Paolo Pascolo (odboqpo): Basaglia-jazz, musica che non viene e non va da nessuna parte.

Paolo Pascolo, foto di Iztok Zupan

Odboqpo: un nome (quasi)impronunciabile per un trio che si muove sul confine – fisico ed ideale – tra terre prossime e remotissime, tra mondi comunicanti eppure lontanissimi, ipotizzando sentieri in una nebbia cosmica per raggiungere altre vette, altri mondi. Vid Drašler alla batteria, dalla vicina Slovenia, Paolo Pascolo dal nostro amato Friuli Venezia Giulia a flauto, flauto basso ed effetti, ed Alberto Novello al synth modulare stanno da qualche parte tra le nevrosi riduzioniste onkyo, l’estasi free del Sun Ra più acido, certe pagine BYG/Actuel riviste da un occhio (rigorosamente unico e gigante) alieno e un sapore di futuro arcaico che avvolge in un sottile stupore di pellicola tutte le sette tracce dell’ottimo lavoro pubblicato dalla lusitana Creative Sources, già responsabile tra le altre cose di Maniera Nera di Francesco Massaro. Riferimenti e metafore potrebbero continuare a lungo per un lavoro immaginifico, coraggioso e ispirato, che ci ha conquistato dal primo ascolto. Del resto la personalità non manca affatto ai musicisti che provengono da queste terre ai margini, più vicine al mare, all’Est e alle lune di altri pianeti che a Milano. Ne abbiamo già parlato davvero  molte volte, raccontando i dischi e le gesta di musicisti come Giovanni MaierGiorgio Pacorig, Maistah Aphrica, Stefano Giust, Flavio Zanuttini.

Incontrai il flautista Paolo Pascolo nell’inverno di 5 anni fa, alla WIM di Zurigo, città dove vivevo all’epoca; un posto assurdo, tempio della musica improvvisata, in piena red zone (ma siamo in Svizzera, non aspettatevi divertimento vero): una stanza dove da una vita ogni settimana ci sono concerti di musiche di confine. Lui suonava, con Pacorig, Gulli e Giust, se la memoria non mi inganna. Tra l’altro coordina DobiaLab, che assieme all’associazione Hybrida è una delle realtà che porta avanti certi discorsi a Nord-Est e non solo, con respiro internazionale e con l’idea che diffondere suoni di un certo tipo sia una operazione (sempre più) necessaria oltre che profondamente politica: insomma, è uno dei nostri, parliamoci chiaro. Ora che se ne è uscito con questo scintillante e sghembo disco in trio (assumetelo, non ha effetti collaterali ed è perfettamente legale!) è davvero giunto il momento di dargli la parola.

Odboqpo: mossa astuta di marketing, surrealismo o che altro dietro alla scelta di un nome così bizzarro?

Paolo Pascolo: La scelta del nome viene dal pensiero che rappresenti un simbolo grafico oltre che significare qualcosa. In questo caso una interpretazione surrealista te la concedo… riguardo al fatto che sia una mossa lungimirante di marketing, Vid Drašler ha messo il sottotitolo “impossible band to survive”.

Il disco è ottimo, acido e liberissimo: mi racconti come nasce, come avete lavorato, il rapporto artistico tra voi tre musicisti? Ci presenti brevemente i tuoi compagni di ventura?

Il trio odboqpo nasce con l’intenzione di mixare l’approccio della musica improvvisata con una sorta di lavoro su canovacci sonori, ambienti. Questo è stato importante nella realizzazione del disco registrato in studio a Zagabria da Hrvoje Nikšić con cui abbiamo anche editato tutte le tracce. Abbiamo tentato di lavorare su “tematiche” eterogenee, provando a giocare con le varie combinazioni che la strumentazione ci permetteva di avere. Abbiamo anche lavorato molto sull’editing, cosa che nell’ambito della musica improvvisata non è scelta comune. Il disco è un po’ una composizione di materiale all’origine molto più grezzo. Il tutto, grazie all’arte della nostra amica e grafica Giulia Spanghero, è stato compattato splendidamente nel disco uscito per la label portoghese Creative Sources. Con Alberto Novello (Jestern) ho avuto un duo (hBar), in cui abbiamo lavorato con fiati, elettronica e video. Il focus era la programmazione di Alberto, che riusciva a trasformare il suono del flauto in altri suoni elettronici e segnale video. Abbiamo girato molto dal 2010 al 2015, in Europa e anche Stati Uniti e Asia. Quando l’onda di quel progetto si è esaurita abbiamo pensato di coinvolgere Vid Drašler, percussionista sloveno con cui stavo suonando nella prima formazione dell’Orkester Brez Meja. Alberto Novello, fisico ed ora docente di nuove tecnologie al conservatorio di Padova, è un amico fraterno da quando da ragazzini sguazzavamo ai concerti agropunk in Friuli, ma paradossalmente abbiamo cominciato a suonare assieme appena nel 2010 a Berlino. Vid Drašler, invece, è una conoscenza più fresca, ma la sensazione è stata subito quella di una sinergia e di una intenzione comune. Vid usa un set di batteria molto personale, con una timbrica particolarissima, Alberto con questo progetto è passato dal digitale ai synth modulari autoassemblati e io ho provato a espandere i fiati (flauto, flauto basso e sax tenore) attraverso un miniset di effetti.

