Forlì Open Music, 13-14/10/2018

Forlì, Chiesa di S. Giacomo. Foto di Pietro Bandini.

Terza edizione per il Forlì Open Music Festival, e speriamo davvero che questa esperienza possa continuare (nei prossimi mesi nel capoluogo romagnolo ci saranno le amministrative) perché si tratta di qualcosa di necessario, semplicemente. In due giorni, infatti, il folto pubblico accorso ha avuto modo di fare una ricognizione a 360° intorno ai suoni del presente, inteso come una pluralità di approcci ricca di fertili contraddizioni e contenente mondi apparentemente lontani, ma capacissimi di dialogare tra di loro (certa classica contemporanea eseguita tutta a spartito e alcune propaggini del free jazz non sono affatto lontane): quello che conta innanzitutto è porsi in ascolto, restare curiosi, scovare assonanze e non temere il potere magnetico delle dissonanze.

Enrico Pace ed Igor Roma
Enrico Pace ed Igor Roma

Con sette concerti ad ingresso gratuito*, con esclusive, date uniche in Italia e una prima mondiale (un progetto commissionato da Area Sismica di cui diremo dopo), la rassegna ha fatto le cose veramente in grande, portando avanti un’idea di musica totale da cui tanti, soprattutto in Italia, chiusi nei loro angusti recinti, avrebbero oggi da imparare. Si comincia sabato con la classica, i due pianoforti di Enrico Pace ed Igor Roma, l’alba del Novecento attraversata da ombre funeste (i capricci di Debussy sono stati scritti nel 1915), un clima di raccoglimento dolente eppure asciutto, un guardare fuori dalla finestra sbrecciata da una pallottola il mondo che nonostante tutto ancora accade: in certi passaggi la musica del francese quasi prevede l’ambient che arriverà parecchio tempo dopo, ma c’è qui tanto movimento in più, uno sviluppo naturale e prodigioso che rapisce; così come cattura immediatamente l’attenzione la gloria dei pianeti messa in musica da Gustav Holst con The Planets, di cui anche la 19’40’’ di Enrico Gabrielli ha da poco pubblicato una versione: il programma di sala parla di un nuovo big bang psicologico ed esistenziale, e non si potrebbe trovare un’espressione più adatta, per dire di una musica eroica ma non enfatica, intima ed avventurosa, sorprendente, che ha più di un secolo sulle spalle ma sembra scritta domani.

Irvine Arditti
Irvine Arditti

Poi è il turno di Irvine Arditti, e si resta quasi intimoriti dalla performance: un controllo impressionante del violino che fa sembrare facili partiture che invece facili non sono affatto, “Einspilung I” di Emmanuel Nunes del 1979 e i sei capricci di Salvatore Sciarrino del 1976, esplorazioni delle possibilità e delle impossibilità dello strumento, una lunga apnea celeste in cui perdersi e lasciare poi finalmente perdere anche il vano desiderio di capire: questa è musica che va sentita, che cancella le vacue pretese del nostro linguaggio di dire tutto e chiede solo, come diceva Octavio Paz, di chiudere gli occhi e aprirli verso dentro, per guardare lo stesso luogo intimo e cosmico visitato prima da Enrico Pace e Igor Roma. Una mezz’ora abbacinante.

DKV
DKV

Erano alte le attese per DKV, il trio con Hamid Drake alla batteria (lo abbiamo intervistato l’anno scorso), Kent Kessler al contrabbasso e Ken Vandermark al sax tenore e al clarinetto, ma alla fine del concerto sono un po’ perplesso. Un Sonny Rollins in una selva irta di rovi, oppure una rivisitazione passionale ma non così originale di certa fire music. Kessler fatica a farsi largo ed è un peccato, pochi spazi vengono lasciati liberi, un impatto brotzmanniano all’inizio, con un fraseggio pieno di soul ma non sempre coinvolgente. Gli applausi sono tiepidi a certificare forse che la platea avverte che qualcosa non gira come dovrebbe. Si procede per accumulazione con cellule melodiche semplici e cantabili, e l’inizio non convince. Nel secondo brano, con clarinetto, percussioni e il contrabbasso suonato con l’archetto, dinamiche a virare verso il piano pianissimo, ci siamo: ipnosi reichiane a un passo dal silenzio, Kessler che può discorrere libero, Drake magistrale nel colorare con discrezione, Vandermark circospetto a evocare fantasmi con il clarinetto. Se il clima del brano iniziale era di baccanale un po’ troppo fracassone, qua siamo tra ascesi zen e deserto, anche se lo sviluppo non è dei più avvincenti. Indubbia la grande capacità dei musicisti, ma la sensazione è di qualcosa che non parte mai, non esplode, come fosse suo malgrado trattenuto. Quando Kessler diventa speleologo e sonda gli abissi ctoni del suono, Drake e Vandermark rispondono riportando alla luce una esplorazione che merita sorte migliore: il batterista è funambolico, questo non si discute, ma forse troppo verboso. Il bis si apre su un pianissimo assorto e diradato, l’impressione è che Vandermark e Kessler sarebbero anche pronti per chiudere a un certo punto, ma con l’improvvisazione questi rischi esistono… Drake continua a suonare, imbastisce un groove, allora Vandermark imbraccia nuovamente il tenore ma la lingua del trio non suona né lirica né furiosa in un finale troppo lungo, che ci conferma la sensazione di un concerto non particolarmente ispirato.

