Negli archivi di Four Flies

La Four Flies Records nasce a Roma con l’intento di riscoprire una tradizione tutta italiana di musiche realizzate per sonorizzare (termine quantomai attuale) le immagini sullo schermo, grande o piccolo che fosse. Quella Golden Age, come Pierpaolo De Sanctis ama definirla, fu di ispirazione anche per il grande cinema prodotto oltreoceano, tanto da diventare fenomeno di culto proprio negli Stati Uniti prima che da noi. Moda o meno, l’attenzione nei confronti di una vera e propria corrente musicale, di cui siamo fortunati eredi, si può ravvisare ormai ovunque, anche nelle piste da ballo (luogo molto familiare allo stesso Pierpaolo), se non in una rinnovata estetica e fascinazione musicale. Ma c’è tanto altro di più in questo mondo e in quello della Four Flies, che guarda al passato per poter parlare di futuro, come mi ha raccontato proprio Pierpaolo De Sanctis, deus ex machina dell’etichetta.

Prima domanda banalissima, anche un pochino per fare un primo focus: che cos’è la Four Flies Records?

Pierpaolo De Sanctis: La Four Flies è un’etichetta discografica che nasce sette anni fa in un periodo in cui c’era stato un ritorno di attenzione per le colonne sonore italiane, quelle che a me piace chiamare Golden Age Soundtracks. Si parla degli anni Sessanta e soprattutto Settanta, e di un periodo epocale, vista la qualità e freschezza delle idee, la lungimiranza anche di certi autori per certe composizioni che sono rimaste negli anni e che ripescate in quel periodo, parliamo del 2015, a noi sembravano incredibilmente contemporanee. Ci siamo resi conto che il suono di certe colonne sonore italiane si poteva ritrovare nei dischi di musicisti che facevano tutt’altro, da Danger Mouse alle produzioni hip hop americane, tra l’altro artisti nati quaranta, cinquant’anni dopo. Lo stesso Gaslamp Killer, che tira fuori dalla sua collezione i dischi di Morricone o di Tullio De Piscopo, ti fa capire quanto questa musica italiana abbia preso delle strade completamente inaspettate. In realtà, era nata come musica applicata, doveva funzionare semplicemente come commento sonoro a delle immagini, se di film importanti o di serie Z è la stessa cosa per noi. Il concetto è che quella era musica funzionale a qualcos’altro. Poi, grazie anche a questa digestione e metabolizzazione fatta da altri artisti, questi suoni sono tornati ad essere attuali, almeno alcuni di questi suoni, non certo tutta la produzione. Da questa consapevolezza qui è nata Four Flies, unita alla mia passione per ciò che riguarda il mondo della cultura italiana di quel periodo dal quale provengo. Anche se sono nato alla fine degli anni Settanta, ho questa nostalgia per un periodo che non ho vissuto subendone da sempre una fascinazione, non ti so neanche spiegare bene perché.

È il concetto del sentirsi di essere nato nel momento sbagliato…

O forse no, va bene così. Non arrivo a quel tipo di distorsione lì. C’è da dire che non mi fermo solo a quello, cerco di ascoltare di tutto quello che esce di contemporaneo per capire cosa sta uscendo. Non so però spiegare perché qualcosa mi piace o risponde un po’ alle mie corde…

Potremmo buttarla sul discorso filosofico-religioso riguardo le altre vite, anche se nel tuo caso si tratta di uno scarto troppo breve…

Per dire, tutti i film che ho visto a raffica da ragazzino erano quelli delle tv private degli anni Ottanta, dai polizieschi agli erotici senza, senza filtri. Quelle immagini, quella fotografia, quella musica mi sono sicuramente rimaste dentro.

Perché anche se non sei nato proprio nel periodo d’oro, alla fine degli anni Settanta c’era ancora la scia di quello che era successo poco tempo prima.

Sì, ma anche il suono delle tv private, gli stacchetti. Alla fine erano le library, anche quelle tornate ad essere di culto, ma era veramente musica spazzatura per i compositori che la producevano (ride, ndr).