Ascoltare il vostro disco mi fa sentire come salissi verso i 3000 metri e oltre, in un paesaggio sempre più sparso e con l’ossigeno rarefatto; come una inesorabile, febbrile, solenne (rituale quasi) ricerca dell’essenziale, di qualcosa di pre-alfabetico, di magico? Mi sono drogato troppo da giovane, dici? Come descriveresti tu stesso questa musica? Quando ti chiedono che musica fai, che rispondi?

Non posso giudicare le tue abitudini da giovane, ma mi sa che qualche strascico è rimasto… a parte gli scherzi, grazie! Nonostante ci piaccia essere molto ironici e non prenderci sul serio, nell’atto musicale che si esprime in questo trio c’è sicuramente la ricerca di una autenticità. Prima di tutto nel rapporto tra noi, i componenti, e di conseguenza nella musica e nell’ascoltatore. Sicuramente nel suonare, e spero anche nell’ascoltare questo tipo di musica si creano dei circuiti nell’organismo che possono definirsi “magici”, in quanto slegati da una logica prettamente razionale e da una percezione del tempo non ordinaria. La bravura, secondo me, di un improvvisatore, può esprimersi nel riuscire ad avere una consapevolezza di questa dimensione. Il pericolo è quello di perdersi in una trance solitaria spesso. Mi piace il tuo riferimento alle altezze perché è un’idea che ho, suonando anche uno strumento che può essere acuto, quella della creazione di uno spettro sonoro allargato. Di contro nel disco ci sono suoni di elettronica e anche percussivi molto profondi. Riguardo alle definizioni: in questi ultimi anni nel tritacarne c’è di tutto… elettroacustica, musica improvvisata, musique actuelle, psichedelia occulta, echt zeit muzik. A me piace citare Tristan Honsinger: “Questa è musica che non viene da nessuna parte e non va da nessuna parte”.

Sei il direttore artistico di DobiaLab: per questioni di lontananza (dall’Emilia vien lunga) non ho mai avuto il piacere di venire nel vostro spazio; mi racconti brevemente storia, presupposti, filosofia, ricordi, prospettive, stimoli, difficoltà, tanto più in una fase drammatica come questa?

Premetto che Dobialab è un progetto collettivo, perciò si può parlare di una direzione artistica condivisa. Dobialab si trova nella ex scuola elementare di Dobbia, è una sinergia tra persone che hanno avuto l’esigenza di creare un luogo di confronto e di azione in ambito culturale e sociale. Io mi sono avvicinato nel 2001 grazie ad Enrico Saba (che ancora oggi si occupa di progetti legati all’audiovideo come Dobiafilm o Cinexperimental) e piano piano abbiamo trovato un minuscolo luogo per mettere in atto le nostre passioni, anche grazie a un virtuoso rapporto con il comune di Staranzano, con cui abbiamo una convenzione per la gestione dello spazio. Negli anni, naturalmente, da un approccio ingenuo e selvatico (ancora presente comunque) si è sviluppata una serie di competenze culturali, organizzative e tecniche che ci rendono capaci di una totale autogestione. Abbiamo creduto di far crescere il nostro territorio cercando di lavorare sempre in rete con altre realtà, italiane ed estere (slovene soprattutto, il confine è a 15 km). Un asse fondamentale è quello con Hybrida di Tarcento, una vera e propria Alleanza Galattica. Le difficoltà in questo periodo del Covid sono legate soprattutto alla mancanza del rapporto umano, nella cronicizzazione della pratica a distanza, nella perdita di quella che è la peculiarità dell’abitare un posto come Dobialab. Noi abbiamo scelto di non usare lo streaming come sostituto della nostra attività, ci interessa di più provare a sperimentare, quando è stato o sarà possibile, momenti in presenza. Siamo riusciti a fare una parte del nostro festival Dobiarteventi lo scorso settembre/ottobre, ora stiamo ragionando sui prossimi mesi e su lavori di ristrutturazione dello spazio.

Domanda spinosa: riesci a campare di musica?

