MINDWARS, Mike Alvord

MINDWARS

Ai più giovani il nome di Mike Alvord, magari, dirà poco, ma chi come il sottoscritto ha vissuto di prima sponda l’epopea thrash anni ottanta comprenderà la curiosità con cui ci siamo avvicinati al progetto Mindwars, una band divisa tra due continenti e che vede in azione insieme al chitarrista del culto Holy Terror due italiani, Roby Vitari (già incontrato su queste pagine virtuali come batterista dei Jester Beast) e Danny Z Pizzi al basso. L’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Mike era davvero troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, complice anche un debutto che ci ha invischiato ascolto dopo ascolto, rivelandosi un vero e proprio ponte tra tradizione thrash e voglia di allargare i propri orizzonti musicali. Le foto a corredo dell’articolo sono di Robert Orsa.

Ciao, cominciamo questa chiacchierata parlando di come tu e Roby vi siete conosciuti, se non erro è successo molto tempo fa quando eri in tour per l’Europa con gli Holy Terror, giusto?

Mike Alvord (chitarra/voce): Io e Roby ci siamo conosciuti nel 1989, quando gli Holy Terror erano in tour in Europa con Exodus e Nuclear Assault. Suonavamo a Milano e lì ci siamo incontrati e abbiamo scoperto che lui e la famiglia di mia madre avevano in comune le origini calabresi. Nell’autunno del 2013 ci siamo ritrovati grazie a Facebook, il che prova come a volte si dimostri utile. Ci siamo scambiati vari messaggi e mi ha chiesto se suonassi ancora la chitarra, così gli ho mandato alcuni riff che avevo scritto nel corso degli anni e lui vi ha aggiunto la batteria. Il risultato mi è piaciuto molto e abbiamo deciso di lavorarci sopra insieme. Il passo successivo è stato cercare un bassista e Roby mi ha parlato di Danny, così, visto che non avevo in mente nessuno e loro vivevano nella stessa area, mi sembrava sensato provare a vedere se funzionava. Danny si è dimostrato perfetto per noi e il fatto che loro possono provare insieme rende le cose davvero più semplici. Una volta aggiunto basso e batteria, la faccenda è diventata molto interessante, ma restava lo scoglio delle vocals. Io non ho mai voluto cantare, ma nessuno di noi conosceva un cantante che andasse bene, per cui abbiamo deciso di provare con me. Credo le cose abbiano funzionato, ovviamente non mi avvicino neanche al mitico Keith Deen (cantante degli Holy Terror), né ci ho provato. Comunque, era già duro mettere insieme tre persone di continenti differenti, per cui abbiamo deciso di andare avanti con quest’assetto.

Credo che il vostro background comune come parte della scena dell’epoca vi abbia aiutato a lavorare insieme anche oggi. Che ricordi hai di quei tempi?

Gli Ottanta erano un periodo favoloso. La NWOBHM era al suo apice e label come la Metal Blade e la Combat Records tentavano di mantenere vive le cose negli USA. Mi ricordo di aver visto tantissime band da vicino: Motörhead, MSG, Metallica, Raven, Saxon e molte altre ancora. La scena era ok negli States, ma non così grande. Sembrava molto più forte in Europa, il che è abbastanza vero anche oggi.

Così, ad un certo punto hai deciso di dar vita ai Mindwars, ricordi come è nata questa decisione?

Dopo aver lasciato gli Holy Terror, ho suonato un po’ nella zona di Los Angeles con alcuni vecchi amici di scuola. La direzione era parecchio distante dal thrash, direi che era una combinazione di grunge e punk. È durata un paio di anni. Nel 1991, ho appeso la chitarra al chiodo e sono tornato a scuola. Avevo un sacco di materiale scritto negli anni Ottanta, parte del quale sarebbe probabilmente finito nel terzo disco degli Holy Terror, cosa che come sappiamo non è accaduta. Avanti veloce per venticinque anni e i Mindwars mi sono in pratica caduti in grembo. Non cercavo di metter su una band, ma a volte le cose succedono quando meno te le aspetti e, di sicuro, non lo stavo aspettando.

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Di certo, non è stato facile far funzionare le cose con voi tre sparsi su continenti differenti, come avete organizzato le registrazioni?

Come ti dicevo, avevo un mucchio di materiale raccolto durante gli ultimi venticinque anni, così ho cominciato a mandare a Roby vari sample su cui ha cominciato a costruire le basi di batteria. Alcuni dei brani non li abbiamo cambiati per niente. Ad esempio “Speed Kills” e “Chaos” erano praticamente pronte prima che nascessero i Mindwars. Altri brani, invece, sono stati riscritti quasi del tutto. Inutile sottolineare come strumenti quali Facetime o Skype siano stati di enorme aiuto. Venticinque anni fa tutto questo non sarebbe mai potuto succedere.

The Enemy Within è un album che affonda le radici nella scena thrash, ma presenta anche delle digressioni in stili differenti e di rallentare quando serve. Come descriveresti il vostro sound ai nostri lettori?

