Earth 2023: un documentario, una colonna sonora, una ristampa, un remix-album

Dylan Carlson, immagine tratta da “Even Hell Has Its Heroes

Quanta gente prova a scrivere romanzi su Dylan Carlson, un uomo con un vissuto terribile e molti avvoltoi intorno. Quanta gente lo fa con Earth 2, un album concettuale e dunque perfetto per chi ama inventarsi le cose. Quanto bello è, per questo, il documentario “Even Hell Has Its Heroes” di Clyde Petersen (tra le altre cose manager degli Earth tra il 2008 e il 2013), una storia orale basata su racconti di persone normali – forse più danneggiate di altre – che riporta tutto dove deve stare: a terra. L’uscita nello stesso anno di un documentario sugli Earth e di una ristampa di lusso di Earth 2 (curata da Sub Pop) è un puro caso, perché il primo ha avuto ritardi dovuti alla pandemia, mentre la seconda era ben programmata per coincidere col trentesimo giro intorno al sole del disco. È una coincidenza che però mi ha aiutato a ricordare una cosa: le supercazzole solo se sei Ugo Tognazzi.

Parto da dove ristampa e documentario s’incrociano, dando per assodato che tutti sappiamo che Carlson cominciò ad agire intorno a Seattle e Olympia negli anni Ottanta, che era abbastanza metallaro, che “Earth” fu il primo nome dei Sabbath, che Sub Pop era l’etichetta di Soundgarden, Nirvana, Mudhoney…

Inizia a raccontare nello specifico Earth 2 (Sub Pop, 1993) Stuart Hallerman, che lo registrò nei suoi Avast Studios di Seattle nel 1992. Il primo giorno di lavoro, dice Hallerman, Dylan e Dave (Harwell, basso) accordarono i loro strumenti (nella terza traccia, “Like Gold And Faceted”, c’è il contributo di un batterista, ma nessuno accenna a lui), li appoggiarono sul pavimento, sistemarono degli EBow su di essi e uscirono dalla sala registrazione con lui, sedendosi sul divano della sala controlli, lasciando che tutto accadesse. Ripeterono il processo alcune volte, aggiungendo livelli su livelli. Niente di meno rock, niente di più minimalista, inteso proprio nel senso di Steve Reich o ancora meglio di La Monte Young, quest’ultimo sempre citato da Carlson in qualunque intervista e nel documentario stesso (pare fosse arrivato a lui tramite i Velvet Underground).

Dopo Hallerman è la volta di Bruce Pavitt, uno dei due fondatori della Sub Pop, che descrive Earth 2 come “ambient metal” e afferma di aver visto all’epoca gli Earth come un “conceptual art project”. Aggiunge che proprio per questo il packaging, sempre a quel tempo, fu quello più curato e artistico di tutti gli altri dell’etichetta (2000 copie), quasi come a voler provare che le sue idee sull’album fossero fin dall’inizio le stesse e non fossero cambiate solo quando il resto del mondo diede ad esso l’importanza che ha oggi. Pavitt lascia intendere che le immagini a volte spiegano le cose meglio di mille libri: per un paio di minuti parla della retrocopertina dove Carlson e Harwell sono in mezzo al fango con in mano una tazza del caffè di merda americano, in pieno contrasto con la solita rappresentazione dei soliti quattro tizi che bevono birra davanti a un muro di mattoni. Rivela poi (ma si sa già) che le frasi – sempre sulla retrocopertina – su quanto fosse bello e rilassante il disco erano state prese da un album ambient/new age/field recordings dal titolo Environments 2 – Tintinnabulation (Special Low Frequency Version) ed erano dunque allo stesso tempo fuori e in contesto, al pari della fantomatica dicitura “special low frequency version”.

Pare, riprendendo Hallerman, che fosse sin da subito intenzione di Carlson arrivare agli estremi e riempire tutto un cd, difatti le tre tracce complessivamente durano 72 minuti (“Seven Angels” 15, “Teeth Of Lions Rule The Divine” 27, “Like Gold And Faceted” 30). Se, insomma, la componente sperimentale esisteva davvero, l’altro aspetto ovvio e in parte collegato al primo era quello oltranzista: gli Earth nacquero dal desiderio di insistere su di uno stesso riff, auspicabilmente killer, come a venerarlo in eterno, muovendosi ieratici con la lentezza di chi sappiamo e dei Melvins di quel periodo. Dell’influenza sui Sunn O))) e dell’amore per gli Earth ed Earth 2 dei Sunn O))) hanno scritto tutti (interessante che “Even Hell Has Its Heroes” grosso modo non contempli Anderson e O’Malley), facendo emergere più avanti come fosse stato il produttore Randall Dunn a correre in un negozio di cornici per foto a convincere il commesso Dylan Carlson a ricominciare a suonare dal vivo e in qualche modo dando il via alla loro collaborazione in studio e alla seconda incarnazione degli Earth, quella “Americana” di Hex e The Bees Made Honey In The Lion’s Skull.