Prima e dopo l’università (periodo in cui ho iniziato a suonare in maniera più costante) ho fatto i lavori più disparati, continuando sempre l’attività musicale ed organizzativa. Da qualche anno ho un part-time con una cooperativa per cui faccio l’educatore, soprattutto in centri giovani della zona. È una soluzione che mi permette di avere tempo per sviluppare i progetti che desidero e avere elasticità per prove, concerti, tour.

Come mai in Friuli Venezia Giulia ci sono così tanti musicisti interessanti e non allineati? Merito della marginalità, della grappa, o di cosa? Condividi un uso molto libero del flauto con Massimo De Mattia, ad esempio.

La grappa ha sempre la sua importanza, naturalmente. Personalmente credo che la marginalità che il FVG ha rispetto ad altre scene e situazioni in Italia sia stata una spinta negli ultimi anni a darsi da fare e anche creare dal nulla e in proprio delle realtà che stanno diventando importanti. Forse il FVG è stato il posto che ha avuto più evoluzione in Italia negli ultimi anni grazie all’apertura dei confini e all’entrata della Slovenia nell’Unione Europea nel 2004. Questo per la mia generazione ha comportato un cambio di prospettiva ed un’apertura (ed un ritorno) verso la Mitteleuropa. Quando andavo ancora a scuola a Gorizia alla fine degli anni ‘90 potevamo tranquillamente passare in piazza Transalpina dove la rete divideva ancora la città (è stato così fino al 2004). Perciò per molti aspetti, tra cui quello culturale, è stato uno snodo storico importante verso lo sviluppo di nuovi scenari, che sono ancora in divenire. Orkester Brez Meja nasce appunto da questo intento. Questa sensibilità “europea”, il confronto con musicisti e festival con un forte appeal ha creato una scena peculiare e sviluppato i talenti. Hai citato Massimo De Mattia. Ti posso raccontare che nel 2003 ebbi la fortuna di sentirlo suonare al festival di Setola di Maiale al Cerit a Pordenone. Quando finì il concerto il mio pensiero fu “è possibile suonare il flauto in questa maniera!”. Qualche anno dopo lo sostituii nella Phophonix Orchestra con soggezione, ammetto. Non posso che esprimere ammirazione per Massimo come uomo e musicista.

obdopqo, foto di Erin McKinney

Hai partecipato all’Orchestra Senza Confini con Kaučič e Maier, mi racconti dello spirito e dell’azione di questo progetto? Rapporti con musicisti oltre confine? Nomi che sfuggono al radar dei più (tu appartieni a questi, tra l’altro, direi, sbaglio?) e che sarebbe necessario portare secondo te all’ attenzione?

L’Orchestra Senza Confini/ Orkester Brez Meja nasce dall’incontro del collettivo italiano DOB Orchestra e il Kombo di Zlatko Kaučič al BCMF di Smartno, appena oltre il confine friulano/sloveno nel 2010. Ogni anno al festival, organizzato appunto da Zlatko, abbiamo lavorato con un ospite, il primo anno Evan Parker, poi Johannes Bauer, Saadet Turkoz, Tristan Honsinger… fino a che si è stabilizzata la formula della doppia conduction da parte di Giovanni e Zlatko, formula con cui abbiamo registrato tre dischi. L’intenzione era di creare un progetto realmente transfrontaliero che mettesse a confronto musicisti italiani e sloveni e contribuisse a costituire una “scena” nuova. Come dicevo prima la Slovenia, pur essendo una piccola nazione, possiede una scena musicale fatta di musicisti e festival che negli ultimi anni credo sia un riferimento a livello europeo, penso solo a realtà come quella di Cerkno, del Sajeta, le varie stagioni di concerti a Lubiana a cura di Zavod Sploh, Defonija e molte altre realtà indipendenti. Dei musicisti con cui ho avuto a che fare o che ho ascoltato citerei sicuramente sassofonisti come Cene Resnik, Bostjan Simon, Jure Borsic, batteristi come Marko Lasič, Vid Drašler, Gal Furlan, contrabbassisti come Jošt Drašler, Tomaz Grom, e altri come Samo Kutin, Ana Kravanjia, Andrej Fon..ma la lista potrebbe essere molto più lunga..

Come ti sei avvicinato al mondo dell’improvvisazione e dell’elettroacustica? Hai assunto dosi di Topotron (titolo di una traccia del disco, ndr) in gioventù?

