Bonnet & O’Malley: orme nella cenere

Stephen O'Malley & François J. Bonnet
Stephen O’Malley & François J. Bonnet

Pāhoehoe – letteralmente “pietre su cui si può camminare” – è un termine hawaiano impiegato in geologia per descrivere uno specifico tipo di lava. A differenza di quella definita “AA”, caratterizzata da una superficie ruvida, Pāhoehoe descrive una lava la cui superficie – che subisce la spinta dell’accumularsi di strati di magma – si solidifica in una patina ondulata di vetro vulcanico, la cui forma rimanda a una corda. In questo primo album realizzato assieme da François J. Bonnet e Stephen O’Malley, “Pāhoehoe” è il nome della terza traccia e segna il culmine di un movimento sonoro a cui alludevano, con le loro atmosfere ansiogene, i due brani precedenti. L’intero lavoro si compone, non a caso, di un insieme di rimandi espliciti alla natura dei vulcani (“Tephras”, “Des Pas Dans Les Cendres”, “Erosion Always Wins”). Da questo punto di vista, Cylene nasce dall’incrocio di due differenti linee di ricerca musicali e teoriche che stavano compiendo, già da tempo, tragitti simili: così come Stephen O’Malley si era già servito di questi riferimenti, basti pensare all’ultimo disco dei Sunn O))), intitolato Pyroclasts, allo stesso modo Bonnet, con il recente Le Lisse Et Le Strié, si era dedicato ai concetti di liscio e striato utilizzati in “Mille Piani” da Deleuze e Guattari. Come viene riportato dalla stessa descrizione dell’album sulla pagina dell’artista, se il “liscio” è legato al “nomos” come spazio aperto di distribuzione organica, lo “striato”, al contrario, è associato al “logos” come spazio chiuso definito da una griglia […]. Il concetto di “striato” è reso udibile solo attraverso il paesaggio sonoro che abita, in modo simile alle strisce mimetiche sulla pelliccia degli animali selvatici, le quali esistono come tali nelle foreste o nell’erba alta, ma scompaiono divenendo potenzialmente inutili all’interno di una landa deserta. Addentrarsi musicalmente in un paesaggio vulcanico costituisce in questo senso la prova migliore per poter riprendere e sviluppare tali concetti. Un dettaglio importante che fa luce sulla struttura di questa collaborazione è dato, inoltre, dall’ordine delle tracce: il ricorso al colore nero – “Première Noire”, “Deuxième Noire” e “Dernières Teintes noires” – può essere infatti visto come uno stratagemma per suddividere l’insieme in tre sezioni musicali e concettuali. In modo simile a quanto accade per il cinema, dove l’oscurità, la schermata nera, opera da sfondo per l’apparire dell’immagine, l’uso del colore nero qui sembra coincidere con degli spostamenti tematici. In questo senso, “Première Noire” non funziona solo da incipit, ma confina le due tracce successive – “Erosion Always Wins” e “Pāhoehoe” – all’interno di uno scenario nel quale la dinamica geologica dell’eruzione assume una forma sonora. Differentemente, la lenta ma progressiva solidificazione del materiale piroclastico diviene elemento acustico per la seconda sezione, composta da “Deuxième Noire” e “Tephras”. Tephras (in italiano tefra) è un altro termine geologico con cui descrivere i diversi prodotti di un’eruzione vulcanica, al di là della loro grandezza o composizione. Il panorama desolante della quinta traccia incarna la diversa fisicità di questi elementi attraverso un continuo apparire e scomparire di suoni dalle durate diseguali, il cui unico legame è dato dalla costante eco che accompagna ogni nota. Durante questa seconda parte emerge con molta evidenza come Bonnet sappia trasformare la forza espansiva delle chitarre di Stephen O’Malley, spesso volta a saturare l’orecchio dell’ascoltatore, in una sostanza plastica con cui poter sperimentare. La conclusione di “Tephras” coincide con la terza e ultima sezione, costituita da “Dernières Teintes Noires” e “Des Pas Dans Les Cendres”. “Dernières Teintes Noires” non funge solo da introduzione alla parte finale dell’album, ma riporta l’ascoltatore ad alcune «tonalità» sonore presentate in precedenza. Ciò a cui queste ultime sfocature di nero lasciano spazio, dileguandosi nel riverbero, è un territorio completamente stravolto rispetto a quello che l’ascoltatore aveva incontrato in apertura. Se la prima parte del disco può essere considerata un’ode sonora agli aspetti violenti e distruttivi dei vulcani, l’ultima traccia è una rappresentazione di ciò rimane a processo compiuto, una landa di detriti e ceneri – “dei passi nelle ceneri”, come suggerisce lo stesso titolo – avvolta da un’atmosfera meditativa, priva dell’angoscia iniziale. Il cambio di tonalità, che avviene a metà di “Des Pas Dans Les Cendres”, non nasconde, infatti, una leggera, ma pur sempre presente, speranza.

L’intero spettro emotivo che Cylene evoca trova corrispondenza visiva nella copertina. Una tazza da tè in ceramica, realizzata dall’ultimo erede della tradizione artistica giapponese raku Kichizaemon XV, occupa in modo solitario il centro, proiettando la sua ombra verso il lato sinistro della superficie su cui è posata. Degli strani segni che ricordano delle crepe, o delle incisioni, marchiano la tazza, turbando il senso di integrità che l’oggetto evoca. Nella sua staticità questo lavoro di Shiro Takatani –  artista giapponese e cofondatore del collettivo Dumb Type, di cui fa parte anche Ryoji Ikeda ­– presenta un carattere inequivocabilmente perturbante. La perfetta composizione della fotografia sembra nascondere un lato inquietante, come se si trattasse di una tranquillità apparente, un momento effimero che segue o precede un più vasto moto caotico. La natura inquieta del suono di quest’album rispecchia alla perfezione questa ambiguità: presi da soli, questi sette episodi non lasciano indizi sulla loro origine e sulla loro destinazione, suggerendo un percorso incerto. Intesi, tuttavia, come tasselli dell’entità Cylene, rivelano un profilo opposto: la capacità musicale di saper indirizzare ogni singolo suono in direzione di un più ampio movimento acustico crea a fine ascolto una sensazione di tregua temporanea, dove l’insicurezza sul futuro è superata dalla convinzione di essersi lasciati il peggio alle spalle.