Deborah Walker: il fluire della vita attorno

Deborah Walker con Silvia Tarozzi

Protagonista assieme a Silvia Tarozzi dello splendido Canti Di Guerra, Di Lavoro E D’Amore, pubblicato dalla prestigiosa Unseen Worlds, voce strumentale importante in un magnifico disco di Philip Corner, ascoltata di recente con ONCEIM, orchestra francese che si cimentava per l’occasione con Éliane Radigue e Jim O’Rourke, Deborah Walker, reggiana in fuga, è musicista talentuosa e dai mille orizzonti. Il recente stupore di fronte al disco con Silvia Tarozzi è stata la scintilla per una lunga conversazione.

Come nasce il progetto di Canti Di Guerra? Ricordo un concerto qualche tempo fa a Reggio, al Teatro Valli…

Deborah Walker: Ricordo anch’io che c’eri e che avevi scritto un articolo bellissimo su quel concerto!

Penso che dopo tanti anni di collaborazioni e progetti di creazione musicale in giro per l’Europa abbiamo avuto il desiderio di lavorare su di un materiale musicale che sentivamo vicino a noi, vicino alla nostra storia, e che ci affascinava per la sua forza e bellezza. È stato anche provocato dal fatto che per anni abbiamo continuato a suonare “Pietà L’è Morta” in un particolare arrangiamento realizzato per un concerto a Reggio Emilia nel 2004. Alcuni amici avevano proposto ai Pas Poli, un gruppo di improvvisazione di cui Silvia Tarozzi ed io facevamo parte, di fare un concerto per salutare la venuta dell’ambasciatore del Sud Africa. Fu un’occasione divertente per comporre una performance ispirata a temi tradizionali sudafricani ed emiliani, ed anche un’elaborazione personale della poesia “Libertà, scrivo il tuo nome” di Paul Éluard. Ne nacque un arrangiamento strumentale molto intenso di “Pietà L’è Morta”, con la melodia che a poco a poco emergeva da una nuvola di armonici e rumori. Quell’arrangiamento continuò a vivere anche dopo in altre versioni, alle volte lo suonai da sola, altre volte con Silvia, o anche in trio con il violista Frantz Loriot. Nel 2014 lo suonammo con Silvia come bis in uno dei nostri concerti di musica contemporanea. Eravamo all’Istituto di Cultura Italiana di Parigi per presentare brani di Giuseppe Chiari, Stefano Scodanibbio, Pascale Criton e Éliane Radigue. Il concerto era a ridosso del 25 aprile e ci piaceva l’idea di salutare questa data importante con una sorpresa. Il pubblico fu entusiasta, anche se pochi conoscevano quel brano e il suo significato. Quell’esperienza ci rimase nel cuore e ci incoraggiò a realizzare più tardi questo progetto dedicato ai canti tradizionali delle nostre zone.

Ecco, Reggio Emilia. Mi racconti il tuo percorso in città, le tue prime esperienze musicali, i tuoi ricordi?

La musica c’era già a casa… Papà suona la chitarra, ama il blues, la musica celtica e il repertorio barocco. Mamma ha una cassetta di Battisti, un’altra di Venditti e una di Branduardi, le ascoltiamo più che altro in viaggio. Frequentiamo una chiesa protestante che ha un libro per i canti antichi e uno per quelli moderni. In quello dei canti antichi c’è anche lo spartito che riesco a leggere dopo aver iniziato il conservatorio, e mi diverto a cantare le voci armonizzanti. I canti moderni sono in stile anni Sessanta/Settanta, alcuni composti da autori italiani, ma la maggior parte sono di origine inglese o americana con influenze spiritual e mentre li cantiamo immagino arrangiamenti alternativi, come se altri strumenti fossero lì presenti…

Al conservatorio “Achille Peri” scelgo violoncello su consiglio di un’insegnante di propedeutica molto cara e competente, Ester Seritti. Ho nove anni e fatico a decidermi… amo tanto la musica, ma non uno strumento in particolare. Mi ero decisa per il saxofono, ma solo perché avevo visto che lo suonava David Bowie in una foto su un vinile. Ma in conservatorio saxofono non c’è, mi dicono di scegliere clarinetto. Ma poi cambio per il violoncello seguendo il consiglio di Ester. Mi sono convinta pensando che con il violoncello potevo anche cantare contemporaneamente, cosa che in realtà ho iniziato a fare molto più tardi.

