Talking Drum: intervista con Hamid Drake

Hamid Drake (foto di Emiliano Cocco)

Hamid Drake ha suonato quattro volte all’edizione di quest’anno del Festival Ai confini Tra Sardegna E Jazz di Sant’Anna Arresi: in duo con Aly Keità due volte, in quartetto con Vandermark, Gustafsson e Luc Ex e in trio con Marc Abrams e Pietro Tonolo. Le foto di Hamid a corredo dell’intervista sono state scattate proprio a questo festival da Emiliano Cocco, che ringraziamo ancora una volta.

Averlo come dirimpettaio di stanza in albergo era un’occasione imperdibile per farci due chiacchiere, tanto più che stiamo parlando di una persona di estrema affabilità e grande umanità. Famoso soprattutto per la sua storica partnership con William Parker (anche se il suo curriculum vitae è lunghissimo), Hamid è soprattutto uno con cui è piacevole comunicare, e che ogni sera dopo i concerti si ferma al pub a passare del tempo con gli appassionati e con la gente del luogo, con estrema naturalezza. 

Charlie Parker diceva che se sentissimo tutti i suoni del mondo insieme impazziremmo e Sant’Agostino diceva “Credi alle tue orecchie, non ai tuoi occhi”. Che ne pensi? 

Hamid Drake: Io direi “credi al tuo cuore”. Perché così non stai venendo a patti né con le orecchie né con gli occhi, ma alla fine con la tua personale sensibilità. Nessuno ti direbbe di credere alle tue viscere (ride, ndr). Penso sia impossibile sentire tutti i suoni del mondo a meno che non ci si trovi in uno stato di illuminazione, l’unico modo per sentire tutti i suoni del mondo è non sentirne nessuno. E l’unico modo per vedere tutto è non vedere niente, perché così la visione non è inquinata dai pregiudizi, dato che noi giudichiamo sempre tutto, anche se non vogliamo. Possiamo fare un passo indietro e cercare di vedere e sentire: questo può succedere da un posto rilassato, ed è lo stesso con la musica, perché quando suono con altri e li ascolto, non posso giudicarli. Se lo faccio, finisce che non li ascolto. Nella musica può essere difficile non stare in un atteggiamento giudicante su cosa stanno facendo gli altri con te, alla fine loro in effetti stanno suonando tutti i suoni del mondo e i suoni del mondo sono il tuo suono. Non c’è risposta alla tua domanda, ma se ci fosse, direi “credi fortemente ai tuoi sentimenti profondi”. 

Mi dici qualcosa dei tuoi primi ricordi musicali?

Mia madre che suona un disco di Mahalia Jackson, senz’altro. Suonare i bonghi in chiesa anche, cosa che ho fatto per lungo tempo. 

Sei coinvolto, se non altro come ascoltatore, nel rock?

Sono amico e ho suonato con tutti i musicisti dei Living Colour, per esempio. Sono cresciuto suonando r&b, rock & roll e soul music. Non sono arrivato a ciò che noi etichettiamo come jazz se non molto, molto più tardi. Quando studiavo batteria, agli inizi il mio insegnante mi chiedeva di suonare questo ritmo (si sposta ed inizia a suonare con le mani sul tavolo un bum, tcha-tcha, bum-tcha, ndr). Oppure si trattava di imparare quello che è era una sorta di decollo, James Brown lo chiamava sweat, un ritmo tipico del funk. Quando suonavamo rock & roll poi improvvisavamo anche, mentre in chiesa suonavamo gospel. Sono ancora un grande fan del rock, Hendrix è stata una delle mie più grandi ispirazioni. Ho ascoltato molto i Grand Funk Railroad, i Led Zeppelin (avevano degli ottimi batteristi), mi piacciono le formazioni a tre come gli ZZ Top, un grande esempio di trio che funziona perfettamente. Poi, crescendo, le cose della Motown, King Curtis. Sempre nella mia adolescenza sono venuto a contatto con la musica di John Coltrane. Mio padre era una jazz person, ma il rock & roll e il soul erano ciò che ascoltavo alla radio e ciò che i miei amici suonavano e ciò che mi eccitava. È come il reggae, sembra facile da suonare (Drake ha pubblicato un disco reggae sui generis per ArtRogue, si intitola proprio Reggaeology, ndr), ma non lo è: è difficile catturare e mantenere il feeling. Devi suonare con un certo numero di restrizioni. La musica improvvisata da questo punto di vista è molto interessante perché alcuni musicisti, non tutti, suonano sempre, pensano che si possa sempre fare qualcosa di nuovo, ma io non credo: siamo creature fatte di pattern e abitudini. Possiamo ridefinire continuamente ciò che facciamo, questo sì. Non ripetere se stessi è impossibile (ride, ndr). Non c’è nulla di sbagliato, in questo, è una cosa naturale come camminare e respirare. Ci sono pattern ovunque, nella natura, ad esempio. Ci sono molti modi di suonare il rock, il soul o quello che chiamiamo jazz. Tornando ai Living Colour: potremmo metterli in altre categorie diverse dal rock & roll, hanno fatto musica davvero eclettica. Dipende tutto da dove metti l’accento (riprende a suonare con le mani, stavolta sulle ginocchia, poi improvvisa una linea di basso con la voce, e ride, per poi dilungarsi in una digressione sulla musica indiana, con tanto di dimostrazione finale, ndr). Molti dicono (qualcuno potrebbe uccidermi per ciò che sto per dire) che la musica indiana è al 90% improvvisazione, ma non è vero; è anzi una delle forme più strutturate e solide di musica, dritta (straight) come il funk. 

