Sons Of Viljems, cittadini del mondo

Ho scoperto Sons Of Viljems quando Andrea Giommi, mio buon contatto e amico, conosciuto anni fa tramite social network e sui banchetti di mille festival, mi ha detto del suo ennesimo progetto. Ho sempre seguito con molto interesse lo sviluppo del tutto, avendo anche la possibilità di produrre due loro brani insieme a Filip Sijanec per una sorta di 7” pollici digitale, era il 2020. Dopo anni, quando finalmente per loro le cose hanno iniziato a girare e sono venuti in contatto con Disasters By Choice per la pubblicazione del loro esordio, Lithospheric Melodies, beh, non potevo esimermi dallo spendere una chiacchierata con Andrea, che mi ha guidato fra i rivoli ed i lapilli della loro musica.

Bentrovato Andrea, quindi il disco è finalmente uscito? Avete già in mano le copie fisiche?

Andrea Giommi: Sì, da un mese a questa parte abbiamo organizzato il pre-order del disco, ed è stato tutto un trasportare dischi dall’Italia all’Inghilterra.
La label che pubblica il disco è Disasters By Choice, di base a Roma.
Quando faremo i prossimi concerti in Italia recupereremo tutte le copie per la band e spediremo tutti i vinili e il merchandise venduti in pre-order.

Finalmente il disco d’esordio! Anche se come Sons Of Viljems esistete ormai da parecchio tempo… di quanto si tratta più o meno?

Io sono arrivato a Londra 10 anni fa. Ho conosciuto Nejc poco dopo il mio arrivo, credo circa 9 anni fa.
All’inizio abbiamo cominciato a suonare per passare il tempo, non credo che avessimo le idee chiare riguardo a formare un progetto serio a Londra. Io suonavo ancora parecchio in Italia con The Emerald Leaves e lui portava spesso Jazoo a Londra.
La grande sfida di queste prime sessioni di prove era conciliare due stili e due gusti diametralmente opposti. E abbiamo continuato sempre a suonare in questo modo in cui nessuno dei due rinuncia al proprio stile. È un approccio politico, democratico… ci si incontra e ci si scontra in mezzo.

Come conciliavate inizialmente Sons Of Viljems coi vostri altri progetti?

Come Edible Woman avevamo fatto Nation nel 2013, dopo il tour di supporto a quel disco ci siamo fermati, mentre io ero impegnato con gli Emerald Leaves nel periodo 2014-2015 e viaggiavo spesso per suonare in Italia e in Europa. Nejc e io abbiamo iniziato a suonare dal vivo nel 2018, abbastanza tardi, visto che ci sembrava che a Londra avesse senso costruirsi un proprio seguito piuttosto che buttarsi a suonare ovunque. Le condizioni in cui si suona a Londra sono note, senza entrare nei dettagli possiamo dire che è molto dura, e anche molto appagante. Qui i musicisti si assumono molte responsabilità e si trovano a curare anche la promozione dei propri eventi.

Avete realizzato singoli, ep, fatto molti concerti, ma ci avete messo molto tempo ad arrivare al disco di debutto. Se pensate a Sons Of Viljems quando vi siete incontrati, il disco che è uscito è una buona rappresentazione di quel che immaginavate all’epoca oppure siete diventati un’altra cosa?

Questa è una bella domanda! Personalmente credo che, tutto sommato, siamo rimasti abbastanza vicini a come suonavamo, e secondo me questa è la cosa interessante della band (ed anche abbastanza unica): nessuno ha snaturato il proprio stile ed è per questo che, rispetto alle cose che ho fatto in passato nei Sons of Viljems c’è più world music, jazz, dub. Queste sono tutte influenze che vengono da Nejc.

Nonostante la differenza di stile c’è qualcosa che ci accomuna. Siamo entrambi bassisti e ci piace comporre melodie con il basso. Questo utilizzo poco ortodosso dello strumento è un trait d’union “tecnico” fra di noi. Il disco suona molto dub, jazz, avant, molto incentrato su groove di basso, e questo è sempre stato il nostro suono. Abbiamo scelto di lavorare con musicisti, produttori e fonici che hanno certamente contribuito ad espandere e mettere a fuoco aspetti della nostra musica che erano un po’ nascosti. C’è il sassofono di Matjaz Mlakar, che era già presente in “Steaming Black Sea” (il lato B di “Jelena”), la viola di Agathe Max, grandissima musicista di stanza a Londra, che ha suonato dal vivo con i The Glass Key ed è impegnata con Abstract Concrete insieme a Charles Hayward, oltre che con tanti altri progetti. Il batterista che ha suonato sul disco si chiama Tim Doyle ed è attivo con il suo progetto Chiminyo; è un batterista jazz fusion e tutti quei tappeti percussivi nel nostro disco sarebbero stati impossibili senza di lui.  In più il disco è stato mixato da Jean-Gabriel Becker che ha un duo insieme a Susumu Mukai, bassista di Floating Points e Vanishing Twin. Jean-Gabriel è un musicista eclettico, realizza musica pricipalmente elettronica e compone musica per media. Lithospheric Melodies è un disco che ha dentro una serie di contributi molto diversi l’uno dall’altro e questo è uno dei motivi per cui ha un suono sorprendente, strano, e sta piacendo ad un sacco di persone alle quali non pensavo che sarebbe piaciuto… è una bella soddisfazione!

