Tom G. Warrior e il suo requiem, un cerchio che si chiude

Triptykon con Safa Heraghi
Triptykon con Safa Heraghi

Seguo il percorso artistico (aggettivo scelto di proposito) di Tom G. Warrior dalla mia adolescenza, parliamo del 1984 o giù di lì. Conoscevo ovviamente gli Hellhammer, ma devo ammettere per correttezza di non esserne stato un fan della prima ora, perché in realtà li ho riscoperti solo in seguito al mio innamoramento per i Celtic Frost, un vero e proprio colpo di fulmine coinciso con l’ascolto di Morbid Tales. La loro musica ha accompagnato molti momenti significativi della mia vita, compreso un viaggio in Marocco culminato in una gita nel Sahara con base a Ouarzazate e un paio di cassette a darsi il cambio nel walkman: su una c’erano Misfits e Samhain, mentre sull’altra si dividevano i lati Christian Death e Celtic Frost. L’impatto di quella musica e del paesaggio arroventato del deserto è sempre rimasto impresso in modo vivido nella mia memoria e ha cementato il mio legame con l’universo della band svizzera, un innovativo mix di input e richiami capaci di unire i semi dell’estremismo metal a venire con intuizioni a dir poco inusitate sia a livello di suoni che di accostamenti, un aspetto che esploderà in tutta la sua potenza nell’incredibile Into The Pandemonium, su cui torneremo a breve. Questo per tacere di un’attenzione fuori dall’ordinario per l’aspetto visivo, con l’utilizzo delle opere di artisti del calibro di Bosch e Giger, che guarda caso tornerà a collaborare con Warrior per gli artwork dei Triptykon (questo Requiem è dedicato a lui e al bassista e cofondatore dei Celtic Frost Martin Eric Ain). In fondo, nella mia mente, il loro vero valore aggiunto era il fatto di provenire da un luogo lontano dalle usuali rotte del metal e di non essere esattamente dei role model stereotipati. A dirla tutta intuivo la loro essenza di misfits in qualche modo emarginati in cui mi rispecchiavo al tempo, un’intuizione che ho potuto confermare e approfondire anni dopo con la lettura dei due libri di Thomas Gabriel Fischer (vero nome di Tom G. Warrior), “Are You Morbid” (Sanctuary, 2000) e “Only Death Is Real” (Bazillion Points, 2010). Insomma, tra i tanti dei lungo-crinuti della scena metal, Tom rappresentava ai miei occhi quello che ce l’aveva fatta a dispetto di un punto di partenza non proprio privilegiato, in barba alle critiche, alla mancanza di fiducia e spesso agli sberleffi, non solo da parte dei “normali” ma anche e soprattutto da parte di chi stava con lui nella bolla in cui si sarebbe dovuto sentire al sicuro: gli Hellhammer, infatti, non erano esattamente visti di buon occhio dalla critica di settore del tempo e venivano spesso declassati a cloni dei Venom senza alcun valore effettivo. Insomma, se ero un disadattato, non aveva senso scegliermi eroi fighi quando lui era più vicino a come mi sentivo e al mio cercare una via di uscita tra romanzi e film horror (annaffiati con litri di metal il più eccessivo e oscuro possibile). Dopo un simile inizio, ammetto che Vanity/Nemesis mi avrebbe lasciato decisamente più tiepido seppure avesse delle buone frecce al suo arco e Cold Lake avrebbe rappresentato un vero e proprio tuffo al cuore, sebbene, a differenza del suo autore, col passare del tempo sarei riuscito a perdonarlo (ora come ora non mi vergogno a dire che ogni tanto lo riascolto e ne traggo persino piacere). Di certo, sembra quasi che il musicista svizzero in quegli anni si fosse fatto affascinare da un malinteso immaginario decadente, fosse quello del glam o (in seguito) quello di certa elettronica di area goth anni Novanta, il che non gli ha del resto impedito di riprendere saldamente in mano il timone della sua barca nel nuovo millennio. Per completezza, aggiungo che non ho mai apprezzato appieno gli Apollyon Sun, sui quali non posso né voglio dilungarmi con cognizione di causa, visto che ritengo di non esserne riuscito a coglierne del tutto l’essenza e l’intenzione.

