Continuare a dipingere con l’aria – I Nastri Ritrovati di Luciano Cilio

Luciano Cilio
Luciano Cilio, immagini di Fabio Donato

Un alieno tra i vicoli

A cura di Maurizio Inchingoli

… a large canvas painted with the air it was made in… (Jim O’Rourke)

Scrivere di Luciano Cilio non è una cosa semplice. Raccontarlo è come mettere a nudo i propri sentimenti. Prima della sua musica, infatti, c’erano l’uomo, il compositore e poi l’ideatore di un modo tutto personale di pensarla, quella musica, che ha pagato caro lo scotto di non essere compreso. Direte voi, è successo a tanti… è vero, ma leggere anche solo poche righe sul suo percorso¹ in una Napoli che a fine anni Settanta stava andando da tutt’altra parte – stilisticamente parlando s’intende, e non è un male… –  fa comprendere quanto fosse difficile, e quanto lo sia tuttora, ottenere la giusta valorizzazione del proprio talento. Luciano Cilio è uno dei segreti meglio nascosti della musica contemporanea, ma anche per lui è arrivato il momento della ri-scoperta, grazie a Girolamo De Simone (anch’egli compositore, oltre che giornalista), senza dimenticare il ruolo di un mezzo più capiente e folle nel suo essere meno addomesticabile di quanto sembri, cioè Internet. A dire il vero, le cose hanno cominciato a girare già qualche anno fa, quando nel 2013 la milanese Die Schachtel ha messo in circolazione una ristampa di Dialoghi Del Presente, il suo unico album, datato 1977, dandogli un’intestazione diversa (Dell’Universo Assente): all’inizio è stata pubblicata solo in formato cd, poi è arrivata anche una riedizione in vinile nel 2016/7.

Cosa sono I Nastri Ritrovati?

Quelle che sembrano solo prove, sketch, con l’aumentare degli ascolti si rivelano vere e proprie parentesi sonore contenenti mondi paralleli; la seconda traccia, ad esempio, è una sorta di rock paranormale dove oboe, basso cavernoso e altri fiati si aggirano per il pentagramma come dei fantasmi; stessa sorte per la più nervosa traccia posta in apertura, oltre dieci minuti di saliscendi post-rock (termine che si usava molti anni prima della sua effettiva esplosione, ribadiamolo per l’ennesima volta) che non t’aspetti, fate conto di ascoltare dei Gastr Del Sol ubriachi che tirano all’infinito le poche, sofferte note scelte per l’occasione. Se le tracce otto e dieci sono blues ultra-bucolici degni di Robbie Basho, la quarta è praticamente una bozza di una delle composizioni che poi finirà in Dialoghi Del Presente, mentre il pezzo finale, “Liebesleid, Versione Per Pianoforte”, è appunto un piccolo e delicato fraseggio di pianoforte dalle tinte drammatiche, quasi fosche e foriere di un pericolo imminente, chissà… Nel frattempo abbiamo pure udito la voce di Cilio in un paio di registrazioni: a un certo punto si lascia andare a una breve considerazione “praticamente cos’è? Un dialogo dove tu cerchi di farti una base armonica, no? Che è monocorde, cioè tipo…
I Nastri Ritrovati sono usciti per merito del solito Girolamo De Simone, che ha fatto sistemare i master originali e li ha fatti riversare su vinile, e da poco è arrivata anche un’opportuna riedizione in cd. Si tratta perciò di un disco fieramente autoprodotto, la prima tiratura è andata esaurita in poco tempo, a conferma della bontà dell’operazione in sé e a conferma del contenuto, che non delude affatto, anzi aggiunge un ulteriore tassello alla conoscenza di un artista che è stato colpevolmente dimenticato per troppi anni. Il tempo, si sa, è galantuomo.

Note

1 – Nato a Napoli nel 1950, Luciano Cilio ha unito gli studi musicali a quelli universitari di architettura e scenografia, collaborando negli anni ’60 e ’70 con numerosi musicisti dell’area della ricerca (tra i quali Alan Sorrenti e Shawn Philips) e con alcuni gruppi teatrali d’avanguardia (Teatroesse), sviluppando sorprendenti intuizioni sul rapporto esistente tra gesto, parole e musica. Virtuoso del sitar e della chitarra, valido esecutore al pianoforte, Luciano Cilio si dichiarava “essenzialmente autodidatta per la composizione”, e infatti il lavoro maggiore lo svolgeva con gli esecutori alla ricerca di un suono lungo, tenuto per “… rientrare nel suono, tenerlo, tenerlo, per lasciarlo andare (L. C., dal programma di “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ’70 (1981).
Testo tratto dal booklet di Dell’Universo Assente, Die Schachtel, 2013. 