Ascolto molto Eric Clapton, Yardbirds e Cream, i gruppi che piacevano a mio padre da giovane. Ho la fortuna di avere amici dei miei genitori che saziano la mia curiosità copiandomi delle cassette di Bowie, U2… e che mi portano a vedere Peter Gabriel a Modena nel ’93, quando ho solo 12 anni! Il giorno successivo vado a scuola dopo aver dormito poche ore, sono ancora talmente carica che racconto il concerto a tutti, anche ai prof… ma nessuno conosce Peter Gabriel e devo contenere il mio entusiasmo.

In conservatorio suono tanta musica da camera, perché c’erano pochi violoncellisti. Amo la musica da camera e suonare con gli altri, molto più del repertorio solistico e virtuoso, eccezion fatta per Bach e Shostakovich. Scopro la musica contemporanea grazie a “Compositori a confronto”, gli appuntamenti annuali con i giovani compositori organizzati dal conservatorio e a “Di Nuovo Musica”, una storica rassegna di concerti di musica contemporanea organizzata nei teatri di Reggio Emilia.

Alle medie avevo iniziato anche a cantare in qualche band, per lo più per fare i cori. Poi nel ’97 incontro Enrico Fontanelli e i fratelli Fabio e Daniele Vezzani che hanno un gruppo d’ispirazione più o meno punk che si chiama Lesbo Dolls, ma che sta virando in una direzione dark-new wave, e sono interessati a integrare il violoncello. Così nascono i Kathleen’s, coi quali suono alcuni concerti e registro un ep nel ’99. Frequento un po’ il giro dei – così si chiamavano a Reggio – “gruppi di base”, giovani band, facciamo tutti le prove in una vecchia casa a Roncadella gestita dal comune di Reggio. Negli anni Novanta ci sono i dischi del Mulo, i concerti del Primo Maggio con CSI, Disciplinatha… c’erano già i Giardini Di Mirò, gli Afa, gli Ustmamò coi quali avevo contatti. Molti anni più tardi mi ritroverò a collaborare di nuovo con Enrico Fontanelli negli Offlaga Disco Pax.

Nel ’97 mi trovo a suonare in una produzione della Corte Ospitale, un’opera per tre violoncelli e due cantanti del compositore americano Tom Johnson. Andiamo anche al festival Venezia Poesia a presentarla, e visito per la prima volta la Biennale d’Arte Contemporanea. Con i cantanti passiamo ore indimenticabili con Tom, lo portiamo a mangiare le tigelle e lui a tavola ci insegna le sue Counting Pieces, ci divertiamo tantissimo. Mi regala in quell’occasione uno spartito delle sue Melodie Razionali. Dieci anni più tardi le registreremo con l’ensemble Dedalus a Parigi.

Nel 2000 incontro Giovanni Rubbiani, chitarrista e songwriter nei Modena City Ramblers. Stava creando un nuovo gruppo con la cantante Sara Piolanti, ed ecco che mi ritrovo nel folk-urbano dei Caravane De Ville, e vivo un’esperienza molto bella di tanti concerti in giro per l’Italia e ben due album.

A parte l’esperienza della musica contemporanea e delle band, inizio ad ascoltare musiche più sperimentali, sempre grazie ad amici che amano condividere i loro ascolti. Progetti tra jazz, improvvisazione, sperimentazioni elettroniche, come i Filmworks di John Zorn e i suoi Masada, soprattutto quelli per archi. Da più grandicella comincio ad andare a vedere concerti a Bologna. Al Link vedo i Suicide e Thurston Moore nei suoi progetti più free… Grazie al musicista di musica popolare Paolo Simonazzi scopro il violoncellista Vincent Courtois che all’epoca suonava in progetti di Rabhi Abou-Khalil e anche in un trio con Lucilla Galeazzi e Michel Godard. Proprio in quel periodo si iniziano ad organizzare a Reggio workshop estivi di improvvisazione con musicisti come Vincent Courtois, Marcus Stockhausen, Jamal Ouassini, Joëlle Léandre… Li frequento praticamente tutti. Sono esperienze molto formative, anche dal punto di vista degli incontri con gli altri partecipanti. È così che conosco Silvia Tarozzi e anche la violoncellista Agnès Vesterman, con la quale andrò poi a studiare a Parigi.

