ROTORVATOR

ROTORVATOR

Chiudo il percorso iniziato tempo fa con quest’intervista ai bellunesi Rotorvator, il miglior modo di integrare l’articolo e la recensione che ho scritto. Spero che serva a farli conoscere e permetta loro di suonare un po’ in giro. Le foto a corredo dell’articolo, che dicono molto sull’ironia del gruppo, sono state scattate nel 2014 alla Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia, dove i Rotorvator hanno suonato nel contesto di una performance ideata per inaugurare un’installazione di Corinne Mazzoli.

Una delle domande che mi ero fatto all’epoca de I Vivi E I Morti riguardava il vostro background musicale. Giustamente Adam della Crucial Blast notava come foste un ibrido di generi e io ho avuto la sensazione che non tutti voi siate partiti dal black metal o comunque dal metal, ma che già prima dei Rotorvator qualcuno si muovesse in ambito noise e industrial. Non pretendo la biografia della band, ma mi date qualche indizio?

Merlo (voce): Hai ragione, le nostre esperienze musicali passate (o parallele) sono state principalmente in scene diverse da quella metal, come l’elettronica, l’hardcore, il rock o il cantautorato in italiano. Nessuno di noi ha mai partecipato attivamente a progetti noise o industriali, ma sono sicuramente generi che ci hanno influenzato, direi soprattutto il primo industrial inglese.

Anche se Rotorvator nasce dalla nostra passione per il black metal, il nostro essere tutti ascoltatori curiosi e onnivori va a riflettersi naturalmente in quello che facciamo. Tieni presente che il nostro modo di comporre non è particolarmente meditato: molto spesso provando escono idee che ben poco hanno a che vedere con l’ambito di riferimento, ma se nell’insieme “suonano Rotorvator” non ci facciamo particolari problemi nello sfruttarle.

Molti dei nostri pezzi probabilmente non hanno alcun reale punto di contatto con la musica heavy se si eccettua il cantato.

Sono d’accordo con te. Non siete fotografabili, perché vi spostate continuamente nel corso dei dischi. Provo a farti un esempio per spiegare il mio pensiero: oggi potrei formare un gruppo black metal con dei miei amici e potrei decidere di rifare i primi Darkthrone, anche bene, perché secondo me il black è quello e deve suonare così. Una questione dunque di suono (zanzaroso, of course), ma anche di atmosfere e di emozioni che il genere mi provoca. Può essere che sia giusto, può anche essere che sia solo noioso. Quello che conta è che voi non avete fatto decisamente così. Cosa vi interessa “salvare” del black nel vostro discorso come Rotorvator?

La scelta del tuo ipotetico gruppo sarebbe sia giusta sia noiosa: giusta in quanto suonereste la musica in cui credete, e apprezziamo sempre chi fa il suo senza condizionamenti esterni; noiosa per me come fruitore che preferirei riascoltare Under a Funeral Moon che una sua copia carbone. Dubito che i Darkthrone sarebbero così riveriti se si fossero limitati a riproporre il suono, fortemente derivativo, del loro primo album.

A voler essere onesti credo sia normale per ragazzi alle prime armi cercare di avvicinarsi ai loro idoli, per noi non è stato così anche solo per una questione anagrafica: abbiamo formato Rotorvator dopo altre esperienze musicali e quindi avevamo già ben chiaro che un’emulazione pedissequa non ci interessava.

Noi del black “salviamo”, o almeno tentiamo di farlo, quella che anche tu definisci come una delle sue caratteristiche portanti: l’atmosfera plumbea e soffocante, ma allo stesso tempo esagerata, quasi teatrale. Questo utilizzando sonorità e strutture diverse da quelle solitamente associate al genere… scrivo solitamente perché nei primi Novanta il suono delle band black non era per nulla canonizzato: il primo ep dei Mayhem parte con un pezzo elettronico di Conrad Schnitzler, ricordiamocelo!

