro.
Abbiamo tentato di dare una forma a qualcosa che non ha contorni definiti, è inconoscibile e appartenente ad un non-reale, ma che è comunque dentro di noi.

Luca: Io associo Hidden Sea al buio per eccellenza, al cui interno vivono forme, creature e suoni che non sempre crediamo esistere ma esistono.
Mi è capitato di ascoltare Hidden Sea nel mio salotto di notte dopo il lavoro e giuro che non sono riuscito a finire l’ascolto perché me la stavo facendo sotto.

Dissipatio si impegna a tenere in piedi l’underground specificamente italiano, un lavoro che fanno sempre meno etichette (Maple Death, Kohlhaas…). Come siete entrati in contatto? Quali dischi vi hanno colpito del catalogo?

Luca: Nicola Quiriconi è nostro amico da parecchi anni, forse dagli albori dei Tristan, e per noi è stato naturale proporgli Hidden Sea, perché credevo fosse molto affine alle sonorità che propone con i progetti della sua etichetta.
Il mio disco preferito uscito per Dissipatio? How Far Can You See? dei Satan Is My Brother.

Francesco: Dissipatio etichetta splendida e coraggiosa, con un catalogo interessantissimo; un disco che ho amato particolarmente è Ten Rooms Under The Sea degli Open To The Sea, che consiglio a tutti di ascoltare. W Nicola!

Ce la farete a portare dal vivo Hidden Sea? Intendo anche tecnicamente, a livello di performance.

Luca: Nel momento in cui scrivo abbiamo pochi giorni fa fatto la prima data di Hidden Sea a Genova. Siamo riusciti a creare una versione del disco dal vivo che porta in scena tutti i suoni che trovate nel disco, ma che ci lascia molto spazio anche per improvvisare e aggiungere riff di batteria e chitarra, quindi si può dire che Hidden Sea ha due facce, quella nata in studio e quella che ogni volta nasce live.

Francesco: Hidden Sea dal vivo è magmatico e sorprendente, per noi in primis, e non vediamo l’ora di suonarlo ancora.