Ti sei divertito ieri (l’intervista avviene la mattina successiva al concerto del Summit Quartet: Drake, Vandermark, Luc Ex, Mats Gustafsson, ndr)?

Sì, mi sono divertito. Qualche volta il lavoro del percussionista in situazioni come queste, anche se non c’è un leader, assomiglia un poco a quello della guida, a quello del faro. Puoi aprire delle porte, puoi stimolare gli altri a fare cose, a mostrare altri loro lati. Noi dobbiamo servire la musica, siamo la musica e lei scorre attraverso di noi, ma noi dobbiamo servirla. La cosa più persistente che c’è è il cambiamento, nulla è permanente, dobbiamo abbandonare i nostri minuscoli ego e smetterla di voler dimostrare che sono la cosa più grande, perché così non è. La musica è come tutto il resto, come la politica: Trump si sente piccolo, è insicuro, per questo si comporta in questo modo, per far credere agli altri di essere potente, ma in realtà non lo è, perché se lo fosse non dovrebbe provarlo a nessuno: i veri leader non devono provare nulla a nessuno.

Hamid Drake (foto di Emiliano Cocco)

Ti piace di più stare in studio a registrare o suonare dal vivo?

Mi piacciono entrambe le dimensioni, ma per ragioni differenti. Ho una lunga esperienza in entrambi i campi. A volte i musicisti si incontrano e fanno un concerto e c’è un senso di immediatezza che può essere molto potente, può risvegliare il tuo sistema nervoso perché non sei sicuro di quello che sta per succedere. Senti la tua umanità, la tua insicurezza, è una situazione ad alto voltaggio, perché entri in una situazione ignota. Conosci Alan Watts? Uno scrittore inglese che si spostò negli States e dagli anni Cinquanta parla di buddismo, filosofia cinese, zen; ha scritto un libro fantastico intitolato “ The wisdom of insecurity”: una delle cose migliori del suonare dal vivo è che sei nello spazio dell’ignoto. Quasi sempre noi siamo in questo spazio, crediamo di essere nel mondo del noto, ma in realtà non è così (da lì si parte, letteralmente, per una digressione sulla struttura dell’universo, ndr). Mi piace anche lo studio, lì hai l’opportunità di lavorare su ogni pezzo, mi piacciono tutti gli aspetti della registrazione, ci si muove a un passo più lento, ma anche lì ci sono differenti approcci: ho suonato con musicisti che registrano un’unica take e poi non vogliono nemmeno riascoltarla, altri che fanno diverse take della stessa cosa, con Bill Laswell, nei Material e negli Extasis, invece si registrava nel modo più classico, diciamo (basso e batteria insieme, gli altri strumenti in sovraincisione). Anche con Lee Scratch Perry si registravano basso, batteria e tastiera prima, poi il resto. Prima le fondamenta, il ritmo, dopo gli altri musicisti, alla fine la voce. Mi piace anche così, puoi vedere la musica crescere, il suo lato architettonico, per così dire; anche la classica formula  Blue Note, tutti insieme e si registra, alla Rudy Van Gelder, per così dire,  mi piace moltissimo. 

Quanti concerti fai in un anno, all’incirca?

Non meno di 250, devi contare una ventina di concerti al mese come media, tra Europa e Stati Uniti.
Suono ancora molto con William Parker, Raining On The Moon ora è un sestetto, non un quartetto, c’è Eri Yamamoto al pianoforte.

Prossimi progetti?

A Chicago registrerò delle cose per percussioni in solo, poi ho appena ricevuto una mail dal bassista Shanir Blumenkranz che mi chiede se voglio aggiungere un pezzo a una compilation di presentazione della sua nuova etichetta. Poi, appena partito da qua, dal vivo suonerò con Archie Shepp per i suoi ottant’anni.

Hai tempo per ascoltare la musica altrui, sei ancora un ascoltatore?

Assolutamente, mi incuriosisce la musica di ognuno, bisogna rimanere ascoltatori, è molto importante, e conservare un approccio da principiante. Nessuno ha ascoltato tutto, c’è sempre spazio per la novità: la mente da principiante è una mente aperta, vasta. Cerco di fare il mio meglio per rimanere aperto e non incrostarmi, perché non c’è nessuno da nessuna parte capace di sapere tutto. Non sappiamo nemmeno tutto di noi stessi, come possiamo sapere tutto dell’altro?