Kyriakides + Moor
Kyriakides + Moor

La seconda giornata comincia alle 3 di pomeriggio con l’open day dell’Istituto musicale “A. Masini” e del Liceo musicale statale di Forlì, a testimoniare la voglia e l’idea di coinvolgere sempre anche i giovanissimi , poi alle cinque e mezza è il turno del duo di Andy Moor degli Ex alla chitarra con Yannis Kyriakides alle elettroniche. Ognuno dei sette pezzi viene introdotto da una voce che racconta in italiano sette sogni fatti e poi evidentemente prontamente trascritti dallo stesso Moor. Ci sono uomini che si trasformano in lame rotanti, piatti metallici svolazzanti, copioni persi, e una frase iniziale che riassume benissimo la poetica di questo progetto: “era un grande caos e per questo è stato un sollievo quando ho cominciato ad improvvisare e sembrava funzionare”. Si va da un raga free-punk a frangenti di minimalismo corrotto dal glitch, come un Terry Riley preso a schiaffi dagli Autechre o un cd dei Bad Brains che salta, un gamelan hardcore. Nel secondo brano invece siamo in uno scenario da blues dei sottomondi, creative e parlanti le elettroniche di Kyriakides; dopo un inizio straordinario il clima si fa più interlocutorio e meno vivo, ma – proprio quando lo stiamo scrivendo – eruzioni, lapilli elettrici, lava elettronica, un Efesto cocciuto, dannatissimo e ancora più deforme di quello mitologico forgia materiale incandescente dalle forme sempre irregolari e cangianti. Ruggini ambient, segnali morse, una chitarra vagabonda che sembra quella rabdomante di Starfuckers, un accenno di quasi trip-hop sommerso dalle interferenze dissonanti della sei corde, tenacemente art-punk, volutamente non virtuosistica. Questa è musica che gioca con i fantasmi, se volessimo definirla con una sola espressione probabilmente diremmo ghost-rock, un Hendrix autistico e del tutto privo di negritudine o un Bill Orcutt meno selvatico che cerca di riparare un computer sfasciato, una sveglia che invece di riportarti alla (infernale?) quotidianità è il lasciapassare per un altrove di sogni e sintomi infernali, e quindi bellissimi. In altri momenti i live electronics ci fanno pensare ai grandi Furt, o ad un hillbilly dislessico stuprato da uno scienziato pazzo; poi abbiamo esercizi di accordatura tramutati in drone dubstep, detriti, memoria, Stockhausen ad annuire sornione sullo sfondo, mentre la voce registrata ci invita “verso una nuova destinazione”. Un grande concerto.

