Essere un pesce diverso

Appunti per una lettura di “Captain Mask Replica – Vita e arte di Don Van Vliet” di Francesco Nunziata (Arcana Edizioni)

Mancava nella nostra lingua una pubblicazione dedicata alla vita e all’arte di Captain Beefheart. Francesco Nunziata scrive per Ondarock da lungo tempo ed è nota la sua passione per il musicista californiano, perciò era naturale che prima o poi si cimentasse con quello che risulta essere uno degli artisti oggettivamente più incredibili della storia del rock d’Oltreoceano.

Captain Mask Replica è un libro quasi perfetto, perché è stato pensato e scritto con la necessaria calma e con un’acribìa sinceramente encomiabile, vi posso garantire che è dura trovare in giro altrettante valide (e dettagliate) biografie critiche, non  le classiche bio con le informazioni di base e poco più, per intenderci. L’unico difetto, se proprio devo stare a cercarlo, è che è chiaramente un libro scritto da un super-fan, quei punti esclamativi sono forse un po’ troppi. Ma a pensarci bene sono certamente propri dell’entusiasmo che Nunziata ha messo nello scrivere queste pagine, dove davvero sembra di sedere vicino all’autore di Trout Mask Replica, Shiny Beast (Bat Chain Puller), Lick My Decals Off, Baby. Accennavo alle fonti: numerose, utilissime per orientarsi in una carriera fatta di brutto carattere, genio, discografici tendenti al cinismo, amici musicisti di grido, da Frank Zappa a Tom Waits a PJ Harvey. Il percorso intrapreso è cronologico, non potrebbe essere altrimenti, e soprattutto critico ma anche documentaristico, l’autore dimostra di conoscere a menadito la materia trattata – che non era affatto tra le più facili, va da sé – e ci accompagna nei deliri e nella quotidianità di un uomo che è vissuto isolato nel deserto californiano ma che ha firmato contratti per Virgin, Warner Bros e Mercury, che dava del tu, senza peli sulla lingua peraltro, a tanti protagonisti della musica statunitense, compreso l’amico-nemico Zappa, e poi finiva in una tv olandese a fare la figura dello strano a tutti i costi (confesso che non ce l’ho fatta a vedere tutto il filmato, cercatelo su YouTube). Don Glen Vliet (questo il suo vero nome) era un uomo innamorato della propria donna, della natura e degli animali, che aveva in mente una strategia sonora senza saperla letteralmente ingabbiare nel pentagramma: la pazienza dei singoli (e tanti) membri della sua band andrebbe premiata. Soprattutto era anche un artista visivo, e non a caso l’ultima parte del libro è dedicata proprio alla sua attività di pittore, e pure qui Nunziata ha studiato, lo si capisce benissimo.

I libri sugli artisti si fanno così, se no forse è meglio non farli. 

Intervista a Francesco Nunziata

Quando nasce l’idea del libro e quanto tempo ci hai messo a scriverlo?

Francesco Nunziata: Come sai, collaboro con OndaRock praticamente da quando quella webzine fu fondata da Claudio Fabretti. Su quelle pagine, durante gli anni, ho avuto modo di scrivere molti articoli dedicati ad alcune delle mie band preferite e, ovviamente, dato che Captain Beefheart è uno dei miei punti di riferimento assoluti in ambito rock, a un certo punto – anche su sollecitazione di alcuni lettori – decisi di mettere mano a un articolo monografico incentrato proprio sul grande artista californiano. Cominciai, quindi, a buttare giù i primi appunti, ma col tempo la mole di materiale divenne così ampia che mi lasciai stuzzicare da un’idea che già da qualche anno, a dire il vero, mi ronzava in testa: scrivere un libro (anche perché, stranamente, in Italia a Beefheart non era ancora stato dedicato uno studio sistematico e nemmeno una biografia approfondita). Solo che – come dire? – sono uno di quei tipi che, quando si dedicano a cose in cui credono particolarmente, si lasciano prendere la mano, perché pensano che niente sia mai abbastanza. Insomma, sono un maledetto perfezionista! Così, mentre il tempo passava, invece di concludere, continuavo ad aggiungere righe su righe. A un certo momento, però, ho dovuto porre un freno al tutto, e nel giro di un annetto ho finalmente scritto la versione definitiva di “Captain Mask Replica”. Si è trattato di un’esperienza sfiancante ma anche molto appagante, che ha dato un senso a tanti anni di ascolti e ricerche.

