LITTLE SIMZ, Sometimes I Might Be Introvert

La personale formazione scolastica mi ha sempre portato a guardare al passato per capire il futuro (ed è anche quello che faccio a To Tape, il mio programma radio), attingendo molto dalle locuzioni latine piene di solide verità basate sull’osservazione empirica del mondo. Gutta cavat lapidem (la goccia perfora la pietra) dicevano per indicare la potenza della costanza nel raggiungere un obiettivo, qualunque esso fosse, senza la forza dirompente di un enorme flusso d’acqua che spesso distrugge ciò che si cerca di avere, ma con il piglio certosino di una piccola e apparente insignificante goccia d’acqua.

Little Simz è quella piccola goccia d’acqua che in maniera quasi silenziosa, diretta, costante, impegnata, ha costruito il suo percorso, un flow dopo l’altro, che l’ha portata al suo primo vero disco, Sometimes I Might Be Introvert. Quasi affascinata dal suo stesso essere introversa, come dice il titolo, ha sempre colpito nel segno con una certa consapevolezza di sé, pur portando un bagaglio di dubbi tipici della tardo-adolescenza aumentati dal suo essere una ragazza di 27 anni, nera, figlia di immigrati e residente in una Londra che fagocita qualunque cosa. Dal 2014 ad oggi ha fatto la sua piccola e lunga strada, arrivando nel 2019 con Grey Area, il disco che le ha permesso di approdare anche qui in Italia per risuonare nelle nostre orecchie, e brillando con questo ultimo lavoro, quasi un kolossal, in un anno post (forse) pandemia.

Storie personali che si intrecciano con la necessità di mettersi al servizio della musica (come lei stessa dichiara) per manifestare il proprio dissenso nei confronti di ciò che sembrerebbe scontato raccontare perché ormai tristemente abituati a tutto uno stato di cose. L’ambiente scuro e fumoso nel quale aveva sviluppato il suo stile, dal primo lavoro fino a Gray Area, qui diventa una stanza piena di fari accesi su temi ancora tristemente attuali e grandi: l’apartheid e la cultura africana (“Little Point And Kill”, con il cantante afrobeat nigeriano Obongjayar), la violenza delle gang (“Little Q”), il femminismo in “Woman”.

Un’opera omnia che raccoglie e riassume la sua vita di attenta e riflessiva osservatrice attaccata alle radici culturali e musicali della Black Music ma forte dell’esperienze vissute in prima persona, dal tour con i Gorillaz nel 2017 fino alla partecipazione al progetto Sault, di cui Inflo – sua ala protettrice per questo album – è principale produttore. A differenza dei lavori precedenti, Sometimes I Might Be Introvert suona in maniera più classica, caldeggiando con sottile incisività quell’infinito spettro di colori del Soul, complici anche gli ascolti più tradizionali che hanno accompagnato la scrittura di questo ultimo lavoro: Etta James, Nina Simone, Marvin Gaye. La voce pulita ed eterea di una giovane donna come lei esalta ancora di più la scelta di suoni vintage nelle strumentali attraverso anche l’uso del sampling, l’arte di fare canzoni con altre canzoni, come testimonia “Two Worlds Apart”, ad esempio, contenente un campione di “The Agony And The Ecstasy” di Smokey Robinson, datata 1975.

Probabile che tra vent’anni questo disco possa essere considerato una pietra miliare del nu Soul ma nel frattempo ci godiamo il presente nella speranza che «questa persona introversa, con tutte queste idee folli che non sempre riesce ad esprimere se non attraverso l’arte» continui ad avere dubbi, insicurezze e le riversi dentro la musica, se i risultati sono di questa portata.