Nelle zone fantasma dei Sister Iodine

Sono Erik Minkinnen e Lionel Fernandez a rispondere alle nostre domande. Passa del tempo prima che arrivino le risposte e si concretizzi questa intervista, del resto il periodo di pubblicazione del nuovo album, a cinque anni di distanza dall’ultimo Venom è colmo di impegni dal vivo e con la stampa. Si parte da lontano, erano gli anni ‘90, dalle esperienze di Büro a Parigi, dall’incrocio artistico fra musica e segni grafici che hanno caratterizzato la crescita della band, per ritrovarsi ad uno di quegli incroci significativi nel 2009, quando da un palco losannese bruciavano letteralmente con Flame Desastre, incastonati fra i nomi più grandi degli ultimi 50 anni di musica. Li si ritrova oggi, all’apparenza posati ma ancora inquieti, alieni nella miglior accezione del termine ed unici. Li si ritrova su Nashazphone, etichetta algero-egizia già capace di regalarci stralci di Costes, Smegma e Sam Shalabi, a rientrare a spron battuto con il nuovo Hollozone.
Ne esce uno scambio fra mondi, ricordi ed affinità elettive.
Bentornata Sister Iodine, si accomodi.

È da una trentina d’anni che gira il nome Sister Iodine. Cosa vi spinse ad entrare in campo e che genere di idee avevate in mente all’epoca? Vi vidi a Losanna al LUFF nel 2009 (in una serata piena di grandi nomi, con Keiji Haino e Oren Ambarchi) e mi ricordo un grande show, intenso come pochi. Dopo anni, come allora, la vostra compattezza continua a scuotermi. Qual è stata l’idea che ha innescato tutto? E quella alla base del nuovo Hollozone?

Erik Minkkinen (chitarre): Per accorciare una storia molto lunga, ad inizio anni Novanta a Parigi era raro trovare fan della scena No New York ed esserne influenzati così tanto da provare a creare una paritaria No Paris. Lottammo per riunire persone che amavamo o che conoscessimo anche solo vagamente, lavorando in uno spazio chiamato EPE Etablissements Phonographiques (che era allo stesso tempo una galleria, un negozio di dischi, una sala di proiezioni e di musica dal vivo). Tra il 1991 ed il 1993 ospitammo artisti come Keiji Haino, Borbetomagus, Charles Hayward, Merzbow, The Haters, DDAA, Jim O’ Rourke, Etant Donnés, Whitehouse e molti altri. Continuammo poi in un secondo tempo, come Büro, in maniera più nomade a organizzare concerti maggiormente legati alla nuova scena Power Electronics e derivate.
Vero, fu fantastica quella serata al LUFF 2009, un programma stupendo con Keiji Haino e Tony Conrad, ho una vivida memoria di un Norbert Möslang molto su di giri per concludere la nottata!

Lionel Fernandez (chitarre): Nasciamo con la No Wave, in quel contesto caotico e in quei gesti punk, quasi una negazione della musica quella che trovammo in quel movimento e che ci diede la spinta iniziale. Ci siamo poi evoluti nel tempo, ma l’idea originale della No Wave ha sempre continuato a contaminare la nostra musica. L’idea che sta alla base di Hollozone parte dalla fine del disco precedente, Venom. C’è sempre un’intenzionalità figurativa, quasi cinematografica, quando concepiamo un disco. Lo immaginiamo come la colonna sonora di un film, un film di paesaggi glaciali, di nuove zone fantasma. Abbiamo principalmente lavorato nel nostro studio, registrandoci completamente da soli, con le nostre tecniche ed i nostri limiti, ma anche con tutto il margine di tempo di cui avevamo bisogno per trovare le nuove zone che stavamo cercando.

Dopo Venom anche in questo lavoro sembra di ritrovarsi in un ambiente spaziale. Tuttavia ho ritrovato anche una certa linea espressiva, quasi come se certi passaggi fossero la presentazione di esseri che fatichiamo ancora a comprendere e che ci inquietano. Spaventosi a tratti, come in “Encore Je Ploye”, ma anche placidi ed accoglienti come “Alphane”. Quanto è importante la comunicazione fra voi e il vostro pubblico e quanto è importante per voi la libertà di interpretazione? Componendo vi sentite più autori o più tramiti di energie ?

