L’impeto di Stromboli

Stromboli, foto di Giulia Mazza

Nico Pasquini sta portando avanti il suo progetto personale Stromboli da almeno 8 anni, dopo l’importante esperienza coi Buzz Aldrin e le collaborazioni con Jonathan Clancy. In solitaria il suo sguardo segue la scia di diversi impulsi elettronici, krauti, psichedelici e spaziali. Con Drang ci porta però anche su territori differenti e afosi, lavorando con quelle che sembrano lenti visive a distorcere, ingrandendo e rimpicciolendo sguardi sonori su di un intero ambiente. Troppi temi per non parlarne con l’autore, ecco quanto emerso dalla nostra chiacchierata.

Ciao Nico, vorrei, se lo permetti, partire dal tuo retroterra. Ti ho conosciuto mentre eri nei Buzz Aldrin ma poi con Stromboli (a proposito, perché questo nome?) il tuo percorso ha preso decisamente altre vie, che sono cambiate man mano nel tempo. Come sei nato musicalmente e quali sono stati gli snodi che ti hanno portato a Drang, sia come musicista che come “uomo di studio”? Ho la sensazione che in te convivano più anime e più suoni, che a tratti convergono e a tratti rivelano lati insospettabili di te.

Nico Pasquini: Ciao Vasco. Il progetto di Stromboli nasce contestualmente ai miei primi esperimenti di sonorizzazioni per video, cortometraggi, documentari, film muti.

Il nome l’ho scelto per due motivi principalmente: il suono della parola, oltre che per il fatto che identifica un luogo come l’isola (l’isolamento) e l’immaginario esotico. Una visione legata all’inquietudine, affascinante e imprevedibile. Prima di iniziare questa avventura come solista ho sempre avuto a che fare con band. Tutt’oggi ho in ballo lavorazioni su materiale condiviso con altri, che spero presto vedranno la luce. Nei vari progetti prediligo il lato sperimentale, sia nella ricerca sonora sia nella composizione. Nasco come chitarrista ma con lo sguardo sempre rivolto all’insieme della costruzione musicale. Con i Buzz Aldrin, che per me sono stati il gruppo della vita, ho avuto la fortuna di potermi sbizzarrire nel contribuire a ripensare o storpiare gli schemi più classici del post-punk e della no wave, pur sempre mantenendo la sua matrice estetica.

Dici bene quando parli di convivenza di più anime. Non sono mai stato un amante della musica di genere. Per me quello che conta è la contaminazione, la mescolanza di più stili, fino a generare qualcosa di personale, di identificativo. A Drang ci sono arrivato col tempo. È frutto di una lunga ricerca sul suono, tecniche di registrazione, ascolti trasversali, esperimenti, errori e fallimenti… è ancora lunga la strada. Il concetto stesso di Drang (impulso, impeto, insistenza, persistenza) è alla base della mia attitudine e filosofia.

Come Stromboli sei arrivato al quinto lavoro, con una musica che sta mutando via via, prendendo sempre più corpo e temperatura. Sembra che spesso, per musicisti a te anagraficamente vicini e al lavoro su suoni psichedelici e di ricerca, il richiamo del dub e una certa idea di musica “umida” siano sempre dietro l’angolo. Cosa ti ha spinto su queste strade? È una direzione programmata o una sorta di fantasma che si palesa ad un certo punto?

La mutazione è ovviamente parte di un processo naturale in senso evolutivo. Ci tengo molto a rimarcare un’identità sonora e compositiva che col tempo si sta rafforzando e mettendo sempre più a fuoco. Credo che la maggior parte dei musicisti anagraficamente vicini a me abbiano sviluppato un’idea di psichedelia radicata in ascolti non del tutto contemporanei. Si, il Dub in salsa noise è interessante… liquido, fluido, magari il Dub poi non c’entra niente ed è solo un ideale lontano, qualcosa di esotico. È inevitabile finire su strade che richiamano quel background. Nella maggior parte dei casi è del tutto inconscio, me ne rendo conto solo a posteriori. I fantasmi sono ovunque e mi fanno compagnia costantemente.

Si leggono a volte paragoni tra Stromboli e progetti che usano software per creare la musica. L’impostazione analogica di Stromboli, invece, pare qualcosa di voluto, un’estetica in qualche modo. È così o è semplicemente perché sai usare quegli strumenti e stop?

