Edda: il disagio come stato di grazia

Stefano “Edda” Rampoldi, classe 1963, si mette a nudo e si schernisce – spesso fa entrambe le cose nello stesso preciso istante, innescando un cortocircuito elettrico di malessere e ardimentosa allegria. Almeno io ci metto il disagio, canta in “Signorina Buonasera”. Da Milano alla provincia di Arezzo, per la precisione a Bibbiena. Dai Ritmo Tribale, prestando contributo all’invenzione del rock in italiano, alla devastazione dell’eroina, sino alla rivelazione di una carriera in proprio che è appena giunta alla tappa del sesto, bellissimo album di studio. L’album in questione si intitola Illusion, ma per la prima volta Edda appare in copertina, vero, lì davanti a noi. Come appare in carne, ossa e spirito durante la nostra video-chiacchierata. Sono contento, il disco mi sembra bello e dimostra un passo avanti rispetto al musicista e al cantante che ero, a partire dai Ritmo Tribale ma anche in confronto agli altri miei lavori da solista. Adesso che lo devo anche cantare, tutti i giorni, pensa se il disco non mi piacesse che rottura di coglioni allucinante sarebbe… Ci sono alcuni brani che mi piace molto cantare.

Ecco, la tua voce è sempre stata straordinaria, ma qui in Illusion si libera e si libra in volo, verso l’alto. Con l’istinto di sempre, immagino, eppure con una leggerezza nuova, indefinibile…

Stefano “Edda” Rampoldi: La voce è pazzesca su questo disco. Scusami se lo dico. Mi trovavo in uno sato d’animo particolare. Stavo attraversando la seconda parte della pandemia, quando ci avevano lasciato andare ma eravamo costretti a uscire con le auto-certificazioni. Guardate, sto uscendo, sto andando a prenderlo in culo… Ci hanno fatto soffrire tantissimo. Eravamo ancora tutti belli fuori di testa, quindi la realizzazione di Illusion è stata subito una corsa in salita. Forse, mentre cantavo, ero veramente in trance. Ero sotto shock per tante questioni, esterne al disco, interne al disco. Anche perché registrare non è una scampagnata, bensì un lavoro da portare a termine al meglio. Devo ringraziare anche i tecnici del suono, Vladimir Jagodic e Lorenzo “moka” Tommasini.

La tua voce, la tua persona, tiene incollato tutto in un discorso unico, ma i tuoi album sono abbastanza diversi l’uno dall’altro: c’è quello intimista e quello più orchestrale, quello punk, quello pop e quello synthpop… Questo possiamo definirlo trascendente?

Per quanto riguarda la chitarra, Illusion è stato suonato da me: una scelta produttiva di Gianni Maroccolo. Gianni ha creato il sound del disco partendo proprio dalla mia chitarra, sapendo anche che sono uno dei chitarristi più scarsi in circolazione. Lui però probabilmente intravedeva un mondo sonoro in questa chitarra che ha poi – com’è ovvio che sia – prodotto, quindi l’ha editata, tagliata, storpiata… Il risultato mi appartiene molto perché, anche se dietro c’è un processo di rimescolamento, scaturisce da una cosa che ho fatto io. Gli arrangiamenti elaborati da Gianni sono stupendi, anzi perfetti. Il disco è come un maglione: io ho portato la lana e lui l’ha cucito.

A proposito della collaborazione con Gianni Maroccolo, responsabile appunto della produzione artistica e con cui peraltro nel 2020 avevi co-firmato il disco Noio; Volevam Suonar, hai parlato addirittura di un incontro karmico

Entrambi i dischi sono nati durante il lungo periodo pandemico. Noio; Volevam Suonar era stato un disco altrettanto coraggioso, realizzato durante il lockdown, quando eravamo tutti chiusi in casa… Lì qualcosa dentro di noi si è rotto. Io e Gianni ci siamo trovati in sintonia anche su questioni di ordine sociale, condividendo per principio un’attitudine di rivolta. Quando Draghi dichiarò Non ti vaccini, ti ammali, muori, pensai Vabbè, muoio, grazie di avermelo detto perché non ho tutta questa voglia di andare avanti. Invece, mi ha fregato.

Come viene fuori un’(a)tipica canzone di Edda?

Le canzoni, come le idee, ci sono già. Le ho già scritte o le ha già scritte qualcun altro e arrivano, mi arrivano. Sono lì, tutto quello che c’è è già scritto. Le scoperte, persino nel campo scientifico, derivano sempre da sbagli: cerchi una cosa e ne trovi un’altra che c’è già. Come quando ti arriva un sms: qualcuno te lo manda e rispondi grazie. Ma allora perché a me mandano sempre delle cagate e agli Aerosmith dei pezzi che funzionano?

