PJ Harvey: alle soglie del bosco, con il nuovo album

“Prayer At The Gate” apre e chiude Orlam, il romanzo in versi di PJ Harvey pubblicato nel 2022, e apre anche I Inside The Old Year Dying, il suo nuovo e decimo album per la prima volta su Partisan Records. Due oggetti, indipendenti nella fruizione, che ciononostante vivono l’uno dell’altro, l’uno nell’altro.

Seconda opera poetica dopo l’esordio a tema post-bellico The Hollow Of The Hand del 2015, che ben sette anni fa aveva a sua volta innescato il precedente lp The Hope Six Demolition Project, Orlam è un poema aspro e ruvido nell’antico dialetto del Dorset, con tanto di traduzione a fronte e glossario in appendice, sviluppato a lungo con il supporto del poeta scozzese Don Paterson. La riccioluta protagonista, una bambina di nove anni chiamata Ira-Abel Rawles, abita nel villaggio immaginario di Underwhelem, archetipo dell’Inghilterra rurale occidentale, guidata nel suo percorso di (s)formazione dall’amore per il soldato-fantasma Wyman-Elvis, scaraventato grazie al surrealismo magico dalla guerra civile inglese all’incontro tra i due nella foresta di Gore.

And all souls under Orlam’s reign / made passage for the born again / So look behind and look before / at life a-knocking at death’s door / And teake towards your dark-haired Lord / forever bleeding with The Word. Andirivieni, rinascite, cerchi del destino, in quella che, “Prayer At The Gate” appunto, è una filastrocca al di là del tempo, che si insinua con una spettrale serpentina synthetica per piantarsi in testa con primordiale semplicità melodica. Seppur riadattati al bisogno, i testi di I Inside The Old Year Dying si sovrappongono a quelli letti in Orlam, generando una ricorrenza ostica e misteriosa di luoghi, personaggi e simboli, in un microcosmo quasi autonomo, organico, fatto di humus, rami (sì, nodosi e storti/contorti come quello di copertina), foglie, prospettive nebulose e molte, molte soglie. Poste, principalmente, tra l’esistenza e la morte, il passato e il futuro.

Non è forse PJ Harvey, al di là di ogni predilezione individuale, una delle più grandi musiciste viventi? Mai un disco fuori canna dal 1992 a oggi, tutti ottimi, se non tutti imprescindibili. Lo si sa, certo, e lo si è rammentato con la certosina operazione di ristampe e relative raccolte di meravigliose b-side, intrapresa dal 2020 al 2022. Tutti dischi differenti fra loro, marchiati a fuoco da una personalità tanto enigmatica e sfuggente quanto subito riconoscibile. Tante, ne abbiamo sentite: la ragazza-disagio di Dry, le bollenti provocazioni elettriche di Rid Of Me, i barocchismi rosso scarlatto di To Bring You My Love, le brezze post-bristoliane di Is This Desire?, il pop-rock metropolitano di Stories From The City, Stories From The Sea, l’intimismo punk di Uh Huh Her, le ballad esoteriche di White Chalk… Fino all’apertura alla sfera sociopolitica, affrontata nello sperimentale Let England Shake volgendosi al proprio Paese, e nel succitato The Hope Six Demolition Project, più affine nelle strutture a forme popular e influenzato dai viaggi in Kosovo, Afghanistan e Washington (DC), ampliando dunque lo sguardo al mondo.

Se l’imperativo resta quello di non ripetersi, I Inside The Old Year Dying è il primo lavoro che unisce espressamente differenti vocazioni artistiche per PJ Harvey, nello specifico le note e le parole, così come le arti figurative – l’edizione speciale di Orlam contiene le illustrazioni dell’autrice che, non dimentichiamo, si è avvicinata all’arte in gioventù studiando scultura (cosa era d’altronde “Sheela-Na-Gig” se non un pezzo-creatura di pietra?). Questo è un aspetto interessante perché, sebbene accompagnando ogni era artistica a una corrispondente immagine, Harvey – chitarrista e multistrumentista cimentatasi con pianoforte, autoharp, sassofono, di disco in disco, di sfida creativa in sfida creativa – si è focalizzata quasi e solo esclusivamente sulla musica rispetto a molti altri colleghi che non definiremmo necessariamente più versatili, semmai (furbamente?) multidirezionali. Bizzarro, allora, che lei sia giunta a I Inside The Old Year Dying nel tentativo prioritario di riconnessione con le sette note, accogliendo il suggerimento del regista Steve McQueen: Polly, devi smetterla di pensare alla musica come se si trattasse di album. Devi pensare a ciò che ami. Ami le parole, ami le immagini e ami la musica. E devi pensare: Cosa posso fare con queste tre cose?