La nostra squisita replica dell’eternità – Divagazioni attorno ai Nastri ritrovati di Luciano Cilio

A cura di Nazim Comunale

Luciano Cilio
Luciano Cilio, immagini di Fabio Donato

Napoli è la capitale musicale d’Europa, che vale a dire, del mondo intero (Charles de Brosses, Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740)

Sambuca, Borghetti, Sambuca, Borghetti, un-euro-uneurouneurouneuro, Maradona, neuro, noise sudamericano davanti allo stadio San Paolo, il Vesuvio che incombe e aspetta, Live at Pompei, pummarola psichedelica, il cantante neomelodico di fronte al monastero di Santa Chiara che canta dal balcone stando agli arresti domiciliari e “scende” il cestino per le offerte, il gran teatro amaro, il cinema naturale della strada, dolcezza e ferocia a scopare con la porta aperta, che tanto qua il privato è pubblico e il pubblico è privato, la vita lieve e impossibile, il cristo velato, i cristi murati vivi nelle periferie, il Sud e il Nord, Davide contro Golia, Scampia. Napoli vita, Napoli mina, Napoli vitamina e cartolina. Più la dici, più la evochi e più ti sfugge: non si lascia acchiappare, scompare. Sono di origini campane, ma dal paese di mio padre Napoli è lontana come il Tibet. Napoli Caput Mundi. Napoli gentile e devastata. Napoli ferita e dipinta in un affresco grande quanto un bottone. Napoli fuga dell’anima, Napoli figura retorica e meraviglia, bugia, zucchero allo sguardo, stupore impigliato tra le ciglia. Napoli demonio e gioiello, dove il caos del mercato permanente scolora nel silenzio, in un azzurro a picco sul blu. Cuore, odore, rumore: Napoli metafora e flagello. Ed allora non può essere che stupore (e silenzio) quello con cui accogliamo questi nastri ritrovati, come un segreto da rivelare a bassa voce, lontani dalla fuffa, dalla grancassa. I Gastr Del Sol nacquero a Napoli alla fine degli anni Settanta: ascoltando questi frammenti, queste prove intime, la sensazione è netta. Raga blues à la John Fahey, folk espanso, ombre e fantasmi, riverberi del secolo che fu, radure drone, il suono come un pianeta da esplorare, un senso di invincibile perdita, di approdo sempre mancante. Esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo: così scriveva Giovanni Lindo Ferretti quando ancora era ascoltabile. Ecco, la musica di Cilio ci ricorda la nostra fragilità, il nostro essere incidenti cosmici, fiato di statue, virgole della Storia. Ci fa stare abbracciati con la nostra imperfezione, ci parla da una ferita che ci somiglia.

Perché nella seconda traccia quel giro di basso mi fa venire in mente i primi Tortoise o gli Slint? Che ci azzecca il post-rock con questa città? Non era la patria del mandolino? L’agonia di coriandoli del sogno americano è arrivata fino a Napoli, attraversando l’Oceano su una qualche nave mercantile? Percorrendo a ritroso il viaggio di tanti emigranti del Novecento? Napoli è la nostra America perduta? Cosa abbiamo perso davvero? Cosa perdiamo ogni giorno, dove è diretta la nostra nave, quale terra ci attenderà dopo tutto questo mare? Sono frammenti di un discorso amoroso, indicazioni verso un abisso magnifico ed accogliente, segnali di un’inevitabile ritirata. Domande, che di risposte forse non sappiamo più che farcene. Sono le domande giuste quelle che ci servono per affrontare il mondo. Languori meridionali eppure così sobri, un blues metafisico e privato di qualsiasi epica, asciugato da ogni bava di torcibudella di quarta categoria, una cocciuta, sottile tensione verso la luce, come un Nick Drake così elusivo da rinunciare anche alle parole. Ppe’ dint’ e viche addò nun trase ‘o mare, come cantavano gli Almamegretta nel capolavoro Sanacore (1995). E non si può tradurre, perché ci sono cose che non si possono tradurre, e cose che non si possono dire, ma solo pensare. Parlare di musica è come ballare di architettura, diceva Frank Zappa. Le ripetizioni sornione di Erik Satie, le melodie ariose del primissimo Pino Daniele, l’alea della composizione contemporanea, l’arte della fuga, l’eterno ritorno dell’invisibile, dell’immobile, il fascino del disadorno, il minimalismo come condizione dell’anima: bozzetti di un genio schivo che, inseguendo canoni obliqui, apre mondi con una nuda chitarra (la tredicesima traccia), combinazioni timbriche che si schiudono come fiori notturni (la seconda traccia, dove sembra di vedere gli indimenticati fantasmi convocati nell’incipit del disco bianco dei Labradford), enigmi scelsiani (la settima). Lontane (ma presenti nel sangue, nelle ossa) memorie dell’enorme lascito di Napoli alla storia della musica, dalla scuola sviluppatasi dalla metà del Cinquecento fino al primo Novecento, con autori come Domenico Cimarosa, Alessandro Scarlatti, Giovanni Battista Pergolesi, sino alla classica canzone napoletana, ed un’apertura alare totale verso la sperimentazione, gli azzardi di un’epoca, la nostra, in cui le sinfonie sono finite. Quadri astratti, impressioni, tracce fugaci di un paesaggio, di un passaggio che presumibilmente non fu lieve su questa terra. Canti al vuoto che accerchia e avanza, da dentro, da fuori, tutto intorno. Napoli è una carta sporca cantava Pino Daniele, la vita è corta. Un’anima sottile come quella di Mark Hollis, che non ha retto l’attrito con la gravità, il peso della grazia e tutti questi secoli sulle spalle. Makes it harder the more you love. Io t’ voglio bene assaje e tu nun pienze a me.

Vedi Napoli e poi.

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. 

(Eugenio Montale, da Ossi di Seppia)