DEVENDRA BANHART, Flying Wig

Qual è il modo giusto di parlare di Devendra Banhart? Il campione (nel senso più medioevale del termine) di Michael Gira, il golden boy della fase indie folk della mia generazione, l’artista visuale, il tipo di Natalie Portman, l’amante della psichedelia e dello skateboard? Non ce n’è uno solo, ci sono tanti Devendra quante sono le figure coloratissime di un caleidoscopio, e ognuna di queste, completamente disinteressata alla coerenza con le precedenti, segue un solo comandamento: andare dove il flusso artistico la porta, senza farsi troppe domande e soprattutto senza dare risposte chiare. In questo caso quella che abbiamo davanti è una figura più oscura, a tratti mesta, a tratti perturbante. Non è facile raccontare i giorni bui, e questo disco suona, a detta dell’autore stesso, “come farsi fare un massaggio malinconico, o come piangere, mentre si è vestiti eleganti. Se voglio piangere, lo voglio fare nel mio vestito migliore”. È un album ammantato di un buio caldo, che si allarga a spirale grazie ai suoni studiati a lungo, ricercati insieme alla nuova collaboratrice artistica e già da tempo collaboratrice e amica, Cate Le Bon.

La baita di Topanga dove Devendra ha ossessivamente ascoltato i Grateful Dead ha partorito una serie di pezzi scivolosi, difficili da afferrare, dai quali l’amore per Eno affiora per una certa qualità ipnotica e onirica, oltre che da composizioni vestite di una semplicità da chiaroveggente, come “charger”, o di futurismi quasi lynchiani, come “twin” o “sirens”, i cui video sono imprescindibili per afferrare del tutto l’atmosfera di Flying Wig.

Questa ricerca sonora, supportata da una band di vecchie conoscenze, una fra tutte il sax di Euan Hinshelwood, vorrebbe rimarcare ancora di più l’assenza dei vecchi Devendra, ma dappertutto aleggiano il Devendra del freak folk (definizione odiosa, e quindi da lui odiata), quello dei video matti e coloratissimi, quello che sembrava un bimbo che giocava con i suoni, le immagini e i funghi, quello che citava come influenza Vashti Bunyan.

Anche stavolta il caleidoscopio è stato scosso, ancora una volta ha restituito qualcosa di diverso, ma gli elementi che lo compongono sono sempre gli stessi, e la cifra stilistica di fondo, fatta di meticolosa costruzione di un immaginario musicale e non, non si perde mai.