Direi che salviamo anche la sua (iniziale) istintività e rifiuto della tecnica fine a se stessa e, cosa da non sottovalutare, l’ironia (inconsapevole?) che secondo noi in larga parte lo contraddistingue. In Rotorvator c’è molta ironia, nemmeno troppo nascosta.

Di sicuro esiste da vent’anni una corrente che considera che il vero spirito del black metal sia la rivoluzione permanente (e beffarda, concordo), quindi ecco i vari Ulver, Dødheimsgard, Arcturus e persino gli stessi Mayhem. Così come ci sono gruppi che negli anni Zero hanno preso solo delle cose di questo genere e le hanno messe dentro il loro sound, che ha altre origini, penso a Sunn O))), Locrian, Pyramids e tanti progetti più piccoli, molti dei quali sulla Crucial Blast, che non a caso ha creduto in voi. Altra non-coincidenza relativa alla Crucial Blast, è che aveva lanciato i Genghis Tron, un gruppo con un assetto molto simile al vostro che univa metal estremo ed elettronica di stampo Warp Records. Che cosa influenza la componente elettronica del vostro sound?

Mi pare evidente che negli ultimi anni, anche per la svolta che il digitale ha portato nell’ascolto e nella produzione di musica, stiamo assistendo a un esplosione di sottogeneri e microscene che assorbono gli influssi più disparati e li frullano in una serie di innumerevoli post-post-qualcosa. Senza dare a questo una valenza negativa, direi però che è difficile al giorno d’oggi sentire delle musica veramente “rivoluzionaria”. Anche Rotorvator fa parte di questo scenario… crediamo di aver amalgamato le nostre influenze in modo sufficientemente personale, ma è indubbio che l’interesse per altri gruppi – anche usciti per Crucial Blast – che univano efficacemente elettronica e metal, ci abbia dato uno spunto di partenza non indifferente.

Comunque, farei prima a dirti cosa non influenza la nostra componente elettronica! Provo comunque a risponderti: dell’industriale abbiamo già detto, le uscite della Warp senza dubbio, sopratutto i primi Autechre, la techno di Detroit, l’EBM, l’ambient, anche la disco music! Potrei andare avanti per pagine. Ecco, direi che un impatto importante, ma non così ovvio all’ascolto dei nostri pezzi, l’ha avuto tutta quella musica inglese di derivazione dance che va dal trip hop fino al dubstep e oltre. Penso, ad esempio, alle uscite di un etichetta fantastica come la Skull Disco.

Ok, voglio addentrarmi nell’ultimo lavoro. Anzitutto vorrei sapere com’è nata la collaborazione con Sincope, un’etichetta che come voi è “trasversale” quanto a gusti. Grazie a Massimo uscite in vinile e vorrei che mi deste uno spunto per capire il significato dell’artwork.

Tutto è nato in modo molto semplice, per amicizia direi, come spesso accade nelle nostre collaborazioni: Massimo è in contatto con Mic della Dokuro (l’etichetta del nostro primo ep) e fin da subito ha espresso apprezzamento per noi ed il desiderio di fare qualcosa insieme. Un po’ di tempo fa ci ha scritto che avrebbe voluto dare un nuovo taglio alla sue etichetta, concentrandosi su poche uscite più ambiziose dal punto di vista di packaging e supporto. Quando ha utilizzato la parola vinile abbiamo subito detto di sì…

Premetto che cerchiamo di evitare di dare ai nostri artwork un significato univoco e diretto, ci piace l’idea che ognuno possa avere una sua interpretazione, lo troviamo molto adeguato a Rotorvator. Ad esempio, in Reliquies, nelle versioni precedenti la grafica aveva molti riferimenti visuali ai testi dei brani, ma è stata via via asciugata fino a che sono completamente scomparsi ed è rimasto qualcosa di più essenziale e, secondo noi, efficace. Raffigura una stilizzazione del Maelstrom, un fenomeno naturale che da sempre spaventa e affascina l’uomo, che nelle arti ne ha sempre esagerato la portata e pericolosità. Per noi rappresenta l’impotenza davanti alla natura, anche quella umana, il sublime (inteso come l’oltre il limite), il caos.