Giusto qualche giorno fa ho intervistato Tommaso Cappellato e mi ha raccontato di questo episodio con Mndsgn che gli aveva parlato entusiasta di Detours di Piero Piccioni. Tommaso sottolineava proprio questa poca attenzione in Italia verso la “musica a servizio”, perché spesso fatta per film di serie B. Ma ascoltarla oggi e staccata dal discorso cinematografico fa capire quanto di incredibile abbiamo sempre avuto dentro casa.

Invece per me la chiave è stata proprio quel collegamento, perché io ci sono arrivato attraverso i film. Quel tipo di dischi non venivano quasi mai pubblicati o se messi in commercio erano costosissimi, per collezionisti. E oltre ad essere affascinato dalla fotografia, quel tipo di colori, il design, ero colpito soprattutto da quel tipo di suggestione musicale. Ho iniziato da subito a cercare quelle musiche facendo i miei mixtape da ragazzino, collegando il registratore alla piastra. Facevo già delle compilation dai film perché quella musica non esisteva, non era pubblicata. Se andavi in un negozio di dischi, magari qualcosa di Piero Piccioni la trovavi, del film di Sordi perché era più famoso ma non c’era tutto. Di Morricone avevano solo “Mission”, non tutta la sua produzione, c’erano i titoli più importanti. Tu cercavi i gialli di Morricone, che sono spaventosamente fantastici, e non li trovavi. Per cui, l’unico modo era mettersi a fare quello che facevo io (e come altri, immagino): cassettine oppure aspettare che uscissero le prime ristampe alla fine degli anni Novanta, però senza troppa attenzione dietro. C’è stato, infatti, un primo ritorno di interesse per quella musica ma era molto declinata in chiave lounge, di ascolto, ed è durata lo spazio di una moda. Invece, il recupero che abbiamo fatto noi è diverso. Anzi, siamo arrivati anche dopo altre etichette come Death Waltz, Mondo, che facevano delle edizioni fantastiche. Quel recupero lì è stato fatto con un approccio… non soltanto non modaiolo ma da…

Da ricercatore.

Sì, a tratti da ricercatore, ma intanto erano stati altri anni e ci si era resi conto che quel cinema e quella musica erano diventate di culto. Improvvisamente gli americani erano impazziti tutti per Lucio Fulci e per le colonne sonore dei suoi film, e c’è voluto del tempo anche perché sedimentasse tutta questa roba qui. Quelli erano gli anni giusti e quindi probabilmente era anche il tempo giusto per farlo. Il nostro è stato un approccio diverso perché siamo andati a ricercare delle cose non presenti sul mercato ma che io stesso, in primis da appassionato, avrei voluto ci fossero. Per colmare questa lacuna è nata Four Flies, quindi sono andato insieme ad altri amici, diventati poi colleghi, nelle cantine, nei depositi, a casa dei compositori a cercare le bobine mai pubblicate di questa musica che veniva appunto sonorizzata nei film ma senza avere un editore, un discografico che decidesse di farla girare con l’edizione in vinile della colonna sonora. Veniva fatto per “Profondo Rosso”, per “Anonimo Veneziano”, per altre cose, ma era una piccolissima parte di quanto composto per il cinema.

Infatti, fino ad ora abbiamo raccontato la parte romantica. E ci deve essere, perché ti porta a fare il resto, a mettere le mani nella polvere, ad impiegare giornate nella ricerca e tutto ciò che viene dopo. Ma il passaggio vero come è avvenuto? Avete trovato il disco che vi ha convinto a mettervi poi sul mercato?

È stato un po’ il periodo: nel 2014 è stata concepita Four Flies, quindi un anno prima rispetto alla prima uscita. Mi sono trovato ad intervistare molti di questi compositori per un progetto di un documentario e libro che non sono ancora stati ultimati (risate, ndr).

Perché vuol dire che l’etichetta nel frattempo ha preso piede bene e ha tolto tempo al resto.