Il titolo Illusion, al di là dell’assonanza con la hit degli Imagination, si riferisce a Maya, termine sanscrito che rimanda allo strato superfluo che ricopre la vera essenza delle cose…

Nel corso della mia vita ho fatto tanta fatica, come bambino, come giovane, come uomo, come figlio, come cittadino. Avanti nel percorso, nel mezzo del cammin, iniziai a farmi le pere, sono crollato e poi, vabbè, mi sono risollevato. Adesso ho quasi sessant’anni e dovrò affrontare la vecchiaia, ma a questo punto non me ne frega un cazzo, vada come vada. Quello che dovevo fare l’ho fatto, OK, però sto aspettando la prossima puntata quindi sono molto sensibile. Mi rendo conto che l’Italia, o per meglio dire il mondo, non può che sperare che una persona come me non venga mai alla luce. Io non mi riconosco in questo mondo. Se esista un altro modo di ragionare, questo non lo so, però non ce la faccio a stare in un mondo dove ci sono i buoni e i cattivi perché tutti sono cattivi. Non fate conto su di me, vi canto le canzoni, se volete, e stop. Nessuno sa più quale sia la verità, non la so neanche io ma almeno non mi spaccio per messia. Penso ai ragazzi in Russia, a cosa può fare uno Stato dall’oggi al domani: può dirti non esci più di casa, può dirti vai a combattere la guerra. Ho constatato, insomma, questa mia difficoltà nel vivere in questo mondo. È difficile per tutti perché tutti, chi più chi meno, siamo in difficoltà. Anche se magari non si capisce, nei testi di Illusion c’è tutto questo substrato. È come vivere in prigione, ma è inutile lamentarsi che la prigione è brutta perché la prigione deve essere brutta. La prigione non può diventare un parco di divertimenti: rimarrà sempre la prigione. Però si può uscirne. Si spera.

Nello struggente singolo “Lia” omaggi le madri al di là della gabbia sociale della maternità, mentre in “Alibaba” canti Uhh l’oroscopo consiglia uccidere la famiglia, collegandosi alle varie frasi contro l’ipocrisia delle istituzioni familiari già al centro di Stavolta Come Mi Ammazzerai?
Tutto torna e ritorna?

Sì, si tratta di uccidere la famiglia come istituzione. I figli bisogna farli soltanto se si è in grado di educarli e, quando parlo di educazione, non parlo di istruzione né tantomeno di insegnamento religioso ma parlo di spiritualità. Se non sei capace, ed è ovvio che non lo puoi essere perché non ti hanno educato a tua volta, lascia perdere. Eventualmente, sposati e rovina quantomeno una persona sola. La famiglia è il mattone fondante della società ma, non c’è niente da fare, è anche l’anello più debole. Io non guardo più la televisione, anche perché ho scoperto TikTok, ma seguo “Chi l’ha visto?”  da circa quarant’anni: basta guardare quel programma per avere la conferma che la famiglia, sì, potrà anche aiutare, ma è il contesto più pericoloso in assoluto per l’essere umano.

Nel disco, tra “Alibaba” e “Mirai”, si avverte una specie di collisione tra differenti riferimenti temporali: come ti poni tra passato, presente e futuro?

Viviamo davvero nell’illusione. La chiamano realtà. In realtà, non c’è né passato né futuro, né presente. Quando ci addormentiamo, non ci ricordiamo neanche più di essere Stefano o Elena. Lo chiamano sonno, ma in quel momento avviene un distacco dalla coscienza e si diventa altro, si va altrove. La mattina successiva si ritorna nel proprio corpo, ma chi l’ha detto che non si tratta di un sogno a occhi aperti? Anche perché la notte fai un altro tipo di sogno, a occhi chiusi. Io ho fatto una scelta. Io voglio credere ai pazzi del Movimento Hare Krishna, che ho scoperto a vent’anni grazie a Paolo Tofani. Mi trovo in grande difficoltà come uomo: non mi sono ancorato a questa società, non ho costruito niente. Adesso non ce la faccio più, non ce la faccio a essere fascista, comunista, ricchione, uomo… Non riesco a identificarmi in niente, neanche a livello sessuale. Dopo tutto quello che mi è successo – amori, sofferenze, tradimenti, la vita in famiglia, la mamma che muore, il papà che invecchia e al quale ora devo fare in pratica da badante…  – sono pieno. Anche se non è facile, per fortuna riesco a fare l’Hare Krishna e, in questa maniera, riesco a vivere, forse. Mi alzo alle tre del mattino per fare i miei esercizi spirituali e cantare le mie preghiere. Se tutto andrà male, una direzione ce l’ho. Posso allenarmi per la prossima vita. Nella prossima vita voglio nascere suora o gobbo di Notre Dame, per esempio, ma non voglio nascere intelligente, bello e ricco. Suonare ed essere contento nel farlo, intanto, va benissimo.

La declinazione del linguaggio al di là del genere maschile e femminile dei tuoi testi, in cui chiunque può infatti proiettarsi, deriva da questo rigetto di una identificazione monosemantica che si trasforma in universalità?

In precedenza parlavo di me al femminile, ma in qualche testo di Illusion uso sia il femminile sia il maschile. Io sono maschio, fingo di essere omosessuale. Penso al personaggio Arjuna, che compare nel poema epico Mahābhārata, terzo di cinque fratelli, e che per un certo periodo di tempo visse come se fosse una donna. Anche questa è un’illusione: o sei l’uno o sei l’altro, o sei tutti e due, o sei qualcosa che trascende questa dimensione. Ormai io sono per l’ascesa.