È stato difficile raccogliere tutte le fonti? Qual è stato il tuo approccio alla persona Don Glen Vliet e al personaggio Captain Beefheart?

Internet ha sicuramente agevolato la raccolta e la consultazione delle fonti. Penso di aver letto e ascoltato un buon 95% delle interviste rilasciate da Beefheart nel corso della sua vita, sia come musicista che come pittore. Ma, ovviamente, ho consultato anche moltissimo del materiale cartaceo a lui dedicato, oltre che le memorie dei diversi membri della Magic Band, soprattutto quanto scritto o dichiarato dal batterista John French e dal chitarrista Bill Harkleroad, i due musicisti che, più di altri, si sono avvicinati al “mistero” della sua creatività. Lavorare su un personaggio come Captain Beefheart significa entrare in una sorta di universo parallelo, ma è quanto di più affascinante un semplice appassionato e un critico musicale possano augurarsi. Non era certo uno stinco di santo: penso tutti sappiano in che modo, pur di imporre la propria visione della musica, abbia trattato, durante gli anni, i vari musicisti che hanno suonato con lui. Tuttavia, il gioco è sempre valso la candela, perché tutti quei musicisti non hanno mai nascosto di aver fatto un’esperienza unica e irripetibile. Dietro la maschera, burbera e scontrosa, del Capitano Cuordibue, si nascondeva, comunque, il volto, spesso fragile e introverso, di Don Van Vliet. Un volto segnato dal bisogno di rintracciare, nel perimetro di un mondo devastato dalla mano diabolica dell’uomo (la “frownland” cantata nell’incredibile primo brano di Trout Mask Replica), un punto di fuga verso la quiete della propria anima, lì dove uomo e mondo sono in perfetta simbiosi. Quel punto di fuga era rappresentato sia dalla sua musica che dalla sua pittura.

Io credo che scrivere di uno come Don Van Vliet rimanga un’operazione ardua. Come sei riuscito ad evitare comunque il classico agiografismo? Leggendo il libro si capisce benissimo che sei un suo grande estimatore.

Arduo, certo… ma anche estremamente affascinante. Il periodo in cui ho scritto il libro è stato uno dei più stimolanti della mia vita. E dirò di più: il momento più emozionante della mia avventura di appassionato che si diletta anche a scrivere di musica è andato di pari passo con la redazione dei due capitoli dedicati alla genesi, alla “composizione” e alla registrazione di Trout Mask Replica. La mia stima nei confronti di Captain Beefheart è enorme, ma questo non mi ha impedito, come da te rilevato, di mettere a nudo i lati oscuri e le incongruenze del suo carattere, oltre che i limiti di alcuni dei suoi dischi. Come ci sono riuscito? Per me è una cosa naturale: non è mia abitudine dire sempre e comunque che le cose vanno bene, anche quando, per dire, un artista se ne esce con un disco poco convincente o del tutto irrilevante. Se ami la musica di qualcuno, allora devi partire dal presupposto che la tua onestà intellettuale non può che andare a tutto vantaggio dell’artista stesso e, soprattutto, di chi legge le cose che scrivi. In caso contrario, non stai facendo critica musicale, ma stai semplicemente svendendo la tua credibilità e, per certi versi, anche quella dello stesso artista di cui ti stai occupando.

