LUCRECIA DALT, ¡Ay!

Attesa nella line up dell’imminente quattordicesima edizione del festival Transmission, Lucrecia Dalt è tornata fra noi, riapparendo di fatto come un UFO con il suo ottavo album da solista, il terzo a uscire su RVNG Intl. a due anni di distanza dal sospeso e fantasmatico No Era Sólida. Nel mezzo ci sono stati anche il lavoro co-firmato con Aaron Dilloway (ex Wolf Eyes), intitolato Lucy & Aaaron, e le colonne sonore per il film “The Seed” e la sorprendente miniserie televisiva “The Baby”.

Magari è proprio dai risvolti sci-fi di queste visioni che la musicista e sound artist colombiana residente a Berlino, solita muoversi insolitamente tra elettronica e avanguardia, ha attinto a livello di input per l’impianto concettuale di ¡Ay!, sviluppato in realtà a seguire vari scambi teorici con il filosofo Miguel Prado in una sorta di odissea metafisica incentrata con una buona dose di ironia sul senso dell’atemporalità. Lo stratagemma del personaggio fittizio, già adottato per No Era Sólida, viene portata all’estremo: un’entità aliena di nome Preta, procuratasi un corpo grazie alla pelle morta evaporata nell’idrosfera, si confronta via via, sebbene eterna, con la geologia del nostro pianeta – ricordiamo che Dalt, in una vita precedente, era ingegnere geotecnico – e con ciò che la costituisce sul piano prettamente umano, inclusi l’amore, il conflitto e la finitezza dell’essere. Dalt, interpretando Petra nei clip diffusi sinora, girati nell’isola di Maiorca, lecca delle rocce, danza sugli scogli, fluttua sull’acqua, parla di datazione radiometrica…

Addentrandosi nelle dieci tracce in programma, anziché alla fantascienza, viene però da pensare a un lungometraggio di David Lynch, in particolare senz’altro a Mulholland Drive, vuoi per il freddo cromatismo di copertina che riporta alla scatola blu dell’inconscio – ad aprirsi su diverse possibilità identitarie e a legarsi perfettamente all’ascolto tanto morbido, avvolgente, setoso, pregiato quanto notturno e dunque misterioso – vuoi soprattutto per l’utilizzo da “Club Silencio” della lingua spagnola, a collegarsi di proposito con la musica tradizionale della propria terra di origine, puro eco sensoriale dall’infanzia riportato in superficie, a uno stato tangibile (del resto, come dicevamo, qui in potenza non esiste alcuna limitazione temporale). Se l’incontro tra forma-canzone e ricerca colta è affine a quanto esperito da una Julia Holter, l’idioma latinoamericano getta ponti, volendo, con altri oggetti marziani, in primis all’interno della produzione dei loro stessi autori, quali per esempio l’omonimo di Arca o Cenizas di Nicolas Jaar.

Le radici di cui sopra ci sono sia nella scelta di base di accostarsi a sorpresa a generi come bolero, mambo, salsa, merengue, sia nell’impiego specifico della strumentazione, affinato al fianco dell’amico e collaboratore Alex Lázaro, che abbraccia contrabbasso, fiati e ottoni, a fondersi con percussioni – conga, bongos, temple block, timbales – decostruite in sincopi di ritmo al rallentatore e sintetizzatori modulari, mentre la voce di Dalt si fa il Verbo nitido e confidenziale di Petra, mettendoci così in connessione trascendentale con lei.  Dall’eleganza di “No Tiempo” allo spoken di “El Galatzó”, dai caratteristici suoni metallici di “Contenida” alle calde melodie di “Bochinche”, per non dire del gioello splendente che è “Atemporal” (mi riconosco in quella roccia atemporale), il contatto è semplicemente irrinunciabile e mette a sua volta in contatto con una multiculturalità della mente capace di far coesistere passato e futuro, memoria storica ed esigenza di nuove tipologie di narrazione, folklore e sperimentazione, storie individuali e bellezza universale. Una cosa è certa: questo è un disco volante, e vola dritto fra i migliori album del 2022.