Sì, esatto: è ancora in lavorazione, diciamo così. Però, venendo poi realmente a contatto con questo mondo, fino ad allora visto solo romanticamente e di cui collezionavo sostanzialmente tutto, in quel periodo di successo nel mercato di cui ti parlavo che ha portato a ristampare il ciclo di Black Emanuelle di Nico Fidenco, i gialli di Morricone di cui si erano completamente dimenticati tutti, ho pensato lo potessimo fare anche noi. Se loro lo fanno per business semplicemente perché sono discografici e fiutano il mercato pronto per queste cose, perché non dobbiamo farla noi italiani, in casa, cresciuti con tutto questo e immersi in esso fino alla testa? Ci sono state diverse cause, queste sono le due più importanti probabilmente.

Con Four Flies si parla di passato, perché chiaramente va a recuperare cose indietro nel tempo, ma non di passatismo: una malattia molto acuta in Italia che causa quasi il rifiuto per il nuovo. Come hai detto prima, ascolti anche cose nuove e quindi hai una visione più ampia: in questo momento la musica sta andando verso una direzione di recupero del passato perché ora non c’è fantasia e quindi si va sul sicuro o perché ci si è resi conto che il passato era già molto avanti nel futuro? È una domanda marzulliana, lo ammetto, ma sono conosciuto per farle.

La risposta è già nella domanda, negli ultimi anni si è sempre andare alla ricerca del passato, Retromania lo spiega molto bene (libro di Simon Reynolds, ndr), e soprattutto in Italia perché è un continuo riscoprire musica che è stata sempre considerata segreta. Penso al libro di Valerio Mattioli, Superonda: non si finisce più di scavare. Si guarda a quel tipo di passato perché è musica che non ritornerà mai più ma che ascoltata oggi ti dà la sensazione di qualcosa di completamente folle, molto eccentrico rispetto a quello che sei abituato ad ascoltare. Se accendi la radio, qualsiasi in Italia, ti rendi conto che c’è anche questo desiderio di qualità, c’è una ricerca che nel mainstream puro non trovi, almeno non di quel tipo. Alcune di quelle cose erano anche troppo in anticipo, e infatti non hanno avuto nessun tipo di successo all’epoca. Penso a un compositore come Giuliano Sorgini, di cui abbiamo fatto diverse cose, tirando fuori parecchi inediti dal suo archivio. Un disco come Africa Oscura, ad esempio: era stato un assemblaggio di musiche scritte per dei documentari RAI a metà degli anni Settanta, ambientazione africana ma il tutto letto e filtrato dal gusto del compositore e veniva fuori una roba tipo elettronica primordiale, minimale: sintetizzatori, percussioni e batteria suonate. Un mix che per quel periodo, metà degli anni Settanta, agli occhi dei funzionari RAI sembrava una colonna sonora molto povera perché il documentario ha meno budget e Sorgini si arrangiava in casa con un registratore a quattro piste. Traccia dopo traccia, faceva tutta la colonna sonora praticamente da sé, solo incidendo magari la chitarra, le percussioni, cioè con tre strumenti ricopriva tutto così e quindi realizzava una musica estremamente scarna. Riascoltata trenta, quarant’anni dopo, ha tutto un altro sapore, sembra veramente invece prefigurare il minimalismo degli anni successivi, certe cose che avrebbero sviluppato Carpenter o Brian Eno. Era una musica molto avanti rispetto al suo tempo, premonitrice di tante cose anche rispetto alla riscoperta della musica Afro degli ultimi anni. Infatti non ci saremmo aspettati questo clamore intorno alla pubblicazione, che lo ha fatto diventare immediatamente un disco di culto per tutti, soprattutto all’estero. Anche Piero Umiliani e la compilation che abbiamo fatto, L’Uomo Elettronico, incentrata tutto sul suo output elettronico: sono dischi che lui faceva come library music, non avevano un mercato commerciale, erano destinati soltanto agli addetti ai lavori della RAI per essere passati nei programmi e facevano un certo effetto abbinate a delle immagini televisive in quel periodo ma poi finiva lì la cosa. Mi viene da pensare che forse lo spettatore medio italiano dei primi anni Settanta aveva una sensibilità e una predisposizione per andare oltre, gli potevi dare tutta quella psichedelia, quella elettronica Prog. Sono musiche fuori da ogni genere, da ogni schema, non li puoi neanche classificare se non come library. Era musica veramente eccentrica, rivoluzionaria persino se ascoltata adesso perché veramente oggi non esiste nulla di simile, anche Umiliani in quel disco sembra prefigurare Aphex Twin ma vent’anni prima e non si spiega se non come la voglia di certi compositori completamente liberi da certi paletti. Loro dovevano produrre musica per delle immagini che non erano neanche necessariamente di un film e doveva andar bene per altri mille utilizzi successivi, quindi questa libertà gli permetteva di sperimentare, di giocare con le proprie ossessioni, invenzioni. Nascevano quindi queste cose che all’epoca vengono percepite magari come stranezze accettate dalla RAI ma oggi sembrano veramente venire da un futuro soltanto immaginato e mai realizzato.