Rotorvator5

E il vinile, in effetti, sembra un bijoux. Avete registrato il disco con Marcello Batelli. Il mastering è curato da Sua Maestà James Plotkin. Paradossalmente, forse, sono più curioso di sapere com’è la collaborazione con Marcello… in che modo vi aiuta e vi ha aiutato, cosa pensa del vostro assetto particolare e del vostro mix di generi così personale.

La scelta di Plotkin non è effettivamente sorprendente dato che oltre al piacere di lavorare con un musicista che rispettiamo molto, ha curato il mastering per uno spettro di artisti che vanno dal metal al noise fino all’ambient e quindi per noi era una scelta naturale.

Ricollegandoci a quanto dicevo prima sulle nostre collaborazioni, Marcello è principalmente un amico. Se ricordo bene tutto è iniziato quando si è offerto spontaneamente di aiutarci nella registrazione di Heaven, una cosa molto spartana ma che sicuramente ha rappresentato per noi un salto di qualità a livello di produzione. In seguito l’abbiamo coinvolto come fonico per Nero Ep, uno spettacolo teatrale della compagnia Cosmesi nel quale suonavamo dal vivo. Da quel momento ci ha sempre supportato, sia in fase di produzione, sia seguendoci dal vivo quando i suoi impegni lo permettevano. Abbiamo anche delle registrazioni per un secondo progetto comune con Rhuith dove suona vari strumenti che prima o poi dovremmo riprendere in mano e pubblicare.

Marcello è estremamente professionale (al contrario di noi!), aperto al dialogo e agli esperimenti ed uno stakanovista, in pratica una sicurezza! L’ultima parte della domanda forse dovrebbe essere rivolta direttamente a lui… sicuramente apprezza quello che facciamo, ma è difficile ricevere critiche obiettive da una persona con cui hai un rapporto così stretto.

Teoricamente io dovrei fare il giornalista e cercare la notizia. Una delle notizie è che ogni articolo sul nuovo disco che ho letto non si astiene dal citare paro paro l’inizio del disco e quel “fratelli e sorelle”. Si tratta di un “recitato” molto ironico secondo me, specie per i toni. Ci potete dire com’è saltata fuori l’idea?

La canzone parla di una setta, la fratellanza del Libero Spirito (sviluppatasi tra il 1200 ed il 1300), che professava che Dio era incarnato in ogni cosa ed essere vivente. Senza andare troppo nel dettaglio, la loro storia è interessante perché, dopo una partenza da hippies medievali, portarono all’estremo il loro credo giustificando di fatto qualsiasi azione comprese rapine, stupri e omicidi. L’inizio del pezzo è il discorso di un confratello che porta la buona novella al popolo e quindi ci sembrava adatto utilizzare un tono da predicatore. Il fatto è che non volevamo venisse fuori troppo serioso (e quindi ridicolo), per cui a prove uscivano variazioni sul tema: come sarebbe venuto a Tom G. Warrior? O ad un MC rap anni Ottanta? E a un vocalist di Chicago house? Mi pare che del vocalist house sia rimasto qualcosa anche nel brano registrato…

Bene, la curiosità sull’inizio ce la siamo tolta, recensori futuri ringraziano. Una cosa che mi ha colpito e che secondo me è un buon esempio del fatto che siete pazzi, è la seconda parte de “Il Terremoto Del 1647”, pezzo bonus della versione digitale: dopo la prima, che è spezzata e violenta, la seconda è dritta e sembra che da un momento all’altro stia per diventare un brano dance. Dubito si tratti di una scelta a tavolino in nome del “famolo strano”, quindi mi chiedo come sia saltato fuori questo pezzo bifronte.

