SYK, Stefano Ferrian

Arrivati al secondo disco, i SYK si confermano un gruppo cui piace ragionare fuori dagli schemi e andare oltre il consueto piatto preconfezionato. Era difficile non farsi tentare dalla voglia di scoprire cosa si cela dietro al loro approccio e alla loro musica.

Secondo lavoro per i SYK e una forma espressiva cangiante eppure già in grado di imporvi all’attenzione del pubblico più curioso e aperto alla voglia di andare oltre il solito. Vi aspettavate un simile interesse? Verrebbe da pensare che questo sfati la visione di un’audience pigra e refrattaria a provare nuovi gusti…

Stefano Ferrian (chitarre): In realtà fare un disco è un atto creativo talmente personale che difficilmente pensiamo al riscontro del pubblico. Pur rimanendo musica principalmente di “nicchia”, siamo felici che abbia smosso qualcosa di significativo per un po’ di persone e naturalmente speriamo possa accadere sempre di più. I-Optikon è per noi un disco importantissimo a questo punto della nostra storia come individui e musicisti e per me probabilmente il lavoro più importante ad oggi.

Nonostante la vostra giovane storia come band, avete già subito degli scossoni nel la formazione. Siete rimasti in tre dopo l’abbandono di Luca Pissavini (basso), siete ritornati in quattro con l’ingresso temporaneo del chitarrista Francesco Zago (Yugen), Federico è uscito e rientrato nel giro di un paio di mesi e infine avete accolto l’ultimo arrivato Gianluca Ferro alla chitarra. A cosa sono dovuti secondo voi questi assestamenti, natura fluida del progetto o necessità di trovare i giusti compagni di viaggio?

Purtroppo una delle cose più difficili quando si mette in piedi un progetto è trovare un organico di persone che abbiano tutte la stessa prospettiva. Poi, come nella vita, la parola delle persone ormai vale davvero poco. Altre volte il problema era il tempo, altre la testa. Quindi è stato difficile per noi trovare un quarto membro, fermo restando che io, Dalila e Federico siamo sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda e questo è il reale organico dei SYK. Gianluca ci ha aiutato per un certo periodo come session, ma siamo sempre stati alla ricerca di un secondo chitarrista che realmente entrasse a far parte dell’organico. Forse adesso l’abbiamo trovato con Marcello Cravini. Mio caro amico da quasi vent’anni e bravissimo musicista. Con lui mi trovavo a suonare i Death quando avevo quattordici anni, inoltre per un periodo suonammo insieme nei Nightside intorno al 2002, ed è davvero bello poter suonare nello stesso organico dopo così tanto tempo. Lui verrà con noi insieme ai Child Bite per l’Europa, quindi finalmente faremo un tour con due chitarre.

Nel nuovo album assume un ruolo dominante il groove. Cosa ha motivato questa scelta rispetto ad un esordio contrassegnato da un mood più claustrofobico?

Ogni disco viene inevitabilmente generato dallo stato d’animo dominante in quel preciso momento. ATOMA nasceva da una ricerca a tratti oscura sui livelli da cui è costituito il nostro mondo. Quindi caos, sporcizia, sumeri e sumero (come lingua) nei testi. I-Optikon è una ricerca introspettiva e dunque non si può procedere verso il proprio io se non con un ordine marziale. La cadenza del disco, come i testi, è stata fatta con l’utilizzo dell’I-Ching, quindi sì divinazione ma con tecnica. Il momento personale in cui è nato è stato drammatico ma la disintegrazione ha inevitabilmente portato a una nuova forma, sicuramente più consapevole. Proprio per questo ATOMA è dominato dal disordine ritmico, mentre, al contrario, I-Optikon si basa sulla ricerca dell’ordine.

Uscite per l’etichetta di Phil Anselmo. Come siete entrati in contatto e quali credete siano i punti di forza della label?

È successo tre o quattro anni fa, addirittura. Come dice un mio caro amico finlandese chiamato Pentti Dassum, e grande noizer/percussionista, “long story short”. È arrivata una copia di ATOMA a Phil, mandata da un nostro caro amico. Dopo poco tempo apriamo la mail di SYK e leggiamo tra le mail il nome “Philip H Anselmo”. Ovviamente diamo fuori di matto. Lui era folle per ATOMA e poco dopo ci siamo incontrati al festival di Majano dove suonavano i Down. Abbiamo passato la giornata con lui e K8 in camerino ascoltando tutto il giorno underground di ogni genere, noi compresi, che usciva dalla playlist di Phil, parlando di quanto sarebbe stato figo fare un disco per Housecore. La sera jam sul palco di Majano coi Down. È stato come seguire il bianconiglio e vedere cosa c’è dall’altra parte dello specchio. Dopo qualche tempo gli abbiamo mandato il disco. Phil è impazzito, ha registrato le sue parti vocali e poi l’ha mixato con il suo tecnico Stephen Berrigan. Poi mastering da Scott Hull. Copertina di Olivier De Sagazan. Insomma sì, è stato davvero figo. Il punto di forza della label è che la mentalità è alla vecchia. Oltre a questo è un’etichetta che pensa prima alla musica che all’industria della musica e questo per noi è fondamentale.