Lionel Fernandez: Dal vivo la libertà di interpretazione è enorme ed in movimento, i nostri concerti sono spesso differenti fra loro. In studio i pezzi sbocciano da improvvisazioni sulle quali ci fermiamo e che elaboriamo una volta trovati dei passaggi da strutturare, integrando ogni sorta di detriti post-musicali. Speriamo ovviamente di essere portatori di energia, visibile sul palco in una sorta di trance (quando l’alchimia funziona).

Hendrik Hegray, l’autore della copertina di Hollozone, una volta di più è riuscito a ricostruire in maniera formidabile queste difficoltà, queste inquietudini, questa incomunicabilità. Ha lavorato seguendo le vostre istruzioni oppure si è ispirato ascoltando il vostro album in corso d’opera? Collaborate con lui da circa quindici anni, sono sue le copertine di Flame Desastre, Blame, Venom e Hollozone. Come è successo? Che tipo di relazione vi lega? Trovate importante l’essere subito riconoscibili graficamente? Molti progetti cercano di farlo attraverso una linea stilistica precisa, mentre nel vostro caso è piuttosto una questione di sensazioni visuali, eccetto che per Blame, che si distacca da questa linea. Che tipo di ragionamenti o di slanci istintivi stanno dietro a queste scelte?

Erik Minkkinen: Hendrik Hegray è un amico di lunga data. Ci conoscemmo allo Zorba di Parigi, ai tempi aveva soltanto 15 anni e non gli era permesso bere nemmeno una birra. Poi si trasferì nelle nostre vicinanze, forse addirittura di fronte a noi, frequentando altri grafici e musicisti noise come Kerozen Andy Bolus, Yu Matsuoka e Jonas. Il suo giro si mischiava con il nostro, a quel tempo era già impegnato con la sua prima fanzine grafica, Super Kasher. Era un nostro alleato, lo aiutammo a fondare la sua prima label, Premier Sang, per la quale iniziò ad utilizzare i suoi lavori. C’erano molti artisti grafici che amavamo, molti dei quali pubblicavano anche su Nazi Knife, foglio collettivo gestito da lui. Fu naturale e spontaneo mischiare i nostri lavori con i loro, utilizzando spesso il medesimo immaginario, sonorizzando le loro opere visuali e collaborando su più piani. Henrik fa musica simile alla nostra, ci sentiamo, ci odiamo, ci ubriachiamo, ci amiamo. Per la maggior parte del tempo Henrik ascolta quello a cui stiamo lavorando, è al corrente di quanto ci succede dal vivo e in studio, dei nostri progressi. Credo abbia la nostra musica in mente, le nostre ultime risate, le nostre ultime discussioni… quando finalmente siamo pronti con la musica per un nostro nuovo album probabilmente ha già una raccolta di lavori che ci si sposano: funziona praticamente sempre.

Trovo che spesso i significati di nomi e titoli rivelino lati interessanti e spesso nascosti dei mondi personali e dei gruppi. Perché Sister Iodine? Qual è il significato di Hollozone? Il luogo delle grida?

Lionel Fernandez: Non c’è un significato dietro ad Hollozone, è un’entità astratta, un’evocazione poetica di un mondo popolato di nuove zone fantasma. Quanto a Sister Iodine, esiste da molto tempo ormai, per noi era una quota femminile, una donna che cercavamo.

Ho trovato, all’ascolto di Hollozone, delle parti di conflitto e delle parti di ricarica, quasi spirituali, con delle basse frequenze che riescono ad essere talmente nutrienti da ritemprarci. Ho citato, in sede di recensione, Fredric Brown e la sua sentinella, incapace di decifrare a quale parte stiate dando voce. La grana ed i riferimenti del lavoro invece mi hanno riportato a livelli visuali e letterali completamente differenti, quali Tobe Hooper e Jeff Vandermeer. Nell’eterno conflitto fra l’umanità e l’altro, il mostro, l’extraterrestre, dove vi posizionereste? Artisticamente parlando sareste maggiormente votati per un annientamento delle parti, per un confillto a bassa intensità o per una coabitazione?

Lionel Fernandez: Nessuna coabitazione, Sister Iodine parla di un altro mondo. Tobe Hooper, Jeff Vandermeer, Danielle Huillet, Philip K. Dick, Peter Tscherkassky sono piste così come ce ne sono molte altre per comprendere i paesaggi alieni che disegniamo: in questo conflitto a bassa intensità lavoriamo a questo ambiente purificato, glaciale e buio.