Qual è stato il satori che ti ha fatto innamorare della musica “contemporanea”? Quali le tappe fondamentali nel tuo percorso di avvicinamento a questi mondi?

Armando Gentilucci, un brano per tre trombe, una prova che vedo al conservatorio. Fanno questa roba strana, ma sono tutti seri, dedicatissimi. La situazione m’incuriosisce! Sono attratta tantissimo da questa musica sicuramente all’inizio per la sua stranezza, mi appare misteriosa e voglio saperne di più. E poi diventa a poco a poco una passione anche per le modalità diverse che questo repertorio suscita rispetto al lavoro di interpretazione del repertorio classico. Già ai tempi del conservatorio mi ritrovo a sperimentare nuovi suoni sullo strumento e a collaborare direttamente con i compositori alle loro creazioni, per esempio con Marco Marinoni, con cui ci divertiamo un sacco. Mi piace tantissimo, trovo queste situazioni molto stimolanti, mi rivelano altre potenzialità. Tra l’altro a molti altri studenti e professori questa musica non interessa per niente e in qualche modo mi ritaglio una realtà che sento più mia e che mi allontana dal senso di competizione che talvolta imperversa nelle istituzioni musicali. Poi, l’incontro con Tom Johnson mi fa scoprire un tutt’altro mondo della musica “contemporanea”, con le virgolette come scrivi tu. Con Tom non ci sono esperimenti di timbro, effetti o elettronica… ma suoni molto chiari e cristallini organizzati razionalmente, seguendo formule matematiche. Alle volte anche giocosi e con pochissimo uso di dissonanze. Quando mi trasferisco a Parigi lo ricontatto (vive lì dagli anni Ottanta) e per via di una sua raccomandazione mi ritrovo con l’ensemble Dedalus grazie al quale ho l’occasione di suonare tanta musica sperimentale, partiture grafiche o concettuali, di correnti diverse e a volte opposte a una certa musica contemporanea europea. Compositori come James Tenney, Philip Glass, John White, Cornelius Cardew, Frederic Rzewski e poi il collettivo Wandelweiser, Jürg Frey, Antoine Beuger, Michael Pisaro, e altri ancora come Tim Parkinson, Jean-Luc Guionnet, Samuel Vriezen, Cat Lamb. Il lavoro di Dedalus ha come obiettivo la costruzione di una dinamica collettiva, di un suono di gruppo. L’ensemble non si considera come un insieme di solisti e suona sempre senza direttore. Il repertorio che sceglie incoraggia questa direzione artistica, privilegiando in particolare le dinamiche di collaborazione e la partecipazione attiva e creativa di ogni membro.

Come avete lavorato al disco con Silvia? Si avvertono una forte complicità ed un’intesa quasi telepatica, come se – a tratti – foste quasi una sola persona, musicalmente parlando. Ci racconti anche il vostro incontro?