Quello che è davvero bello di questa situazione è che non abbiamo bisogno di scrivere o suonare in un modo particolare per soddisfare le richieste di qualcuno. Suoniamo quel che ci piace e se piace anche alla gente è una gran cosa, ma va bene anche se poi non succede. È nato da noi, non abbiamo aspettative e qualsiasi cosa succede ci va benissimo. Abbiamo tutti una vita al di fuori della musica e i Mindwars, come la musica in generale, rappresentano solo il modo per esprimere noi stessi. Penso che suoniamo come poche altre band presenti oggi nella scena, abbiamo brani più lenti, come hai detto, ma anche alcuni pezzi veloci a cavallo tra thrash e punk. Credo che nella nostra musica si possano ritrovare elementi Black Sabbath, Slayer, Holy Terror (ovviamente), Soundgarden e molte altre influenze che vengono fuori nel nostro modo di suonare.

È stato difficile confrontarti con il tuo passato negli Holy Terror mentre scrivevi i nuovi brani, soprattutto considerando che rappresentano un vero e proprio culto nella scena thrash? Che tipo di sentimenti hai rispetto a quel periodo?

Non è stato per nulla difficile, dopo tutto sono passati venticinque anni. Qualunque sentimento negativo ormai è scomparso. La maggior parte del tempo passato con gli Holy Terror ha rappresentato un’esperienza fantastica. Andavamo d’accordo, almeno finché l’impatto negativo delle droghe non ha cominciato a dividerci. Avevamo prospettive e influenze differenti da ogni altra band in giro. Anche se Kurt scriveva la maggior parte del materiale, aggiungevamo tutti il nostro tocco personale. Io, Floyd e Joe formavamo una base ritmica incredibilmente unita e la voce di Keith era come nessun’altra nella scena thrash e speed-metal.

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Descriverei The Enemy Within come un “grower”, in grado di svelare tutte le frecce al suo arco ascolto dopo ascolto, esattamente l’opposto di quei dischi che ti danno subito una botta allo stomaco ma finiscono per perdere presto il loro appeal. È stato un qualcosa di voluto e pianificato?

Non abbiamo pianificato nulla, abbiamo solo messo insieme parecchio materiale che avevo già scritto. Ovviamente c’è un flusso che lo attraversa. Ad esempio, le strutture dei brani hanno dei punti in comune, ma si reggono in piedi anche da sole. Si inseriscono bene nel tutto, perché The Enemy Within e i testi seguono comunque un filo logico. A volte, quando pensi troppo alle cose, suonano forzate, mentre se le lasci semplicemente scorrere ottieni qualcosa di differente, per questo siamo contenti del nostro primo lavoro. Speriamo che anche il secondo mantenga questo tipo di feeling, anche migliore. Credo che sia importante tentare sempre di progredire.

Avete deciso di inserire una cover di “Masters Of War” di Bob Dylan, una canzone contro la guerra, tema presente anche in altre tracce. Quali sono i temi trattati nei tuoi testi e in grado di colpire la tua attenzione?

Sono sempre stato un fan di Bob Dylan. Masters Of War contiene probabilmente i versi più oscuri che abbia mai scritto e si sposa alla perfezione con la mia visione della guerra e della politica. Se dal punto di vista delle parole andava già bene, abbiamo dovuto rendere la musica più nera e pesante affinché s’adattasse al nostro stile. Cerco di essere sempre aggiornato sulla politica e sulle questioni inerenti l’ambiente, per questo rielaboro i miei pensieri nei testi dei brani, ma cerco anche di non risultare troppo serioso e di aggiungere ogni tanto un po’ di ironia al tutto.

L’artwork sembra riassumere in sé tutto il disco, compresa la tecnologia e l’influenza che internet ha sulla nostra vita. Quindi, che mi dici del tuo rapporto con la rete e il suo impatto sul tuo quotidiano?

L’artwork incorpora davvero tutto ciò di cui parlano le lyrics di The Enemy Within. Ci sono accenni a innocenza, guerra, distruzione, social media, attaccamento, controllo, impotenza… Mario Lopez ha fatto un lavoro eccellente nel catturare tutti gli elementi che volevo fossero presenti. Per quanto riguarda i miei pensieri sui social media, potremmo stare qui a parlarne per giorni. Hanno un’importanza primaria nella società odierna e, in effetti, The Enemy Within non esisterebbe senza di essi. Al contempo, sono logoranti e possono diventare l’elemento centrale dell’esistenza di molte persone. In generale, i pc sono la causa della mancanza di socializzazione e attività all’aperto per i ragazzi. La maggior parte preferirebbe sedersi di fronte ad un pc o una console invece di correre all’aria aperta. E questo non è solo poco salutare per il corpo, ma anche per la mente. A volte dobbiamo disconnetterci e godere la bellezza che c’è fuori.

Presenterete il disco dal vivo? C’è già qualche piano per date italiane?

Speriamo di organizzare un piccolo tour in Europa in primavera o estate. Di sicuro faremo vari concerti in giro per l’Italia. Quando abbiamo suonato qualche data a Los Angeles in autunno, abbiamo eseguito tutto l’album dall’inizio alla fine e credo che, quando verremo in Europa, avremo anche del nuovo materiale da presentare.

Grazie mille per il tuo tempo, concludi come preferisci…

Grazie per il vostro sostegno, apprezziamo davvero il vostro incoraggiamento. Spero di vedervi tutti durante il tour!

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