A proposito di Sorgini e il metodo di composizione e produzione Africa Oscura fatto in casa, da solo, di cui hai raccontato: è un metodo che oggi si contesta perché il poter fare tutto a casa con il computer e da solo non è sinonimo di qualità. Quindi, dal punto di vista pratico è la stessa cosa ma esteticamente e qualitativamente siamo su due piani diversi, perché all’epoca c’era un modo di esprimersi e adesso magari è un tutto un po’ più freddo. Hai mai pensato a queste differenze?

Sono due gli aspetti principali, il primo è l’analogico. Parliamo di un periodo in cui c’era un mixer analogico, dei synth che se li compri oggi devi fare un mutuo, era tutto registrato su bobina, c’era veramente un approccio caldo, chiamiamolo così semplificando. E poi era un’altra Italia, un’altra società, cultura, un altro spirito dei tempi.

C’entra il boom economico?

Quello è stato l’innesco che ha permesso al cinema di quegli anni di cambiare musica perché prima, negli anni Cinquanta, la colonna sonora principale era fatta da per lo più di orchestrazioni, molto vicina alle opere di Verdi, a quel tipo di composizioni sinfoniche romanticheggianti, molto classiche. Alla fine degli anni Cinquanta arriva improvvisamente il jazz e cambia tutto perché il Jazz era la musica del boom economico, anche in Italia, non soltanto in America o in Francia. La nuova società richiede un nuovo tipo di musica e il jazz è il primo segnale di scossa in questo senso, una scossa elettrica: via violini e dentro gli assoli di sax, tromba, contrabbasso eccetera. Poi, già negli anni Settanta più che il boom economico c’entra il tema, la strategia della tensione, c’è un clima un po’ di guerra civile a bassa intensità e che respiri sia nelle colonne sonore di Morricone per Dario Argento, sia in queste cose di compositori “minori” come Sorgini, per i suoi horror o per i suoi documentari RAI, insomma.

Tornando alla Four Flies: il disco per il quale non vi aspettavate un certo tipo di riscontro?

Ce ne sono tanti, per fortuna: uno è Afro Discoteca, un dodici pollici di Alessandro Alessandroni che abbiamo stampato per la prima volta cinque anni fa perché era un inedito e veniva da una bobina che ho trovato nell’archivio del compositore, lavorando con lui qualche mese prima che morisse. Se n’è andato proprio a marzo di quell’anno il 17, tre giorni prima che uscisse il disco.

La storia la David Bowie, tra l’altro.

Riversai questo nastro e glielo portai su un cd dicendogli: “Guarda Sandro, qui è una cosa incredibile, ma ti ricordi da dove viene? Che cos’è?”. Perché non era mai uscita, non era mai stata utilizzata in nessun film, niente, almeno che io sappia. Mi disse: “No, non mi ricordo niente” e riascoltandolo disse soltanto: “Ammazza stavo avanti però, eh?! (risate, ndr).