Silvia ed io ci siamo incontrate nel 2003 a Reggio Emilia a un workshop di improvvisazione con il violoncellista Vincent Courtois. L’esperienza fu intensa per tutti i partecipanti e decidemmo di formare un gruppo per continuare a lavorare musicalmente in maniera creativa, i Pas Poli, che in francese vuol dire “non educato”. Parallelamente Silvia ed io ci siamo iscritte a un corso di musica da camera contemporanea con Enzo Porta al Conservatorio di Modena (Silvia studiava già con lui da alcuni anni), e abbiamo lavorato su composizioni per violino e violoncello di Kodaly, Scelsi e Gubaidulina. Poco dopo sono partita a Parigi e dopo circa un anno è arrivata anche Silvia. Avevamo un trio d’archi con Frantz Loriot e vari progetti d’improvvisazione. Poi nel 2007 abbiamo iniziato a suonare anche con l’ensemble Dedalus. Paradossalmente è stato quando Silvia è tornata a vivere in Italia che abbiamo iniziato alcune importanti collaborazioni come duo, in particolare con Pascale Criton, compositrice conosciuta per l’uso di scordature con micro-intervalli, e con Éliane Radigue, pioniera della musica elettronica che ora lavora principalmente a composizioni per strumenti acustici. Più tardi abbiamo iniziato anche a lavorare con Philip Corner, compositore americano legato al gruppo Fluxus, che vive a Reggio Emilia dagli anni Novanta. Queste collaborazioni ci hanno fatto crescere come duo, musicalmente e umanamente. Abbiamo sviluppato una sensibilità particolare per il gesto e la microtonalità, per l’interazione fra i nostri strumenti, per l’ascolto reciproco. Sulla telepatia hai visto bene… è difficile da spiegare… sicuramente è maturata negli anni, attraverso le tante esperienze insieme. Però è anche come se ci fosse sempre stata. La cosa interessante è che siamo anche molto diverse. Mi Specchio E Rifletto, il disco solista di Silvia, è una musica che io non avrei mai potuto creare. Ed è stata una sorpresa incredibile ascoltarlo, anche perché per varie vicissitudini Silvia ha dovuto aspettare anni per pubblicarlo… E devo dire che è stata una grande e piacevolissima sorpresa, che mi ha svelato un mondo musicale tutto suo, fatto di freschezza primaverile, passione calda e sorriso sulle labbra… e anche molta competenza e gusto per la scrittura e gli arrangiamenti.

Quando abbiamo iniziato a lavorare a Canti Di Guerra, Di Lavoro E D’Amore Silvia già si interessava al canto popolare, anche in altre collaborazioni, per esempio in un pezzo per voce e violino che le ha scritto Cassandra Miller. Per cui era più che altro lei a proporre brani che potevamo riarrangiare o reinventare. Io ero affascinata dalla capacità di questi canti di risvegliare quel sentimento quasi sacro di rispetto per la Resistenza, così presente nelle nostre zone ma non solo, una sorta di bussola per la società. Ascoltavamo varie versioni dei canti e poi sperimentavamo qualche idea, ispirandoci a caratteristiche sonore che ci avevano colpito. Per esempio i cori delle Mondine giocano a volte con possibilità microtonali, come il salire di un quarto di tono mano a mano, anche all’interno di una stessa frase per mantenere una certa tensione e drammaticità. E così abbiamo lavorato su “Sentite Buona Gente”, glissando mano a mano sempre di più. Ne “Il Bersagliere Ha Cento Penne” abbiamo voluto creare una tensione tra un piano più rumoristico, quasi come un’eco della guerra, e un altro più dolce dato dal canto. In “Tita” la ritmicità e musicalità delle conte e filastrocche ci ha ispirato un pezzo di poesia sonora. In tutto il progetto il nostro riscoprire era un reinventare, un filtrare attraverso di noi questa tradizione, restituirla con un linguaggio che riflettesse il nostro percorso musicale, utilizzando le nostre possibilità vocali e strumentali. Se nel disco abbiamo usato qualche effetto, qualche sovrapposizione, nel live invece siamo in acustico, usiamo solo una base ne “La Lega”, con le voci del Coro delle Mondine di Bentivoglio. E poi abbiamo avuto la collaborazione con la cantante nigeriana gospel Ola Obasi Nnanna: la sua interpretazione de “Il Bersagliere” era molto intensa e ci ha ispirato un arrangiamento ancora diverso, che ha liberato la nostra fantasia, restando comunque ancorato al significato delle parole.

Ti ho visto dal vivo di recente con ONCEIM. Ci parli di quest’esperienza e del repertorio che affrontate?