Topotron a colazione con le fette biscottate! Da ragazzo suonavo rock psichedelico ed affini, poi ho avuto la fortuna, organizzando concerti in un centro sociale, di incontrare ed ascoltare vari generi. Mi attirava la musica non scontata, irregolare e conoscendo poi in quel periodo personaggi come Giovanni Maier e Giorgio Pacorig, con cui poi ho cominciato anche a suonare, la curiosità verso una certa area è diventata anche pratica. È stata decisiva la fortuna di poter vedere dal vivo concerti e musicisti in luoghi come Hybrida, Stazione di Topolò, Metelkova… Poi dal 2003/4 ho iniziato a imbastire progetti anche legati all’elettronica, che mi ha sempre affascinato. Mi è sempre piaciuto ibridare la musica con altre forme come quella visuale, performativa… Suonando poi ho avuto occasione di collaborare con molti musicisti e da ogni situazione naturalmente cresce qualcosa. Verso il 2006/8 partecipavo a progetti come i Res_et, Mattatoioscenico, Devil?Man, Phophonix Orchestra, ho fatto parte per qualche anno di Neokarma Jooklo, Aghe Clope, poi decisiva è stata la conoscenza con Tristan Honsinger, che dal 2007 al 2010 ha abitato a Trieste. La presenza di Tristan nel nostro territorio ha contribuito a far prendere coscienza a molti musicisti della coesione di una scena legata all’improvvisazione. Lui è un incredibile catalizzatore. Con Tristan abbiamo ancora un quartetto, “I Sagonauti”, con repertorio scritto da lui. Sicuramente anche Dobialab in tutti questi anni ha avuto il merito di accentrare le energie e l’attenzione di molti musicisti, sia locali che “foresti”, favorendo sempre uno scambio e la nascita di nuove relazioni.

Il tuo primo ricordo musicale?

Devo dire che vengo da una famiglia “proletaria”, dove la musica non era in primo piano. Ma ho avuto la fortuna di cominciare a studiare da bambino in corsi che la banda del paese offriva in ambito scolastico. Ho l’immagine del maestro di musica che durante la pausa studiava classica con il clarinetto in uno stanzino, e che con altri bambini lo spiavamo.

Cinque dischi fondamentali nel tuo percorso.

Domanda da un milione di dollari… molti, ma mi vengono in mente dei dischi appunto decisivi negli ascolti della mia fase di “formazione”: The Zu Side Of The Chadbourne credo sia stato il primo disco impro che ho acquistato. The Art Of Improvisers di Ornette l’ho consumato, come Coming Home Jamaica dell’Art Ensemble Of Chicago, che mi ha fatto scoprire Roscoe & Co. Per il lato più elettronico cito per tutti Cyclo di Alva Noto e Ryoji Ikeda e invece da flautista una raccolta di Fabbriciani con registrazioni di “Nidi” di Donatoni e “Hyxos” di Scelsi.

Cinque musicisti che ritieni fratelli dal punto di vista artistico.

Comincio citando Giovanni Maier, vero e proprio riferimento e amico come anche Giorgio Pacorig. Mi sono affacciato alla musica libera assistendo ai loro concerti e da quei tempi abbiamo costantemente collaborato. Andrea Gulli, musicista elettronico e co-organizzatore al Dobialab, anche con lui ne abbiamo passate tante in vari progetti, ci siamo affacciati al mondo musicale insieme nello stesso periodo. Alberto Novello con cui i tour sono stati dei veri e propri viaggi di esplorazione… Stefano Giust che  per anni ho guardato un po’ da lontano con ammirazione per poi intraprendere con lui un lungo sodalizio. Ci sono anche progetti in cui i musicisti che ho citato si intrecciano naturalmente anche con altri. Non posso non ricordare anche fiatisti straordinari come Gabriele Cancelli e Clarissa Durizzotto.

Se potessimo sentire tutti i suoni del mondo contemporaneamente, diventeremmo pazzi, diceva uno che lo sapeva lunga nel jazz. Cos’è il jazz per te, e forse allora dalle vostre parti Basaglia ha fatto dei danni? Bisogna restaurare l’ordine facendo intervenire la jazz police?

Beh, una jazz police che gestisca in modo intransigente il coprifuoco sarebbe la chiusura del cerchio! Parlare di jazz per me non è semplice, devo dire: per me il significato più profondo è quello originario dell’avere coraggio nelle contaminazioni e nella ricerca come dicevi tu prima , “magica”, nella musica. Riguardo a Basaglia che citi: non posso non chiudere ricordando lo spettacolo a cui ho partecipato a Trieste per l’anniversario della legge 180 promosso dall’azienda sanitaria e affidato a Tristan Honsinger: “Abbastanza”. Abbiamo lavorato per mesi assieme ad un coro di “matti” che recitavano e cantavano le canzoni di Tristan e ti assicuro che alla fine del processo, durante la messa in scena era difficile distinguere la “follia” e la “normalità”.

Vuoi aggiungere qualcos’altro, vuoi ritrattare qualche affermazione prima che venga tutto consegnato alla posterità elettronica?

Sottoscrivo tutto senza remore… mi assumo tutte le responsabilità!