Spero che i paragoni siano legati alla musica e non all’utilizzo di una strumentazione in particolare. Gli strumenti per definizione devono essere solo il mezzo, appunto. L’impostazione analogica nel mio caso è quasi obbligata e al contempo una scelta. Preferisco l’uso dell’analogico, lì dove le mie tasche possono permetterselo. Il motivo principale è l’approccio alla manualità, mi diverte molto di più, semplicemente. Usare ancora cavi da sbrogliare e collegare, perdere tempo, ripassare su nastro, sono tutti processi che mi permettono di meditare sul materiale. Mi immagino questo processo creativo dove le idee si materializzano.

Più che nell’uso di una certa strumentazione, l’estetica per me è riconducibile all’attitudine e nel modo di ascoltare e percepire la musica. Per cui se ascolto musica in prima battuta mi interessa il risultato finale e non cosa è stato utilizzato per la sua creazione. In questo senso analogica o digitale per me non cambia. Mi stimola di più la musica elettronica concepita con attitudine punk o viceversa. Uso i software come registratori multi-traccia e qualche plug-in craccato o comprato a poco.

Con chi ritieni di avere delle affinità al momento, guardando il percorso avuto con Stromboli? Ha ancora senso parlare, nel 2023, di una scena? Ti senti parte di qualcosa del genere?

Non sono parte di alcuna scena, non direttamente. Trovo affinità con musicisti sparsi, isolati in giro per il mondo. Faccio fatica a sentirmi parte di una scena locale quando diventa chiusa e autoreferenziale. Certo l’unione rafforza ma artisticamente non sprona ad andare oltre. Ci si sente sicuri e protetti e tutti si danno pacche sulle spalle senza neanche conoscersi… il risultato si vede e i numeri crescono. La scena come me la ricordo io è inesistente oggi. Sappiamo bene che è nell’internet che bisogna spingere e online alla base c’è la condivisione, il tag giusto. Se non posti non esisti…

Ritieni Stromboli un progetto contemporaneo? Se avessi la possibilità di agire in un contesto o in un tempo differente, dove e quando ti troveremmo?

Non me la sento di auto-definirmi contemporaneo. Cerco di esserlo nella ricerca sul suono e soprattuto nella forma compositiva. Voglio essere contemporaneo ma non alla moda. Per me avere una coscienza storica e comprensione quasi filologica della musica è sicuramente fondamentale. Sono sempre stato attratto dal non convenzionale e dall’astrattismo. Mi diverte lavorare sul linguaggio, cercando di abbinare, contrapporre forme e strati, creando così armonie, accordi, tensioni in modo non convenzionale e incanalare in senso comunicativo stati emotivi. Non utilizzo nessuna accordatura o tonalità. Non esistono note vere e proprie ma piuttosto toni, frequenze e rumori che danno vita ad atmosfere meditative, torbide, liquefatte e liberatorie. Credo ci sia largo spazio per sperimentare in questa direzione e continuerò a farlo. Sono contrario a copiare-imitare schemi assodati e perfettamente funzionanti. Quelli ce li abbiamo già, no? Voglio far ascoltare la mia idea di musica. Può non piacere, può sembrare difficile però almeno ci provo. Mi da un senso di libertà e questo mi spinge a continuare a fare musica. Per quanto sia nostalgico e amante del passato musicale, mi troveresti da qualche parte tra gli anni Sessanta, Settanta fino al 1983, indifferentemente dal contesto. Di sicuro in quel caso non farei la musica di Stromboli ma tutt’altro. Quello che oggi scrivo e compongo è semplicemente il riflesso del contesto che mi circonda e ispira, bello o brutto che sia.

Ti muovi anche da solo per far girare i tuoi dischi su giornali e radio? Tieni conto delle opinioni su di te che leggi o ascolti?

Mi muovo in tutti i modi possibili per far girare i miei dischi. È ovvio che oggi il canale principale siano i social. Purtroppo non sono un bravo social media manager di me stesso. So che questo fa la differenza. Per i giornali ho sempre mandato direttamente, oppure lo hanno fatto le etichette, in altri casi appoggiandosi ad agenzia di PR.

È difficile, quasi impossibile non tener conto delle opinioni. La critica positiva o negativa che sia aiuta a rendersi conto di come viene percepito il tuo lavoro con una visione esterna. Serve anche a capire chi ti sta valutando/interpretando. Spesso l’opinione svela più l’identità di chi la esprime rispetto al contenuto del lavoro. Insomma per avere un’opinione che sia costruttiva è fondamentale la provenienza di tali opinioni.

Maple Death Records, Depths Records, Random Numbers. Tre differenti etichette, che sembrano avere componenti italiane e uno sguardo internazionale. Come sei arrivato alla collaborazione con loro? C’è una collaborazione artistica attiva durante la costruzione del disco oppure sei più un musicista da presentazione del lavoro a risultato finale e senza modifiche o confronti?