E sì, stava avanti perché aveva inventato un suono che non esisteva, un misto di musica tribale e elettronica perché c’erano i sintetizzatori ma con un ritmo che faceva pensare quasi alla musica house o techno fatta con strumenti acustici alla fine degli anni Settanta. Quindi è stata letta in quella chiave da tutta la schiera di adepti della Club Culture che ha comprato il disco, inaspettatamente perché immaginavamo di rivolgerci anche a quel pubblico di dj e appassionati di musica elettronica, però non pensavamo di andare così a fondo in quel territorio lì. E infatti quello è stato un lavoro che ci ha spinto a pensare a Four Flies anche in una chiave più dancefloor, soprattutto io perché vengo anche da quelle esperienze lì e facevo delle feste, dieci, quindici anni fa, cinematiche, diciamo così, dove mettevo e suonavo questi dischi più ballabili dalle pellicole di colonne sonore italiane del periodo. Però, poi la sfida è stata di pensare anche a cose che non erano mai uscite, a vere e proprie rielaborazioni, rimaneggiamenti affidati a dj e produttori che stimiamo e che ci piacciono come Jolly Mare, come pAd, Painé. Insomma, abbiamo fatto parecchi rework e ne stiamo ancora facendo per dargli una spinta in più. Però non tutto il nostro pubblico è compatto su questa operazione: i puristi ci dicono di non toccare nulla, anche importanti musicisti di spessore che conosciamo, e altri ci spingono a continuare. Anzi, questa cosa ha allargato molto il nostro pubblico perché ci ha fatto conoscere da persone che magari non conoscevano il pezzo originale di Umiliani, “Discomania”, ma che con il rework di Jolly Mare l’hanno ballato in pista scoprendolo per la prima volta.

Mi trovi d’accordo, perché in una puntata del programma radio ho fatto ascoltare la versione originale e quella di Jolly Mare, attaccate, per far capire che quest’ultima non va a stravolgere il brano di Umiliani ma gli dà un tocco diverso mantenendo intatto il valore originale.

Sì, che gli permette di stare più nel flusso di un set diciamo contemporaneo: è perfetto per un set 2022. Infatti lui lo chiama “litfing” perché è appunto un ritocco, che rispetta tantissimo la registrazione originale.

Il disco, invece, che vi ha fatto penare di più nella ricerca o in generale in tutto il processo “produttivo”.

Ce ne sono anche lì tanti, perché ogni disco è un parto. L’ottenimento delle licenze, ricerca dei diritti. Ad esempio, per Paisà Got Soul è stato un esaurimento a trovare tutti gli aventi diritto, ottenere le licenze, chiudere gli accordi, perché una compilation che va a toccare mondi completamente diversi, non è una colonna sonora con un unico referente, al massimo due. In questo caso, avendo anche artisti appartenenti a major importanti, è stato molto complicato e abbiamo impiegato più di un anno solo per questo. Invece, lato colonne sonore, quella che è stata bella arrivare a fare, sempre di Piero Umiliani, che in Italia uscì con il titolo “Orgasmo” e con il titolo internazionale “Paranoia”. È sempre stata considerata inesistente fisicamente, e molti amici, colleghi di altre etichette mi hanno sempre risposto in questo modo. Quando ho creato Four Flies è stato uno degli obiettivi da raggiungere e alla fine ce l’abbiamo fatto perché esistevano ma semplicemente etichettati male con il titolo di lavorazione dell’edizione francese, “Desiderio d’amoure” mi pare si chiamasse. È chiaro che se non si conoscono certe dinamiche, l’abc di storia del cinema si fa fatica, se leggi un titolo che non è quello che cerchi passi avanti. Un cinefilo o un archivista un po’ più esperto davanti a delle bobine sa ipotizzare che si tratti di qualcos’altro. Quando abbiamo trovato tutte le bobine di “Orgasmo” puoi immaginare la felicità, ho fatto un salto di due metri quel giorno.

Beh, bello…

Bello sì, ma anche alla faccia di tutti quelli che dicevano “No, non esiste, lascia stare”. Invece io ho pensato che nulla non esiste a priori, semplicemente è nascosto, mettiamola così.

