DEAFIKDS, 26/7/2022

Lubiana, Klub Gromka.

Tre mesi di tour con pochissimi day-off: maggio con gli Oranssi Pazuzu, giugno e luglio da soli, anche se per fortuna non sono mancati i festival (Obscene Extreme, ad esempio). A Lubiana, quartultima tappa (un clamoroso infrasettimanale) prima del ritorno in Brasile, i Deafkids sono sfiniti, il Gromka è mezzo vuoto e il soundcheck viene fatto in ritardo, tanto che il locale tiene chiuso ben oltre l’orario di apertura porte annunciato. Questo, insomma, è il racconto di una serata triste, quindi di un pezzo della vita di tutte le band underground che provano a girare e che giocoforza – incredibile, amici – si fanno male e non solo perché dormono per terra. Non, per capirci, la storia di quelle che hanno più magliette che dischi o date (e che chiamano tour una manciata di concerti sparsi e distanti nel tempo) o ancora – specialità italiana – che non escono dal proprio capoluogo di provincia o esistono solo nella realtà parallela delle riviste specializzate. Un racconto che non molti scrivono, perché purtroppo anche chi in questo ambiente dovrebbe testimoniare, tende invece a fantasticare, un po’ per non dire che la serata organizzata dagli amici è andata male magari perché gli amici sono stronzi, un po’ perché gli pare di tradire la scena, un po’ perché ha dato dieci a un gruppo che poi fa 4 paganti. Poi, è vero, il pubblico ha le sue colpe: non è mai curioso abbastanza e non comprende che a volte per sostenere l’economia è necessario dare comunque soldi un posto ogni tot tempo (à la Keynes). Per tutti questi e anche per altri motivi esiste una paura di fallire generalizzata, che induce tutte le parti della catena di montaggio live a risparmiare il più possibile, con le band che cercano di adattarsi perché si sa che oggi se vuoi che qualcuno ti compri il vinile, allora glielo devi praticamente portare sotto casa, se no c’è lo streaming e tanto basta alla maggioranza. Scegliere la via del tour significa prepararsi a smacchi, inculate, errori. Intanto però, quando i Deafkids tirano fuori le magliette per metterle sul banchetto del merch, si vede che sono rimaste loro solo le taglie impossibili (extra small per Qui, Quo e Qua, megalarge per Brock Lesnar, oggi tutti e quattro assenti): questo è un buon segno, perché vuol dire che hanno dato via tutto durante le date precedenti e che dunque il loro sacrificio devastante ha avuto senso. La buona stampa già c’era, l’etichetta figa (Neurot) già aveva capito, i connazionali illustri già li amavano (Iggor Cavalera) e adesso in tanti li hanno visti o rivisti passare per ben 17 paesi europei, più nello specifico per 53 città. Stasera pagano dazio, ma hanno il mio massimo rispetto. Forse la morale di questa storia è crederci sempre e forse anche che se va male a una band Neurot, allora bisogna non dare nulla per scontato mai se si vuole arrivare alle persone. Forse, infine, è anche non pensare che i posti restino aperti per magia… e dire che gli ultimi due anni dovrebbero averci insegnato qualcosa.

Iniziano i locals Cveto Ramšak Bodi Roža, alle prese con una specie di krautdoom (la loro è una lunga jam, alla fine) che sarebbe piaciuto tanto ad Adam della Crucial Blast o al tizio della Riot Season.

Tocca ai Deafkids, che su palco utilizzano tutti e tre ogni tipo di percussione, fra batteria vera e propria, tamburelli vari (Douglas Leal, il chitarrista) e soluzioni “sintetiche” (Marcelo Dos Santos, il bassista). Quello più in botta è sicuramente Mariano Sarine, il batterista, che si rivela l’anima (proprio nel senso di animare) della band e attira le attenzioni su di sé perché l’unico a muoversi in modo più vistoso. Gli altri due, invece, sono a pezzi.

Il set è un lungo, autentico, ritualistico flusso di coscienza (un’ora, praticamente), come immaginavo e come del resto le ultime cose registrate dai ragazzi. Si basa come da sceneggiatura originale sul contrasto tra preistoria e futuro, animali e macchine, legno ed elettricità. Se il locale fosse stato pieno e i Deafkids avessero aumentato il ritmo, allora sarebbe stata una bolgia, ma oggi non è così ed ecco dunque lunghe fasi meditative e interlocutorie solo percussive, interrotte dalle parti più belle e intense di Metaprogramação (Neurot, 2019), quelle in cui chitarra e basso cominciano a farsi sentire e ad alzare il volume generale, con accelerazioni ed esplosioni quasi subito soffocate, qui come nell’album in studio, come se il gruppo non volesse perdere il controllo ma solo far capire cosa potrebbe succedere se ciò avvenisse, ma forse oggi serviva qualcos’altro, probabilmente un miracolo.