MOUNTWEAZEL, Doublethink

MOUNTWEAZEL, Doublethink

Le parole sono importanti: la scelta dei nomi e dei titoli può dire molto, a volte. Doublethink, cioè il bis pensiero, una parola coniata da George Orwell  per “1984”, a indicare il meccanismo psicologico che consente di credere che tutto possa farsi e disfarsi , nonché la volontà e la capacità di sostenere un’idea e il suo opposto. E allora ecco un disco che in tre quarti d’ora dimostra una grande memoria del futuro e di avere grandi progetti per il passato. ll fascino del disadorno, la bellezza scabra di panorami che di primo acchito paiono spogli, per poi rivelare un loro sensuale mistero,un mood tra il free e il cameristico, ombre europee, informali, e grandi alberi con salde radici nella fire music afroamericana (viene in mente un Archie Shepp con meno swing). Questo lavoro del quartetto Mountweazel, con ospite Nicola Guazzaloca al piano in un paio di tracce, punta direttamente al nocciolo della questione o – per citare il titolo dell’incipit – alla purezza dell’essenza: “Purity Of Essence” si pone subito in effetti come dichiarazione d’intenti, niente moine riduzioniste, niente melina, lunghi piani sequenza increspati da belle tensioni narrative e da un’ottima gestione delle dinamiche; non si lasciano andare a didascalie il basso di Antti Virtaranta e la batteria di Adrian David Krok, semmai disegnano punti e linee di fuga perfetti per il dialogo tra il sax alto di Federico Eterno e il tenore di Davide Lorenzon, gestore della Aut Records assieme a Bob Meanza. Foga e lirismo si scontrano dando vita a mondi liberi e sghembi, come un Coltrane su una nave alla deriva (“Hungry Waves”) che, dopo una traversata perigliosa, raggiunge terre sulle quali cresce una vegetazione lussureggiante e misteriosa, in grado di inghiottire lentamente i sentieri che portano lontano dalle sponde (“Apopudobalia”). E allora è di nuovo tempo di correre, sotto il diluvio, mentre il vulcano al centro dell’isola (non può che essere vulcanica ed insulare la terra di approdo di questo vagare) apparecchia tutta la sua furia e cadono i primi lapilli (“Kaffeemischung”), tre minuti entusiasmanti tra furia scandinava – vedi alla voce Mats Gustafsson e Pal Nilssen Love – e quiete sorniona prima e dopo la tempesta. Selvatico e ispido senza essere gratuito, accademico senza essere polveroso, il disco è animato da una vitalità incontenibile; aggiunge ulteriore legna al fuoco Guazzaloca con i punti interrogativi del suo pianoforte in “Esrum Hellerup”, che ci immaginiamo suonata alla Bimhuis di Amsterdam con Misha Mengelberg ad annuire in ultima fila. Del resto, questo lavoro è tutto un gioco di continui rimandi tra la verità dell’ispirazione e l’irrealtà dei mondi evocati. Lilian Mountweazel, musa ispiratrice del quartetto, è una fotografa immaginaria, spacciata per vera ma mai esistita. Mountweazel allora inteso come luogo-trappola, isola fantasma, città di carta. Molto interessante che la metafora dell’isola io l’abbia pensata prima che Lorenzon stesso mi spiegasse l’origine del nome: evidentemente certe suggestioni passano comunque. E allora sono istruzioni di controllo per percorsi diversi in basi a condizioni illogiche, perché la realtà è sempre uguale alla fantasia +1, e la storia della musica creativa può continuamente essere rivisitata e riscritta.

Ottimo disco, felicemente in bilico tra realtà ed irrealtà, perfetta colonna sonora per un libro labirintico come “L’invenzione di Morel2 di Adolfo Bioy Casares. Dovremo allora tornare quanto prima su Aut Records, una etichetta cooperativa e no profit dedita alla musica di ricerca. Linguaggi dell’inaudito, dice il sito, e noi allora restiamo con le orecchie spalancate per i dischi a venire.