KY, Power Is The Pharmacy

Quando ascolto i dischi così, rimango sempre con il dubbio di non averli capiti fino in fondo. Come quando un discorso iniziato con uno sconosciuto si fa troppo privato e comincio a chiedermi se quello che mi stanno raccontando sia qualcosa che posso capire davvero, nonostante le mie poche informazioni pregresse, allo stesso modo questo disco tanto personale e toccante – un vero e proprio prendere il proprio corpo, le proprie sensazioni, e farle deflagrare in un intrico di elettronica pulsante e rarefazioni di sax – mi lascia come se avessi dato una spiata, non troppo voluta, al cuore di qualcuno, divaricandone le costole come per un’autopsia.

Fatta questa doverosa precisazione, questo album cerebrale, intimo, di Ky Brooks (Lungbutter, Femmaggots, Nag) è qualcosa che colpisce. Parla di lutti molto vicini (“All The Sad And Loving People”) e fa del suo titolo (una citazione da “A Critique Of Black Reason” di Achille Mbembe) una dichiarazione poetica importante: questo disco è potenza, senza dubbio, già dal suo singolo “The Dancer”, e altrettanto senza dubbio deve essere stato una medicina per chi l’ha composto e suonato.

Lo sforzo riuscito è stato quello di creare – attraverso le intuizioni musicali e le improvvisazioni dei numerosi collaboratori, poi rimaneggiate da Ky – uno spazio sicuro in cui la sua voce potesse esprimere frustrazioni e paure su un tappeto multiforme e evocativo, dopo una prima fase di scrittura in cui questa era supportata solo dai loop di cassetta di Mat Ball (Big|Brave). Ogni intervento, in questo senso, è scelto, voluto e mescolato al resto senza mai perdere l’intenzione finale, e il risultato – pur tanto diverso nelle sue varie tracce – mantiene una coesione di fondo grazie al disegno preciso dell’artista. Particolarmente centrata, a proposito, è la collaborazione col sassofonista James Goddard sia nella traccia finale, “The Replacement”, dove il sax è l’unico fascio di luce al quale si aggrappa la voce, affondata in un oscuro mare di frequenze basse, sia nella lunga narrazione di “Revolving Door”, in cui le note lunghe, lunghissime, che entrano e escono dall’ambiente sonoro, donano spazialità all’onirismo di tutta la composizione.