Lithospheric Melodies è un disco nel quale avete parcellizzato gli interventi vocali. È per la maggior parte strumentale. Quando intervengono le voci, queste colpiscono a fondo e me ne sarei aspettate di più. L’immagine che ho avuto è quella di un appostamento, del tessere delle trame senza però arrivare a una risoluzione. Che tipo di ragionamento avete fatto sul dualismo vocale e strumentale, considerando che ci sono ben tre voci presenti nell’album?

Questo è un aspetto tipico di Sons Of Viljems: se pensi a brani strumentali fatti uscire in precedenza come “Hackneytronics” e “Steaming Black Sea”… e anche il nostro primo pezzo, “Touch Me Not” è completamente strumentale.  L’idea del progetto è per lo più strumentale e cinematica. Poi come tu sai io tendo a cantare e a scrivere canzoni, quindi quell’approccio emerge qua e là. Io amo molto David Axelrod, Ennio Morricone, Alessandro Alessandroni, i Tomaga, Howard Shore, insomma mi piace molto che ci sia attenzione e cura della parte strumentale, e secondo me centellinare gli interventi vocali li mette ancor piu’ in risalto. Molti degli arrangiamenti vocali sono melodie, cori, drone… c’è quell’elemento di voce usata come strumento. Non si può definire né un disco di canzoni, né un disco strumentale.

Concordo, è difficile da inquadrare come disco, e questa è la sua forza!

Vero, anche secondo me! Menzione speciale per le voci ovviamente! Laura Loriga con la quale suono ormai da un paio d’anni ed Elisa Ridolfi. Contributi di grandissima classe ed eleganza.

Altra domanda, c’è un pezzo che è intitolato “The Nephew Of Viljems”… dopo i figli i nipoti, che significa?

Sì, sono arrivati i nipoti! Figli di figli… avremmo dovuto usare grandson invece che nephew. Nejc e Reel hanno un bambino di due anni e la canzone è per lui!

Quanto è importante Londra per i Sons Of Viljems?

Londra è assoutamente centrale per noi! Io e Nejc non ci saremmo mai potuti incontrare se non in una città enorme e cosmopolita come questa, in cui arriva gente da ogni dove (o arrivava, eh, Brexit?). Noi ci siamo incontrati per caso a una cena organizzata da altri, se la natura del nostro incontro fosse dipesa dal bazzicare le stesse scene musicali non ci saremmo mai incontrati. In più, se pensi che il disco ha un batterista inglese, Nejc è sloveno, io italiano, il sassofonista è sloveno, altre due voci italiane, la violista è francese come il tencico che l’ha mixato…. è stato masterizzato da Sarah Register che è di base a New York, contatto passatomi dal mio grande amico Rickard Daun, che è svedese. Sul disco c’è Filip Sjanec che ha collaborato a lungo con noi. Voci e Glockenspiel sono state registrate da Frank Byng di Slowfoot Records nei suoi Snorkel Studios. Fang Bomb, label Svedese di stanza a Londra ha fatto uscire l’ep di “Jelena”. La cover del disco è stata disegnata da Raimund Wong, gran designer, tape manipulator e dj. Posso continuare per ore… il tutto è cosmopolita.

Rispetto a quando mi sono trasferito qui dieci anni fa è esplosa la scena jazz. In un certo senso è un’ influenza inevitabile perché, semplicemente, è una scerna in cui puoi trovare un sacco di musicisti con soluzioni che non ti aspetti. In generale qui c’è una trasversalità molto forte, anche legata a personaggi come Charles Hayward, Valentina Magaletti, Agathe Max… È facile che ti trovi a serate di harsh noise-drone music… astrazione totale, e poi vai a serate organizzate da Charles e trovi duetti di clarino e batteria… La commistione fra musica nera e bianca costituisce l’ossatura della musica inglese, pensa a tutto il dub ed il reggae… Sons Of Viljems è assolutamente un progetto molto londinese in questo senso!

Rispetto invece alle vostre storie personali ed origini… tu Italiano e Nejc sloveno. Sul disco suonano Matjaz e Laura… ci sono ancora connessioni e legami con le scene con le quali siete partiti? Che importanza ha la vostra origine e la scena che vi ha generato?

Non so, molte delle persone con cui ho lavorato in passato fanno cose molto diverse ora. Laura ora è di stanza a Londra e la sua musica esce per God Unknown, etichetta davvero speciale. Come Sons Of Viljems andiamo spesso a suonare in Italia. Ci sono alcuni posti dove ci piace ancora molto andare. Credo che il progetto sia lontano dalla sensibilita’ della scena in cui suonava Nejc. Di certo non provo nessuna forma di nostalgia rispetto al passato, ed e’ normale che le cose cambino. Non sono un grande fan del ritorno massiccio all’idioma nazionale, ma è un segnale politico ed artistico insieme, credo.