Breve intervallo.

Earth 2 è storia. È uno degli album che aiuta chi viene dopo a capire che per sperimentare col metal non serve diventare prog e che mostra come ci si possa liberare dalla forma-canzone, andare ancora più lenti, risultare ancora più pesanti e utilizzare la potenza e la fisicità del volume e delle basse frequenze: soprattutto per quest’ultimo motivo ha senso che il primo remix di Earth 2​.​23 Special Lower Frequency Mix (Sub Pop, 2023; una re-interpretazione di Earth 2 che è soprattutto un tributo) sia firmato da Kevin Martin, uno che ai live si porta il suo sound system, oltre che uno che – anche se non subito, né da musicista né da giornalista – ha capito l’importanza di Carlson e ci ha collaborato (Concrete Desert – Ninja Tune, 2017). La sua rilettura “à la The Bug” di “Seven Angels”, con tanto di rap cavernoso di Flowdan, è come la fine di un percorso di avvicinamento tra le due sponde dell’oceano. Vien da pensare che se gli Earth fossero stati inglesi, sarebbero finiti su Earache e avrebbero legato, oltre che con Martin, anche con Justin Broadrick, che cura un altro dei remix, e con Mick Harris. Scorn, però, qui non c’è e non c’è nemmeno Lull. In compenso il vero pezzone di quest’album è l’abisso scavato da un altro isolazionista, Robert Hampson (Loop, per un breve momento Godflesh, ma qui soprattutto Main): credo che il suo “May Your Vanquished Be Saved From The Bondage Of Their Sins” parta da “Teeth Of Lions Rule The Divine” e poi finisca in un inferno quasi del tutto autonomo rispetto a Earth 2 stesso, pur se basato sulla sovversione delle stesse leggi. Da avere anche quest’uscita.

Ora posso tornare a “Even Hell Has Its Heroes”. Non mi interessa fare l’elenco di tutti gli intervistati e non sono molto propenso a parlare del girato in pellicola Super 8, che dà al tutto un aspetto giustamente granuloso e vintage. Credo di dover sottolineare come i paesaggi del Nord Ovest americano siano co-protagonisti del documentario, non solo quelli maestosi, che danno un’idea di immensità e di staticità che si sposa bene con quella degli Earth, ma anche quelli urbani devastati e in rovina, che – come detto – fanno da sfondo a uomini e donne nel frattempo invecchiati, con pochi soldi in tasca e con un vissuto tutt’altro che lineare e semplice (penso a Tom Hansen, che era in Pentastar, era nei Fartz, che ha scritto “American Junkie” e si tiene in piedi con un bastone). Sono poi convinto che sulle automobili di questa pellicola sarebbe necessario un articolo a parte, peccato che Ballard sia morto.

Adrienne Davies, immagine tratta da “Even Hell Has Its Heroes

Ad avermi conquistato, in ogni caso, sono stati i discorsi profondi e non scontati di tutti sulla musica: Adrienne Davies, da 23 anni batterista degli Earth, quindi la componente più decisiva e longeva dopo Carlson, spiega il modo “sbagliato” in cui suona, il polistrumentista Steve Moore (collaboratore di tutto il giro Southern Lord) che in un minuto ti fa capire Hex, Randall Dunn che parla dell’influenza di Cormac McCarthy su quello stesso album, Mell Dettmer (mastering dei dischi della seconda incarnazione degli Earth, produttrice di Full Upon Her Burning Lips e della colonna sonora di questo documentario, realizzata e suonata dagli Earth stessi nella loro forma oggi più pura possibile, ovverosia Dylan + Adrienne) che elogia l’imperfezione dell’analogico. Infine il bassista (il centesimo, credo) Karl Blau e Lori Goldston (violoncellista anche in Unplugged In New York, e questa è l’ultima volta che parlo dei Nirvana) mi hanno convinto a riavvicinarmi ai due Angels Of Darkness, Demons Of Light, che stupidamente ho trascurato in questi anni e che invece sono ancora nuovi, ancora vitali.

So che “Even Hell Has Its Heroes” è passato per il portoghese Amplifest e spero trovi qualcuno che lo proietti anche in Italia, ovviamente con volumi criminali.