Triptykon
Triptykon

Resta indiscusso il valore di dischi come To Mega Therion – la base di quasi tutto il metal estremo, e non solo – e  Into The Pandemonium, un caposaldo per chiunque voglia parlare di contaminazioni in quest’ambito, sin dall’apertura con “Mexican Radio” dei Wall Of Voodoo, perché davvero, almeno quella volta, nessun gruppo nello stesso genere avrebbe cominciato con una cover e per di più con il tributo ad una band fuori dagli schemi come quella capitanata dalla voce di Stan Ridgway, formazione che per inciso esercitava su di me già da un po’ una forte attrattiva. Facile immaginarsi, a questo punto, l’effetto che ha avuto sul sottoscritto la notizia dell’uscita di Monotheist nel 2006, un album che ha mantenuto fede a quanto promesso e che ritengo tuttora una degna continuazione della storia del gruppo, seppure figlio del nuovo millennio e pertanto in qualche modo “un capitolo a sé”, un tratto in fondo non inusuale all’interno di un cammino mai omogeneo e – appunto già da Into The Pandemonium – sempre costellato da svolte e inaspettati colpi di scena.
Altra rottura ed ecco Tom G. Warrior – con nuovi sodali ad affiancarlo subito dopo il definitivo scioglimento dei Frost solo da poco tornati in azione – debuttare coi Triptykon, autori di due album capaci di colpire nel segno e riportare a pieno regime la sua carriera. Il progetto ha una sua personalità e non scimmiotta il passato del cantante/chitarrista, ma al contempo ne prende in carico l’eredità. Per questo non stupisce che, scomparso Ain e con lui ogni possibilità di riformare la sua band storica, Warrior abbia pensato di portare finalmente a compimento quanto avviato con “Rex Irae (Requiem)” su Into The Pandemonium nel 1987 e proseguito con “Winter (Requiem, Chapter Three: Finale)” su Monotheist nel 2006, ovverosia l’idea di comporre un requiem da eseguire con orchestra, impresa ambiziosa tentata per decenni e mai completata nella sua sezione centrale, quella che oggi occupa la maggior parte di questo live al Roadburn con la Metropole Orkest.

A differenza di altri album in cui musicisti metal si confrontano con orchestre (gli esempi sono molti e variegati), spesso realizzati per celebrare la propria carriera con l’innesto di partiture sinfoniche su brani concepiti per essere eseguiti dalla classica formazione rock, Requiem nasce già nella testa del suo ideatore come viene oggi presentato al pubblico e come è stato reso al festival olandese. Questo aspetto va sottolineato se si vuole comprendere a fondo la natura di questo live e approcciarsi alla musica in esso contenuta nel modo migliore. Perché quello che oggi è nelle orecchie di tutti è il frutto di un lavoro le cui origini datano 1986 e su cui Warrior è tornato, benché senza continuità, lungo tutta la sua carriera, con idee, spunti, abbozzi sfociati solo ora in quella che è la concretizzazione di un desiderio mai abbandonato a dispetto delle enormi difficoltà. Non una rivisitazione in chiave orchestrale, quindi, ma un’opera compiuta che vede finalmente la luce nella sua interezza e si pone come risultato di un processo di completamento svoltosi nei due anni precedenti la sua presentazione su di un palco. Come si diceva sopra, due delle tre parti (poco meno di sette minuti l’una) sono già state realizzate con accompagnamento di orchestra, per cui non appaiono stravolte nella loro riproposizione all’interno del requiem completo, seppure entrambe beneficino dell’essere inserite in un contesto coeso e della lettura della Dutch Metropole Orkest, diretta dal finlandese Jukka Isakkila su arrangiamento curato dal collaboratore di lunga data Florian Magnus Maier.