Come dici tu… nulla di pianificato. Avevamo questo inizio di pezzo, molto veloce e con parecchi cambi, ed eravamo indecisi se fare una canzone estremamente breve oppure evolverla in qualcosa di più articolato. Alla fine ci siamo fissati con il proposito di aggiungere una sezione più calma e dritta, ma utilizzando elementi ritmici già presenti nel pezzo in modo che nonostante la cesura molto marcata ci fosse una sorta di continuità. L’abbiamo provata diverse volte, ma non ci ha mai soddisfatto fino a che, presi dalla disperazione, abbiamo improvvisato cercando di essere il più possibile lineari, la versione registrata è molto simile a quella jam.

A proposito di jam. Vi ho visti dal vivo anni fa a Padova, prima del grande Pietro Riparbelli. Come si è evoluto il vostro live set? C’è spazio per l’improvvisazione? È difficile, dato il vostro assetto particolare, uscire dallo schema dei pezzi? Lo chiedo – da non musicista – perché un gruppo come i Genghis Tron faticava.

Non abbiamo all’attivo un numero spropositato di live, quindi difficile parlare di una vera e propria evoluzione. Siamo più sicuri di una volta, più consapevoli di quali siano i nostri punti di forza sul palco, credo però che questo valga per chiunque suoni assieme per svariati anni. Anche se siamo convinti che studio e concerto siano due ambiti separati e come tali li trattiamo, nel tempo il nostro suono si è complessivamente asciugato, con meno elementi più ragionati e maggiore evidenza, cosa che, al di là dei gusti, ha sicuramente giovato all’impatto dei pezzi e ci ha dato la possibilità di usare meno parti preregistrate dal vivo. In questa sede lo scheletro ritmico rimane fisso, mentre tutto il resto è suonato in modo, direi, piuttosto punk: ci teniamo alla visceralità e la riteniamo più importante rispetto alla fedeltà al brano registrato. Ti faccio notare che questo è possibile anche grazie alla struttura dei nostri brani, che è relativamente semplice… anche se non li ho mai visti, non mi stupisce che una band come i Genghis Tron possa incontrare delle difficoltà a rendere dal vivo i loro, senza un batterista in carne ed ossa.

Ci piacerebbe sicuramente improvvisare di più, ma per ora rimane solo una volontà. Da una parte crediamo di non avere allo stato attuale esperienza sufficiente per realizzare qualcosa di veramente interessante in questo senso, dall’altro, come accennavo, suonare live con una sezione ritmica elettronica limita di molto gli input, anche visivi, che sono fondamentali per queste cose. Però il desiderio rimane.

Faremo un mini tour tra qualche mese, indicativamente si svolgerà tra la fine di marzo e l’inizio di aprile. In scaletta metteremo tutto il nuovo ep e una selezione di brani da I vivi e i morti, forse qualcosa di The Blues. Non abbiamo ancora molte date confermate, quindi se qualcuno è interessato a farci suonare nel proprio locale, ben venga!

Ultime curiosità: porterete in giro dal vivo questi nuovi pezzi? Speriamo che ci legga qualche locale interessato. A Reliquies seguirà un’altra uscita o uno split o non avete nulla in cantiere?

Dopo la registrazione dell’ep, sia per motivi contingenti che per una nostra necessità creativa, ci siamo concessi oltre un anno di riposo “sabbatico”. Ci ritroveremo fra qualche settimana per comporre nuovamente, l’idea era quella di iniziare a lavorare al secondo album. Come al solito non abbiamo pianificato nulla, ma la volontà comune è di dare una reale evoluzione al nostro suono e nel fare questo metterci tutto il tempo necessario, senza fretta. Nel frattempo, come ti accennavo, ci piacerebbe chiudere la seconda collaborazione con Rhuith. Abbiamo del buon materiale registrato, ma non con un minutaggio sufficiente a giustificare un’uscita, quindi dobbiamo riprenderlo in mano e capire come “trasformarlo” in qualcosa di completo.