Missione compiuta. A questo giro di vite siamo dalle parti di un folk minimalista e ancestrale eppure proteso in ottica avant (la sensazione è che la ricerca possa-debba persino accentuarsi in ulteriore prospettiva), mai facilmente decifrabile né accomodante, in un assemblaggio di brani brevi e incisivi, composti nell’arco di poche settimane, avvicinandosi nel gioco dei rimandi al trip hop di Is This Desire?, all’aura gotica di White Chalk e all’utilizzo – a cura di Adam “Cecil” Bartlett – di field recordings e library music di Let England Shake, oltre che ovviamente in quest’ultimo caso al doppio filo con il Regno Unito. Riassumendo, Harvey ha dichiarato in via ufficiale, riferendosi al work in progress avviato a seguire il tour di The Hope Six Demolition Project: Ero piuttosto smarrita. Non ero davvero sicura di quello che volevo fare. A conti fatti: Le nuove tracce offrono uno spazio per riposarsi, una consolazione, un conforto, un sollievo, che sembra essere necessario per i tempi in cui viviamo.

Dagli argomenti di peso, dalla cronaca da reportage trasfigurato, qui si fa un passo indietro, in un ripiegamento, procedendo a ritroso come una Witch al crocevia tra Robert Eggers e i Fratelli Grimm: Avevo istintivamente bisogno di un cambiamento di scala. C’era un vero desiderio in me di tornare a qualcosa di veramente piccolo, che si riducesse a una persona, a un bosco, a un villaggio. Tutto va al posto “non giusto” in un ascolto fortemente contrassegnato dal senso dell’eerie come lo intendeva Mark Fisher: c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, oppure non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa. Lo scrittore britannico definiva lo straordinario film Under The Skin di Glazer un caso di studio su come produrre l’eerie e Harvey ha nominato proprio Mica Levi, il cui capolavoro è rappresentato dalle musiche di Under The Skin, parlando di chi oggi le è d’ispirazione, in mezzo ad artisti autori anche di colonne sonore (gli altri sono Jonny Greenwood, Hildur Ingveldardóttir Guðnadóttir, Ryūichi Sakamoto, Anna von Hausswolff).

Ecco, in questa fase di apertura verso l’esterno, quella con Levi sarebbe stata una delle collaborazioni dei sogni, che ci sarebbe piaciuto magari veder andare in porto. Al contrario, Polly Jean conferma scelte che equivalgono a certezze inossidabili al suo fianco: John Parish e Flood, in una simbiosi a tre andata in scena ai Battery Studios di Londra, dove si è messa al primo posto la musica, come si diceva poco sopra, assecondando improvvisazioni e registrazioni in presa diretta, abbassando il tasso di control freakness in favore di un maggior abbandono. La voce, da sempre demone gutturale e angelo estatico nelle sue infinite, innumerevoli trasformazioni, cambia più volte tono addirittura all’interno della stessa canzone. Un effetto voluto, non una novità, che ci ha riportato agli ottovolanti canori dei lavori co-firmati con il medesimo Parish (pensiamo per esempio ad “April”, dall’inflessione di una donna centenaria, e a “Pig Will Not”, mix di latrati furiosi, da A Woman A Man Walked By del 2009).

L’amico Ben Whishaw partecipa ai cori in “A Child’s Question, August”, singolo che introduce subito Wyman-Elvis partendo da Coleridge, e nel crepitante madrigale in odor di Nico di “August”, mentre fa altrettanto Colin Morgan nel mini-sabba di “A Child’s Question, July” – Horny devil? Goaty God?, il ludico interrogativo – e nella malinconia gessosa di “I Inside The Old I Dying”, il cui videoclip di animazione è stato diretto dai registi cileni Cristóbal León e Joaquín Cociña. Il coinvolgimento vocale dei due attori si inserisce nel quadro di un periodo ricco di impegni associati al teatro e agli schermi, dalla soundtrack di All About Eve, per l’omonima pièce, a quella più recente e assolutamente da non sottovalutare per la serie noir comedy Bad Sisters, a rimarcare un certo mood cinematografico.

L’idea del ricorso costante al personaggio Wyman-Elvis è altrettanto cinematografica: Presley, già santino per Nick Cave, affascina Harvey dall’adolescenza. Nella straniante “Lwonesome Tonight”, chiaramente in suo riferimento sin dal titolo miscelato a flash biblici, ci si chiede Are you Elvis? Are you God? / Jesus sent to win my trust? e, andando avanti, si sentenzia un autentico Verbo: “Love Me Tender” are es words. “Love Me Tender”, tender love recita del resto il ritornello, uno dei più immediati, di “A Child’s Question, August”.

Sono in un posto dove non sono mai stata prima. Cosa c’è sopra, cosa c’è sotto, cosa è vecchio, cosa è nuovo, cosa è notte, cosa è giorno?, dice Polly. Muovendosi dal blues radioheadiano di “Autumn Term” allo storytelling scarno della title-track e alle aspre dissonanze in stato di dormiveglia di “Noiseless Noise”, spiccano in maniera particolare l’1-2 dark ambient costituito dalla marcia sovrannaturale di “The Nether-edge”, che cita sia Amleto sia Giovanna D’Arco, e dalla fosca “All Souls”, un trattenuto conto alla rovescia per l’addio alla carne. Pur con sottile humour, “Seem An I” si apre a cappella con annesso belato di agnello, rinsaldando in maniera inedita – dire autobiografica sarebbe forse troppo – il legame con le radici, con l’infanzia (e il presente) nella campagna del Dorset. Un arrivo alla madre terra o un déjà vu riportato alla coscienza di linguaggi smarriti.