Il tuo disco preferito di Beefheart e perché…

Senza dubbio Trout Mask Replica, che è anche il mio disco “rock” preferito in assoluto. Fu proprio grazie a quelle quattro facciate che, molti anni fa, entrai in contatto con l’universo beefheartiano. Il primo ascolto fu uno shock, ma mai shock fu più benedetto. Trout Mask Replica non rappresenta soltanto il più radicale sovvertimento della materia “rock” mai messo su disco, ma è anche, a conti fatti, un vero e proprio Grande Romanzo Americano, un poetico sguardo gettato sull’America, sulle sue contraddizioni, sulla sua bellezza ma anche sulle possibilità di redenzione che si nascondono tra le sue pieghe. La grandezza dei brani che compongono quel mosaico musicale – nati, è bene ricordarlo, dalle improvvisazioni pianistiche di un Beefheart praticamente a digiuno di teoria musicale (e che mai prima di allora aveva suonato quello strumento!), trascritte in maniera intuitiva da John French e “assimilate” dagli altri musicisti in maniera relativamente libera – risiede nella loro capacità di collocare un numero enorme di frammenti musicali dentro strutture rigidamente organizzate, in modo che i musicisti potessero suonarli senza lasciare niente al caso. Infatti, al contrario di quanto si possa pensare (e ancora oggi sono in molti a pensarlo, anche tra gli addetti ai lavori), quei brani non sono improvvisati, ma riflettono una strategia precisa: liberare l’immaginazione e strutturarne il flusso anarchico. Il fatto che in moltissime sezioni di quei brani gli strumenti suonino asincroni, in tonalità diverse e che la batteria, invece di “portare il tempo”, scelga in più di un’occasione di suonare una “summa” delle diverse misure ritmiche dentro cui agiscono gli altri strumenti, rende Trout Mask Replica un’opera di difficile assimilazione per l’ascoltatore medio di musica rock. Ma questo non significa che la musica di Beefheart sia elitaria, anzi! Del resto, egli sentiva di essere rimasto bambino e quella di Trout Mask Replica è la musica rock così come potrebbe immaginarla un bambino. In tal senso, è “vera” musica sperimentale, perché, per dirla con John Cage, se si possono prevedere i risultati, allora non si sta facendo musica sperimentale! Per finire, Trout Mask Replica è anche il disco in cui la potenza lirica di Beefheart viene a galla in tutto il suo splendore. Ci si concentra spesso sulla complessità della sua musica, ma si tralascia sempre di sottolineare la bellezza dei suoi testi. Ecco perché ho scelto di analizzare anche questi ultimi, sottolineandone uno spessore poetico spesso e volentieri ben più consistente di tanti acclamati “poeti” della popular music (Bob Dylan, Leonard Cohen, Jim Morrison…). Attraverso l’attenta analisi dei testi di Trout Mask Replica si comprende inoltre in che modo, nell’universo beefheartiano, musica e parole si traducano davvero in una sintesi indissolubile, superando l’idea che la prima si limiti semplicemente ad accompagnare le seconde…

Trovo che Captain Beefheart abbia di fatto messo sul piatto della cultura statunitense un primitivismo che era necessario, forse, per tornare al grado zero della musica. Fa specie pensare che lui auspicava e attuava questa sorta di percorso in maniera ancora più radicale rispetto a quanto già succedeva negli anni Sessanta. Concordi con questa mia visione delle cose?

Il primitivismo della musica di Captain Beefheart – insomma, la sua volontà di approcciare la materia musicale secondo regole proprie e dando spazio soprattutto all’elemento ritmico, perché la musica nacque essenzialmente da “pratiche” ritmiche – rappresenta, col senno di poi, uno dei fatti essenziali del passaggio tra il rock americano degli anni Sessanta (ancorato agli ideali della controcultura) e quello dei Settanta (proiettato, sulle ali del riflusso, verso sonorità più accomodanti). Quando, nel 1969, fu pubblicato Trout Mask Replica, la controcultura era ormai agonizzante. Woodstock rappresentò l’apice di quegli ideali di libertà, uguaglianza e di pace. Ma, in quanto suo apice, quel grandioso evento segnò anche l’inizio della fine del sogno controculturale, poi tragicamente confermato, di lì a pochi mesi, dai fatti di Altamont. Un sogno, sia detto, marcato da molte contraddizioni, che lo stesso Beefheart non aveva esitato, in più di un’occasione, a stigmatizzare. Per dire, molti artisti o band miravano a sovvertire il sistema, eppure pubblicavano i loro dischi spesso assistiti dalle grandi etichette, o veicolavano messaggi di rivolta attraverso musiche che, a conti fatti, erano tutt’altro che rivoluzionarie, limitandosi a ripetere i soliti cliché o, comunque, a girarci intorno non sempre con molta fantasia. Beefheart e la Magic Band avevano buone potenzialità per sfondare, ma c’era in Beefheart anche un deciso rigetto delle regole. Perciò, a un certo punto, capì che solo uno come Frank Zappa – suo vecchio amico – poteva dargli quella totale libertà artistica di cui aveva bisogno per mettere su disco la sua “vera” musica. Solo che in lui – da pittore qual era – quella musica non si manifestava sotto forma di note e ritmi, ma attraverso un susseguirsi ininterrotto di linee e colori… Con queste premesse, insieme alla Magic Band di quel periodo, finì per incarnare una “controcultura privatissima” e alternativa a quella, per così dire, “ufficiale”. La musica che produssero, infatti, è quanto di più radicale si potesse ascoltare in quel momento in ambito rock. Troppo radicale anche per gli hippie più “scoppiati” e per la stessa intellighenzia che si era posta alla guida della popular music. Una musica, quella del Beefheart di quel periodo, la cui influenza è incalcolabile e il cui peso specifico è ancora, a mio avviso, in larga parte misconosciuto.