Credete che questa opportunità potrebbe aiutare il progetto ad aprirsi verso il mercato americano?

Al momento i feedback più fighi vengono proprio da lì. In più Phil sta facendo sentire il disco a chiunque, è incredibile come si mette lui in prima persona a far sentire la nostra musica.

Nel comunicato stampa sono citati – giustamente – i Meshuggah, e qualche recensore ha tirato in mezzo lo djent. Che cosa ne pensi di questo genere esploso da un po’ di anni a questa parte? Vi ritenete in qualche modo collegati ad esso?

In senso stretto non credo. A volte lo sfioriamo ma non possiamo esser definiti come un gruppo djent. Personalmente mi piacciono solo i Meshuggah, che ho iniziato ad ascoltare solo da pochi anni. Altri gruppi djent non mi piacciono. Ho apprezzato molto l’ultimo disco dei Tony Danza, Tapdance Extravaganza, che qualche elemento djent ce l’ha, ma altri non me ne vengono in mente. Anche perché o sono copie fatte male dei Meshuggah o hanno il vizio dei ritornelli pop, cosa che mi uccide. I Meshuggah sono uno di quei gruppi che non si copiano, come i Tool. Sono talmente personali che non si può fare. È un errore creare un sottogenere per tutto. I Meshuggah sono metal come i Nevermore. Ma nell’era dell’immagine e della iper-categorizzazione si copia e si dà un nome a tutto.

Quanto conta per voi l’aspetto live? Avete avuto modo di rodare i nuovi pezzi dal vivo? Come vi muovete per riproporre i brani sul palco, preferite stravolgerli e lasciarvi andare al mood del momento o vi impegnate per seguire quanto più possibile la forma in studio?

Purtroppo al momento il nuovo materiale ha visto poche volte il palco. Ma fra un paio di settimane lo suoneremo in giro per l’Europa in compagnia dei Child Bite. Dal vivo sicuramente i brani devono suonare con un altro spirito. Riproporli con freddezza non avrebbe senso. Per quanto concerne la preparazione dei live, l’unica cosa necessaria è “practice, practice, practice!”

Domanda scomoda: avete sempre affermato di considerare ciascuno di voi come un musicista senza distinzioni di sesso e di non voler puntare sulla figura della front-woman. Vi è mai successo di dover affrontare situazioni in cui queste aspettative si scontravano con chi si ostinava a focalizzare l’attenzione in positivo o negativo su questo aspetto?

Premesso che trattiamo Dalila come qualunque altro essere umano del gruppo, quindi di merda, non intendiamo sfruttare la sua forma femminile per guadagnare audience. Piuttosto preferiamo metterne in risalto il talento, se possiamo. Non possiamo però scegliere noi su cosa focalizzare l’attenzione altrui, semplicemente cerchiamo di dare una direzione. Se poi però Dalila vorrà mettersi gli hot pants sul palco, in quanto giovane donna, non sarò di certo io a dirle qualcosa anche perché non ci sarebbe niente di male. Sicuramente non la mettiamo sui manifesti mezza-nuda con la faccia arrapata. Siamo musicisti, non televenditori, calciatori o politici, la musica è una cosa seria. Se non sei una persona ben radicata non puoi farla sul serio.

Stefano, che mi dici della tua etichetta dEN Records, è ancora attiva? Sei a lavoro su altri progetti paralleli ai SYK?

L’etichetta è ormai chiusa da due anni. Bella esperienza ma insostenibile in termini di sforzi e sangue buttato. Ma comunque si sono ottenuti ottimi risultati anche sotto il punto di vista del packaging, che ha vinto l’oro agli European Design Awards grazie al prezioso lavoro di Davide Soldarini, amico carissimo. A parte i SYK porto avanti solo a-septic, il mio duo con Simone Quatrana, compagno di vari viaggi e pianista incredibile.

Grazie mille per il vostro tempo, a voi le conclusioni…

Grazie mille a voi e a tutti coloro che avranno avuto la voglia di leggere questa intervista.