È molto più difficile fare musica pop fatta bene nella propria lingua, rispetto al mercato globale. Se penso all’Italia, oltre alle Olympia/Mare non avrei nomi che cantano in italiano da consigliare a scatola chiusa, mentre se penso al noise od a certo suono sperimentale avrei molta più scelta. Esprimersi in maniera chiara e pulita nella propria lingua è tosto, poi a riuscirci tanto di cappello ma molto di quel che arriva in radio fondamentalmente è merda.

Vivendo qui non mi arriva molta musica pop italiana.
Io non saprei da dove iniziare a scrivere una canzone pop in italiano, perché non l’ho proprio mai fatto. Questo mi sorprende un po’… io ho sempre ascoltato musica prodotta fuori dall’Italia, ed era un approccio comune a tutte le persone della mia età, in gioventù ma non solo.
Questo ritorno alla lingua Italiana deve essere anche frutto di ascolti, di formazione ben diversi.
Riguardo alle influenze e alla produzione di musica oggi, si sono persi i riferimenti cardine, tutto è decisamente esploso e veloce e contaminato, la vita di un disco è molto più breve. Tuttavia, io vedo una grande spinta creativa qua. Citerei Abstract Concrete, Välve, ma anche cose più ritmate come Sons Of Kemet, astratte come Floating World Pictures. Posso citare musicisti quali Jem Doulton, Agathe Max, Floating Points… C’è una scena molto ricca e piena di stimoli. È un po’ morta l’industria musicale, mi pare di capire, siamo piu’ poveri e pochi sono molto ricchi. In musica, e un po’ ovunque.

Vista dall’Italia l’Inghilterra continua a sfornare rock: penso agli Idles, Yard Act, un sacco di gruppi che funzionano a livello rock, anche se non so che tipo di pubblico muovano in loco. Probabilmente il tuo punto di vista da musicista è già più di nicchia e meno casuale?

Vero, sì, c’è tutta la scena post-punk (???)… Band che hanno un riscontro molto grande, gli Idles… Non so, guarda, il punto è che per me è tutto molto incentrato sulla scena locale e su quell’incontro tra sperimentazione e forme piu’ ortodosse di songwriting. Io credo molto alla contaminazione.

Ma un progettpo come gli Smile ad esempio? 

Sì, gli Smile sono niente male! Il batterista è quello dei Sons Of Kemet.
Thom Yorke va a prendersi un batterista dal background jazzistico, un altro segnale di contaminazione.

A proposito di collaborazioni, con chi vi piace condividere il palco come Sons Of Vijems?

Mi trovo abbastanza spesso a mettere su serate che curo io e l’ultima volta che abbiamo suonato lo abbiamo fatto con Kuro che è una band su Rocket Recordings, viola e contrabbasso elettrico, bravissimi! Storicamente abbiamo condiviso il palco con Charles Hayward, Raimund Wong, abbiamo suonato in passato con progetti dell’etichetta SAS Recordings, roba sia elettronica che cantautorale. AI tempi del singolo di “Touch Me Not” abbiamo condiviso il palco con una musicista tibetana, Shreya Rai, e più avanti quest’anno suoneremo le nostre canzoni live accompagnati dal Sitar di Shama Rahman. Ci piace che ci sia dinamica, differenza fra i vari act, qualcosa di drone folk magari e cose più rumorose. Ho difficoltà a ricordarmi tutto, visto che spesso siamo coinvolti in mille situazioni diverse.

Con The Glass Key ci è capitato di condividere il palco con bands di Fuzz Records, il prossimo mese suonerò con Laura Loriga, suoneremo con Johnny Halifax che fa questi raga blues lunghissimi…è la natura della nostra musica e ci porta a suonare con progetti molto diversi.

Come Sons Of Viljems invece come vi muoverete dal vivo? Sarete in duo o riuscirete a chiamare a voi alcuni dei collaboratori che stanno sull’album?

Noi storicamente abbiamo suonato molto dal vivo con Filip Sjanec in formazione alla batteria elettronica e ai synth. Al momento stiamo suonando con Nicola Villani, un batterista che sta qui a Londra e che ha un progetto di nome Moormur che ti consiglio di ascoltare, fa cose afro beat elettroniche fantastiche. Suoneremo in trio: basso, chitarra e batteria. Un pochino di synth e qualche pad vocale lanciati dalla batteria. Abbiamo molte date a Londra, tre date in Italia a Fano, Bologna e Roma (release party al Fanfulla), suoneremo a Birmingham e Brighton, in Germania e credo in Toscana quest’estate, poi vedremo come andrà!

Fantastico, grazie mille Andrea, saluti a Nejc e speriamo prima o poi di incontrarci ad un vostro live!

Abbracci! Take us to Switzerland!