KOЯN, Requiem

Non sono né un biografo né un fan acritico dei KoЯn: credo abbiano commesso tanti errori (mi piacciono i primi due dischi, ma già Follow The Leader mi fa incazzare, mentre sono molto affezionato a Issues, poi vedo tanti bassi ma pure qualche acuto). Non sono però un fondamentalista metal che non li considera proprio: il groove nel metal va bene, lo scat, il rap vanno bene, le tute, gli sponsor, le chitarre ribassate e persino il “dubstep” sono ok per me.

Quasi trent’anni dopo la sua esplosione è ovvio che siamo di fronte a un gruppo che non può sorprendere più di tanto e che non regge per tutto un album, ma che prova a piazzare qualche buon colpo (molto buono, a volte), mi viene in mente proprio questo Requiem ma potrei pensare anche a The Serenity Of Suffering del 2016, che si portava appresso due pezzoni da aggiungere alla playlist “KoЯn” su YouTube (Y’all want a single, say fuck that)… e basta. Insomma, ormai sappiamo tutti dove si troveranno Munky ed Head un minuto prima che ci arrivino. Scrivo “tutti”, perché questi cinquantenni hanno venduto decine di milioni di copie e sono entrati in casa di chiunque attraverso la tv quando la tv aveva la massima potenza, senza dimenticare che hanno suonato persino a Pordenone, e quando tocchi Pordenone vuol dire che sei stato già ovunque. Persino le kornamuse e gli scleri di Jonathan Davis passano a orari precisi, senza comunque che ciò mi impedisca di volergli bene, anche perché si sa che lui ha ragioni reali, sempre nuove e diverse, per dare di matto: non ultima il Covid, che lo ha sfiancato per bene, basta leggere le news dell’anno scorso.

“Start The Healing”, “Forgotten”, “Lost In The Grandeur” sono i tre singoli: il primo inizia come “Coming Undone”, il secondo come “Blind”, il terzo è KoЯniano fino al midollo ma non trovo antecedenti, e tutti e tre fondono parti incattivite e devastanti con ritornelli ultramelodici, il motivo stranoto per cui il gruppo – grazie al camaleonte Davis – tiene insieme il suonare pesanti, lo stare in radio e il riempire palazzetti. A me poi non dispiace affatto “Let The Dark Do The Rest”, un po’ per la citazione finale di “Would” degli Alice In Chains, un po’ per via di uno dei riff principali (su cui giustamente Johnatan grida “Sick! Sick!”), uno di quelli che potrebbe andare avanti anni senza stufare. Si sente molto meno il pilastro Fieldy, che dopo le registrazioni – a leggere i giornali – pare aver abbandonato.

Curiosità: Requiem è il disco più breve dei KoЯn… meno tempo per fare passi falsi?