Ogni collaborazione che ho avuto con queste etichette ha una storia a sé ed è sempre parte integrante del percorso che porta alla pubblicazione. La prima che citi mi ha aperto la strada per questo progetto con due uscite che hanno delineato l’impronta di Stromboli. Il progetto Stromboli nasce in pratica contestualmente a Maple Death nel 2015. Dopo sono arrivato a Oltrarno Recordings, che aggiungo alla lista. Li ho scoperti con la release da solista di Massimo Pupillo. Mi era piaciuta molto e ho pensato potesse essere affine alle cose che stavo facendo in quel periodo e ho mandato un demo. Poi Depths Records è stata un esperimento. Un’etichetta che era nata da poco con base a Londra gestita da due ragazze veramente in gamba e con voglia di fare. Avevano da poco pubblicato un lavoro di Petrolio. Abbiamo collaborato assieme per un ep. L’ultima uscita su Random Numbers è nata quasi in modo spontaneo. Siamo amici e collaboriamo da anni condividendo live e progetti in comune, con una forte connotazione di elettronica sperimentale. Con Carlo aka BXP abbiamo in cantiere un progetto chiamato Ambassadors.

Quello che accomuna queste etichette è lo sguardo rivolto oltre i confini territoriali  convenzionali, nonché la voglia di rischiare e fare le cose per passione e non per business, altrimenti sarei sicuramente tagliato fuori…

A Bologna si riesce a suonare, ci sono posti dove farlo, c’è un minimo di interesse per gli indipendenti e dunque puoi andare a sentire tante cose, Stromboli compreso. Non è proprio così ovunque in Italia: riesci a portare la tua musica dal vivo? Riesci a farlo all’estero? Ti interessa fare tour?

Vivendo e suonando a Bologna ormai da anni riesco a trovare il mio spazio anche live. Mi ritengo fortunato a vivere in una città che offre molto musicalmente. Passano gran parte dei gruppi e artisti che seguo, sia Italiani e soprattutto esteri. Bologna storicamente ha sempre accolto la musica sperimentale e continua a farlo. Questo è sicuramente uno dei motivi principali della mia trasferta a Bologna, ormai più di vent’anni fa, altro che Università. Oggi i locali principali aperti alla sperimentazione senza limiti sono – per citarne alcuni tra i miei preferiti – il Freakout, il Dev, il Tank, Plug Radio, Gabrinsky Point, L’Ex Centrale e tante altre realtà più estemporanee e clandestine.

Ho presentato Drang al Freakout il 7 ottobre, poi a Cagliari al Signal Festival. Altre date arriveranno. In Italia in realtà noto che stanno nascendo molti posti nuovi per la musica sperimentale e per le arti performative, sopratutto festival. Mentre i locali dove storicamente andavo a vedere concerti noise/post-punk oggi sono direzionati al mainstream e alla monetizzazione, immagino per ovvi motivi… Poter suonare all’estero è ovviamente più difficile per motivi logistici e di conoscenze (quelle servono sempre e ovunque) ma direi che è assolutamente possibile e ci sto già lavorando. Oggi come oggi farei una gran fatica a stare in tour per settimane come un tempo, nonostante la nostalgia, soprattuto perché ho un lavoro che mi permette di pagare l’affitto e le spese e devo timbrare il cartellino quando arriva il lunedì. Il mio intento è di riuscire a fare poche date ma buone e mirate. Non ho più la carica per voler suonare ovunque e comunque.

Dal vivo, anche giustamente, hai una controparte visiva. A che tipo di immaginario ti piace associare il tuo sound? Sei uno che guarda mille film al mese o sei concentrato solo sulla musica?

La controparte visiva è parte integrante di questo progetto. Più che l’immagine è l’immaginario alla base ed è ancora più forte nel visivo a cominciare dalle copertine. Tutto il materiale visivo, artistico e fotografico sulle copertine e locandine è frutto di Giulia Mazza, con la quale collaboro sin dalla prima uscita nel 2015. La sua visione che si trasforma in immagine che diventa immaginario si sposa alla perfezione con la musica. Si traduce in visivo ciò che poi ispira la musica e viceversa fino ad alimentarsi all’infinito dove il non reale e astratto diventa realtà. Mentre per i video mi piace affidarmi ogni volta ad altri per aprirmi anche all’esterno e scoprire risvolti e interpretazioni sorprendenti. Al momento dal vivo sto sperimentando un’impostazione più minimal fatta di luci, fumo e strobo, lascando il trasporto focalizzato sulla densità musicale. Magari in futuro cambierò, chissà. Guardo tantissimi film al mese e mi perdo talmente tanto da non ricordarmi i titoli.