INTERPOL, The Other Side Of Make-Believe

The Other Side Of Make-Believe, vale a dire gli Interpol nell’anno 2022. Qualcosa di diverso, nella cornice della loro storia, i tre ce la fanno ascoltare e tanto basta per dichiarare riuscita l’operazione di questo settimo album di studio, a quattro anni di distanza dal precedente Marauder – trainato da singoli azzeccati come “If You Really Love Nothing” e “Rover” – e a tre dal ruspante ep A Fine Mess. Nel mezzo, la rinnovata collaborazione con David Lynch per una serie limitata di NFT.

The Other Side Of Make-Believe, per cominciare, lucida e ammansisce il mood del songwriting, in media quasi crepuscolare e caldo come quello perseguito con il più recente progetto parallelo di Paul Banks, Muzz. Proprio nel primo estratto “Toni”, accompagnato dalla prima parte del cortometraggio coreografato per la regia di Van Alpert, danzando sui tasti con un leggiadro arrangiamento di gran classe, Banks canta al microfono con piglio programmatico: Still in shape, my methods refined. I tasti di pianoforte sono al centro anche del secondo e malinconico estratto “Something Changed”, dove l’introspezione arriva al traguardo prima dell’impulso alla corsa tipico dell’era digitale. In “Fables”, con le sei corde a farsi scintillanti, Banks avvisa fra le righe con modulazione vocale a un passo dall’R&B: It’ s time we made something stable / We’re in the sights of perfect danger. Gli Interpol hanno acceso la miccia del cosiddetto revival post-punk con Turn On The Bright Lights – uno dei capolavori degli anni Zero, checché se ne pensi dell’eventuale retromania – e adesso che il revival post-punk, esattamente un ventennio dopo, va avanti per la maggiore come se niente fosse, Turn On The Bright Lights ridurrebbe sempre in cenere ogni pur apprezzabile Skinty Fia del caso. Nel mentre, la compagine newyorkese, riconoscibile dal primo nanosecondo grazie al magnetismo dolente di Banks, all’affilatura delle chitarre e alla secca precisione della batteria, è probabilmente diventata per l’appunto un’entità stabile, una longeva, elegante ed empatica rock band che, per quanto scura nel DNA, ha imparato sul serio ad accendere le luci.

Anziché in sala prove come d’abitudine, The Other Side Of Make-Believe è nato a distanza nel corso del 2020, a causa della pandemia, in un gorgo di mail e scambi individuali tra Banks da Edimburgo, Daniel Kessler dalla Spagna e Samuel Fogarino da Athens, Georgia. Successivamente, è stato portato a termine nel 2021, tutti assieme in una casa in affitto sui monti Catskill, nello stato di New York: ecco forse perché, all’immancabile e fosco humus contemporaneo, i musicisti hanno abbinato una certa tensione verso scenari bucolici. Atmosfere, queste, che sulla carta non avremmo immaginato associabili agli importanti nomi chiamati a partecipare alla conclusiva fase di produzione, svoltasi in quel di Londra: Flood, per la prima volta in assoluto, e Alan Moulder, di ritorno dai mix per l’omonimo Interpol e per El Pintor, entrambi specialisti della cupezza con Depeche Mode, Nine Inch Nails, eccetera.

Ci sono, qui, canzoni all’altezza delle varie “Stella Was A Diver And She Was Always Down”, “Slow Hands” e così via? Inutile specificare o ribadire che determinate vette sono oggi inarrivabili, ma il disco non difetta in sangue e cuore: “Mr Credit” all’occorrenza crepita e brucia a dovere, “Renegade Hearts” miscela elettricità punk ed efficaci soluzioni drammatiche, “Passenger” macina progressioni in crescendo post-rock, nascondendo tra i suoi versi il medesimo titolo dell’album, “Gran Hotel” dà la spinta a melodie inquiete e “Big Shot City” asseconda ritmiche marziali. Nell’insieme, comunque, lo schiarirsi delle timbriche sonore corrisponde, se non a un ottimismo che sarebbe francamente eccessivo e insopportabile, perlomeno a sentimenti più positivi rispetto al passato. Banks stesso ha spiegato che avrebbe potuto concentrarsi su quanto attorno a noi tutto sia realmente fottuto, ma che ha sentito necessario trasmettere fiducia ed emozioni credibili in rapporto all’identità del gruppo, con la concisa traccia finale, “Go Easy (Palermo)”, a mo’ di andate in pace. Se sono gli Interpol a portarci un po’ di speranza, specie in uno dei periodi a memoria più bui, beh, allora a noi sta più che bene.