Valore aggiunto sin dall’iniziale “Rex Irae” la decisione, questa volta, di affidare le vocals alla cantante Safa Heraghi, già vista con Devin Townsend, Dark Fortress, Schammasch e vari altri: la scelta ha donato una nuova consistenza e nuove sfumature al brano, merito di una voce calda (a tratti soul) e ricca di personalità, distante dall’impostazione di Claudia Maria Mokri, presente nella versione del 1987, e più attuale nel modo di approcciarsi alla composizione e di interagire con Warrior, oltre che degna di nota per la capacità di cambiare timbro nel seguire l’andamento della scrittura. Ma, come anticipato, la vera sorpresa risiede negli oltre trentadue minuti dell’inedita “Grave Eternal”, fulcro del requiem e stupefacente sotto molteplici punti di vista. Proprio “Grave Eternal” appare come la summa degli sforzi e della visione di Warrior, composizione tanto coraggiosa quanto complessa nelle sue sfaccettature e cambi di umore, capace di contenere al suo interno pulsioni psichedeliche e pathos, vocals spiazzanti nella loro reiterazione quasi rituale e nell’impostazione atipica per il cantante-chitarrista e momenti in cui sono le percussioni a prendere in mano il timone della barca. Da segnalare come questo lungo pezzo permetta al nuovo entrato in formazione, niente di meno che il batterista Hannes Grossmann (Hate Eternal, Howling Sycamore, Shapeshift, Necrophagist e molti altri ancora), di mettere in mostra la sua spiccata personalità e la capacità di adattarsi anche in situazioni atipiche come questa, in cui è alto il rischio di finire relegato ad un ruolo di semplice gregario, aspetto messo in evidenza soprattutto dalla versione dvd con le riprese ravvicinate dei musicisti all’opera sul palco del Roadburn. Se queste sono le premesse, l’innesto di Grossman potrà giovare non poco ai Triptykon anche in previsione di un nuovo album, visto che si parla di un musicista dall’enorme preparazione e con la classica marcia in più. Nonostante la sua lunghezza, “Grave Eternal” non annoia e al contrario rapisce in un vortice di emozioni differenti che, pur nella quasi totale assenza di rimandi diretti all’immaginario metal caro alla band, ne coglie l’essenza che rilascia sui presenti in forma di sensazioni e associazioni di idee (verrebbe da dire di aromi, se non rischiasse di apparire fuori contesto).

Non era facile accettare una sfida tanto impegnativa, eppure Warrior ha saputo confrontarsi con i suoi limiti e sfuggire le vie semplici, quindi nessun accenno di symphonic metal o derive gotiche, niente colpi di teatro dozzinali o ampollosità fuori luogo (pur sempre di un requiem si tratta). Soprattutto, appare chiaro come abbia deciso di dar fondo a tutta la sua esperienza e le sue conoscenze musicali per dar corpo ad un sogno durato così a lungo. Nella riuscita del progetto non può essere lasciata da parte l’importanza della ormai solida collaborazione con il chitarrista V. Santura e con la bassista Vanja Šlajh, al fianco di Warrior sin dalla nascita della band e ormai perfettamente inseriti nella sua visione.

Per tutto quanto detto finora, mi sento di promuovere in pieno Requiem e di invitarvi a considerarlo come un vero e proprio album a firma Triptykon piuttosto che un semplice live con orchestra, perché questo è il ruolo che si merita e che a giudizio di chi scrive si è guadagnato sul campo.

TRIPTYKON WITH THE METROPOLE ORKEST, Requiem – Live At Roadburn 2019 (Century Media, 2020)

01. Rex Irae (Requiem, Chapter One: Overture) [06:34]

02. Grave Eternal (Requiem, Chapter Two: Transition) [32:28]

03. Winter (Requiem, Chapter Three: Finale) [06:54]