The Necks
The Necks

La platea è pienissima per i Necks, che tornano in Italia dopo lo splendido concerto di Padova di qualche mese fa. L’incipit suona neoclassico, come un Debussy riflesso in uno specchio rotto, poi si immaginano: una stanza con le finestre che sbattono in un giorno di fine estate. Le prime piogge. Il contrabbasso che entra come un refolo di vento. Un clima rarefatto quasi da Ecm, e le solite metamorfosi apparentemente statiche, i tempi geologici nello sviluppo, un discorso che si dipana con naturalezza primitiva, ancestrale quasi. Lloyd Swanton al contrabbasso è più protagonista oggi, quanto tempo è passato? Non lo sappiamo (quanto tempo ho sprecato, mi dice mio padre oggi al telefono nel giorno del suo ottantesimo compleanno). La cassa sembra un basso, i suoni cominciano a trasfigurarsi, quasi una versione da camera dei San Agustin, se qualcuno se li ricorda (straordinari, su Table Of Elements ), oppure (bestemmia?) una delle jam più psichiche dei Grateful Dead trasportata in un austero conservatorio. Poi Swanton posa l’archetto, il mood vira, ancora una volta “il miracolo del ripetersi è il non ripetersi del ripetersi” (Nazim Hikmet, e questo verso mi pare semplicemente perfetto per i tre australiani), torna in mente Our Exquisite Replica Of Eternity dei Gastr Del Sol da Upgrade & Afterlife. Dopo la magia iniziale però qualcosa accade, e del resto è da mettere in conto quando ogni volta si crea musica ex novo; il flusso di Abrahams al pianoforte rapisce meno del solito, Buck non è così ipnotico: qualche collega vicino parla addirittura di roba fasulla, di scatole vuote. Io non arrivo ad essere così drastico, ma questa volta i Necks non hanno strabiliato. Come fa, invece, il concerto finale, frutto di una commissione di Area Sismica, che vede l’incontro tra Hamid Drake, Ken Vandermark, Gianni Trovalusci (flautista di contemporanea che collabora tra i tanti anche con Roscoe Mitchell ) e Luigi Ceccarelli (compositore pesarese dedito prevalentemente all’elettroacustica) alle elettroniche, per un progetto, “Open Border”, che speriamo venga catturato su cd ed abbia un seguito dal vivo.

Open Border
Open Border

Musica pagana e colta a braccetto nell’iperuranio, silenzi densi e tesi, appostamenti, fughe, agguati, radure, fantasie arcaiche e proibite, lux aeterna, tamburi processati in diretta da Ceccarelli, che si rivela il vero wizard del quartetto, cruciale il suo ruolo nel rifrangere in pozzi senza fondo e rendere astratta o iperreale la pioggia acustica degli altri tre. Il clima a volte ricorda un Threadgill più ispido, poi ci sono esplosioni come in Interstellar Regions di Coltrane, con i live electronics ad aggiungere quarti di stranezza e di imprendibilità; Trovalusci ai tubi sonori (sono i tubi di una tenda, mi dirà poi a cena!) è uno sciamano in accademia, il sax tenore si tramuta in un violoncello, è il suono di una perenne metamorfosi, una crisalide free che spicca il volo come farfalla contemporanea. La sensazione netta è che questo sia un incontro musicale importante, il seme di un frutto proibito e saporito, che nessun Dio potrà impedirci di gustare. Giungono voci e non si capisce da dove, un brevissimo lampo quasi drum’n’bass, la musica dei pigmei suonata da Stockhausen, discorsi antichi e nuovissimi. Il controllo delle dinamiche e dei timbri dei quattro è straordinario, Drake fa un passo indietro stavolta e va davvero bene così. Questa musica crea (e ha bisogno di) spazio: una lunga teoria di punti di fuga, un freddo che sa di galassia, di vento cosmico, di buchi neri, epifanie delicate e potentissime, una musica piena di domande e che non ha paura di dare risposte, vaga eppure salda nella sua deriva, filosofica e orgiastica, inarrestabile, fluida, naturale come un respiro. Il sospetto forte è che le divinità (sono convintamente ateo, ma se non lo fossi sarei di certo politeista) che un tempo venivano evocate nell’ex chiesa di San Giacomo si siano risvegliate, richiamate stasera da quattro esseri umani capaci di toccare e farci toccare il cielo (e quello che sta oltre) con un dito. L’espressione di beatitudine di Ken Vandermark mentre suona, verso la fine, è la stessa che ho io in faccia. Musica che sembra la trascrizione in partitura di un libro di Nietzsche, spietata e maledettamente umana. Anche il bis riserva brividi, con un inedito Drake alla voce nelle vesti di griot, un mood afrocosmico, sirene mitologiche e urbane, sete, caos, deserti, estasi, poesia purissima, e allora:

Nello spazio
sto
dentro di me
lo spazio
fuori di me
lo spazio
in nessun
luogo
sto
fuori di me
nello spazio
fuori di sé
in nessun
luogo
sto
nello spazio
eccetera

(Octavio Paz )

Grazie ad Area Sismica (ventinovesima stagione quest’anno, lunga vita!) per averci fatto passare due giorni di bellissime immersioni nel suono e per averci fatto intravedere ancora una volta il futuro della musica.

* un plauso convinto va all’attuale giunta, noi non siamo soliti spellarci le mani per i politici, ma fa davvero piacere vedere che ci siano amministratori sensibili e capaci di cogliere l’importanza di manifestazioni del genere.