Four Flies adesso è anche un’etichetta che sta producendo materiale inedito, penso a Tonico 70 e Chiara Civello:

Tonico 70 viene dall’incontro con Banda Maje, avevamo già pubblicato Ufo Bar ed è stato un incontro d’ammmore (dice proprio così, ndr), perché li abbiamo conosciuti e ci siamo trovati subito con lo spirito saliforniano, come dicono loro. Quando Tonico ci ha detto che stava lavorando al suo disco solista, suonato tra l’altro con Banda Maje, abbiamo subito deciso di farlo insieme. Vic’l è un pezzo straordinario, Soulfunk e Rap italiano come vorremmo ce ne fosse. Elegante poi, non è buttato lì. Invece l’incontro con Chiara lo dobbiamo al nostro comune amico, Dario Bassolino; anzi, Maestro Bassolino perché ha una miriade di progetti, LDNFK l’ultimo, ma suona veramente ovunque. Ci ha parlato di questo brano che stava producendo insieme a Chiara, occupandosi di tutto, un adattamento italiano di “Olhos Coloridos” di Sandra De Sá, un inno all’antirazzismo. Io poi sono un patito della musica brasiliana, è una cosa che farei con Four Flies ma ci sono tante altre etichette che lo fanno benissimo. Quindi, questa vibe Funk brasiliana mi ha conquistato subito, siamo stati contenti abbiano pensato a noi e abbiamo pubblicato il disco subito. Ce l’ha portato a giugno e a settembre era fuori. Tra l’altro una copertina stupenda di Riccardo Gola. Questa cosa di lavorare sugli artisti che fanno musica nel contemporaneo è un altro punto di arrivo di Four Flies, non è così scontato da un’etichetta che nasce per un certo tipo di ricerca e lavoro, con una immagine ben definita e chiara. Però c’è un filo che lega tutto questo perché il motivo che alimenta questa decisione di fare colonne sonore è che deve suonarci contemporaneo anche se appartenente ad un’altra epoca. Deve avere un impatto sulla contemporaneità, quindi il passo dallo stampare cose di cinquant’anni fa ma che suonano fresche al pubblicare lavori contemporanei è stato naturale. La freschezza che troviamo in Tonico 70 o Banda Maje è la stessa che troviamo in Piero Umiliani, Sorgini e Alessandroni.

Per chiudere il cerchio, la musica italiana secondo te dove sta andando?

Non sono tanto titolato per dare una risposta del genere perché è vero che ascolto tutto quello che esce però filtro tantissimo, per cui tutto un settore di roba non lo calcolo, io Sangiovanni non so chi sia e non mi interessa. Però, c’è tanta musica che ascolto e che non diresti mai, fa riferimento a situazioni italiane di Rap o Pop di un certo tipo. Una cosa, per dire, è Sangiovanni o i Maneskin, un’altra è tutto quell’altro che si muove seppur in maniera diversa. Mi piace, per esempio, come lavora l’etichetta Periodica Records che fa cose particolari tipo l’ultimo Capinera. Proposte nuove che comunque hanno dei richiami ad una tradizione musicale importante, nobile e apprezzatissima da tutti noi. Ma anche lavori più commerciali che evito di dirti ma, ecco, cerco di non restare agli Settanta/Ottanta perché è una cosa che non sopporto, quando vado a casa ascolto tutt’altro. Quando faccio i miei set sì, faccio anche tutta la selezione Four Flies, di library, però se mi chiamano ad una festa, tipo qualche sera fa, metto musica brasiliana elettronica con una base quasi soulful house. Non ho pregiudizi, ecco, tutto ciò che di buono risponde al mio tipo di gusto che esce e continua ad uscire. Tipo i Sault adesso.

La musica è talmente tanta e talmente diversa che stare confinati ad un solo genere è ossessione, non ce la faccio. Seppure poi la mia identità e storia sono quello.

Certo, c’è la propensione naturale che ti spinge verso ciò per cui sei nato e poi c’è la curiosità di vedere il mondo oltre il tuo.

Credo che ci siano delle cose buone anche in Italia, sicuramente più a livello indipendente e non propriamente mainstream. Quando parliamo di totalmente mainstream non ce la faccio. Se accendi una qualsiasi radio fm commerciale in Italia stai male, se l’accendi in altri luoghi è diverso, inizi a prendere appunti perché noi abbiamo un livello di diffusione commerciale che è veramente tremendo.

Si aprirebbero altre parentesi ma mi blocco perché altrimenti non finiamo più e da sbobinare sarà lunga… (risate, ndr) ma grazie della disponibilità.

Grazie a te!