GIANCARLO SCHIAFFINI / GIORGIO PACORIG, Dolenti Delitti Dolosi Dalle Dilette Doline

GIANCARLO SCHIAFFINI / GIORGIO PACORIG, Dolenti Delitti Dolosi Dalle Dilette Doline

Continua indefessa la meritoria opera di Setola di Maiale di testimonianza delle musiche improvvisate (qui la nostra intervista a Stefano Giust): questa volta si tratta di un live, registrato durante la bella rassegna “Carso in Corso” a Monfalcone in provincia di Gorizia, che vede l’incontro tra il pianoforte di Giorgio Pacorig e il trombone di Giancarlo Schiaffini. Si comincia con un mood interlocutorio, circospetto: i due musicisti sembrano studiarsi, il clima è sorvegliato, la registrazione probabilmente perfettibile. Una specie di blues anarchico, ispido e spettinatissimo brucia sotto la cenere di un free un po’ troppo austero (“Lo Scazzone Innamorato”), come un fuoco che non prende. Languide nostalgie da spartito che vola nel vento (“Temevo Il Timavo”), ma l’ispirazione pare latitare, l’impressione è quella di un meccanismo che non riesce a scorrere in modo fluido. Può capitare, è fisiologico che accada anche a due grandi musicisti come Pacorig (lo abbiamo apprezzato molto ultimamente sia con Mahakaruna Quartet che con Pipe Dream, senza dimenticare l’exploit del collettivo di afropsychobeat Maistah Aphrica) e Schiaffini (semplicemente la storia di certo jazz libero, in Italia e non solo, in questi giorni in tour con Sergio Armaroli e Andrea Centazzo per presentare Trigonos,  il disco uscito per DodiciLune): raramente viene scritto e noi qua lo facciamo senza timore. Improvvisazioni che sanno di malmostosi cieli olandesi (con il profilo sornione di Misha Melgenberg a spiare di soppiatto) che custodiscono ombre di Storia (a un certo punto si coglie un fugace accenno a “Caravan” di Ellington) e si lanciano nel mare magnum dell’imprevedibile, senza però riuscire sempre ad emozionare: come se i due cercassero in continuazione una idea forte o un flusso al quale abbandonarsi, trovandolo solo per brevi lampi. A volte anche la messa in musica di una ricerca, o di un fallimento della medesima, può suonare avvincente, e a tratti anche qui accade, anche se prevale un senso di vaghezza un po’ incerta, che solo in alcuni frangenti sa fare di questo viaggiare senza bussole un bonus. Il pianismo corrusco e mai prevedibile di Pacorig talvolta incendia una sarabanda come nella title-track, dove Schiaffini finalmente si lascia andare a briglie sciolte. Poi meline tra speleologia nel pianoforte e pneumologia applicata al trombone, e una chiusa informalissima tra teatro e orme di bop frantumato in mille pezzi. Un disco che non regala i brividi che era lecito aspettarsi ma che rappresenta una tappa (certo, non imprescindibile) di due musicisti rari e di un’etichetta da supportare sempre e comunque, non fosse altro che per il suo cocciuto ruolo politico, in tempi in cui siamo soffocati dal conformismo e dal già sentito.