Ho trovato interessante anche la parte dedicata alla sua attività di pittore. In particolare mi ha colpito la sua affermazione in un Paese come la Germania. Perché secondo te proprio lì, dall’altra parte dell’Oceano?

Be’, quello fu più che altro un caso, visto che Michael Werner – marito di Mary Boone (la gallerista newyorkese che per prima, intorno alla metà degli anni Ottanta, aveva deciso di esporre i  suoi quadri in America) – era titolare di una galleria in quel di Colonia, nell’allora Germania Ovest. La pittura di Don Van Vliet (da pittore, egli usava il suo vero nome, con quel “Van” adottato per omaggiare uno dei suoi miti, Vincent Van Gogh) fu ispirata soprattutto dall’Espressionismo astratto (Franz Kline, Jackson Pollock, Willem De Kooning…), solo che nella sua opera l’elemento cardine non è rappresentato, ad esempio, dalle inquietudini prodotte dalle metropoli moderne, quanto, piuttosto, dagli scenari del suo amato deserto del Mojave, un microcosmo in cui egli vedeva rispecchiarsi i paesaggi enigmatici della sua psiche. A conti fatti, la pittura di Don Van Vliet rappresenta il corrispettivo visivo della sua musica. Non è un caso, infatti, che alcuni dei suoi brani e dei suoi dipinti condividano lo stesso titolo.

Ci sono, secondo te, oggi degli eredi della sua musica, qualche artista o band che prova a mettere in pratica un modus operandi simile?

Fino agli inizi del decennio scorso, era ancora possibile rintracciare un discreto gruppo di band che facevano chiaramente riferimento alla musica di Captain Beefheart come a una delle loro principali influenze. Penso, ad esempio, agli Old Time Relijun, giusto per citare una delle band relativamente più famose. Tuttavia, si trattava di band che cercavano di imitare il sound dei suoi dischi più che il modus operandi attraverso cui erano stati ideati e realizzati. In ogni caso, là dove qualcuno cerca di fare musica fregandosene delle regole o, comunque, pensando innanzitutto alla propria libertà artistica, lì c’è sicuramente in atto lo spirito beefheartiano.

Secondo me il tuo libro dovrebbe essere pubblicato anche in inglese. Ne scriverai un altro nel frattempo o ti riposerai un po’?

Qualcuno all’estero lo ha già comprato, un tizio in Repubblica Ceca, ad esempio: mi ha detto che conosce un po’ di italiano e che, con l’aiuto di un buon vocabolario, riuscirà senz’altro a leggerlo tutto! Al momento, mi sto riposando un po’: scrivo anche molto meno rispetto a qualche tempo fa (anche se ho comunque avviato un progetto di “storia del rock” sulle pagine del blog di alcuni amici), ma è una cosa che non mi dispiace perché, nel frattempo, mi sto dedicando ad altre mie grandi passioni, come la filosofia o la lettura. Qualche idea relativa a un nuovo libro non mi manca. Mi piacerebbe scrivere qualcosa sui generi più estremi come il death-metal, per dire, oppure su qualche scena musicale non particolarmente famosa. Amo concentrarmi su quelle cose che vivono ai margini del grande pubblico. Anche in questo, evidentemente, lo spirito beefheartiano si fa sentire…