È un grande ensemble francese basato a Parigi, fondato e diretto dal pianista Frédéric Blondy circa 10 anni fa. È composto da una trentina di musicisti attivi in campi diversi, ma che hanno in comune una pratica dell’improvvisazione. Alcuni sono attivi principalmente nel mondo dell’improvvisazione e in parte autodidatti. Altri escono dalle classi di jazz del Conservatorio Superiore di Parigi, che è l’istituzione musicale più importante della Francia. Altri ancora hanno altri percorsi, ma ne risulta un gruppo abbastanza eterogeneo e molto raffinato sulla proposta timbrica. Fin dall’inizio l’ONCEIM affianca una pratica dell’improvvisazione collettiva alla collaborazione con compositori. Per anni abbiamo lavorato sull’improvvisazione collettiva senza pre-struttura o direzione, attraversando fasi diverse e a volte difficili, cercando di maturare le strategie che potessero sostenere questa impresa complessa. Un lavoro che ora porta i suoi frutti e che ha contribuito alla costruzione del suono particolare dell’orchestra. Abbiamo suonato creazioni di Stephen O’Malley, John Tilbury, Patricia Bosshard, Jim O’Rourke… Una delle composizioni che abbiamo suonato di più in concerto è “Occam Ocean” di Éliane Radigue, sicuramente une delle performance più belle e profonde dell’orchestra. Ci piacerebbe però avere anche più occasioni per presentare concerti di improvvisazione, ma i programmatori spesso preferiscono chiamarci per le composizioni che abbiamo in repertorio.

Abiti fuori dall’Italia da tempo: necessità se si vuole vivere suonando certe cose? In quali città hai vissuto e che realtà musicali hai trovato?

Ho lasciato Reggio nel 2004 per Parigi. I primi mesi penso di non aver visto neanche un museo, ma tanti, davvero tanti concerti. E ai concerti si incontrano tante persone e molto velocemente mi sono ritrovata in una rete di musicisti, artisti, video-maker, poeti… È stato molto stimolante, mi sento una persona sociale e mi piace sentirmi parte di una comunità di persone sensibili e attive artisticamente. Detto questo, quando sono andata a Parigi non immaginavo che sarei rimasta lì ben 14 anni. Ho vissuto poi brevemente a Bonn, dove avevo pochi collegamenti con la scena locale. Ora sono a Berlino e ritrovo il senso di appartenenza a una comunità di artisti, diversa sicuramente da quella di Parigi, ma riprendo il ritmo piacevole di andare ad ascoltare concerti ogni settimana, rivedere amici, conoscere nuove persone, scambiare idee.

Essendo partita abbastanza giovane, non avevo avuto il tempo di annoiarmi musicalmente in Italia, anzi, come raccontavo prima, a Reggio ho fatto incontri davvero interessanti e molto formativi. Confrontandomi con gli amici italiani che vivono in Italia, molti dei quali suonano spesso all’estero, sembra chiaro che la differenza, oltre che nel non trascurabile riscontro economico, sia anche nella mentalità: spesso in Italia non si considera il lavoro artistico come lavoro. Detto questo, ci sono realtà che nel se vuoi meno culturalmente fertile panorama culturale italiano hanno saputo creare oasi di freschezza e di ricerca musicale. Penso a MU a Cesena, a Riccardo La Foresta a Modena, al festival Angelica a Bologna, a Blutwurst a Firenze, a Standards a Milano, ad Agnese Toniutti e il Salotto musicale friulano. La mia impressione è che i finanziamenti alla cultura influenzino soprattutto la quantità di proposte artistiche, ma non la qualità. Questo perché le motivazioni di un artista lo spingono ad adattarsi alle condizioni che trova e a fare tutto il possibile per realizzare un progetto. In posti dove manca sostegno alcuni artisti sono costretti ad abbandonare e a fare altro per campare. Il fatto che in Italia più persone siano costrette ad abbandonare i loro progetti artistici o a scegliere di emigrare fa sì che la scena musicale sperimentale sia più ridotta che in altri Paesi, ma comunque composta da meravigliosi artisti. Il fatto che ci siano meno artisti in Italia e che la scena sia più ridotta è un peccato per la società italiana.

Cosa stai ascoltando ultimamente? Cinque dischi imprescindibili per te?

Sto ascoltando un vinile in due volumi molto bello di musiche popolari delle nostre zone: Musiche E Canti Popolari Dell’Emilia, curato da Cammelli, Leydi e Pianta. Ma non ascolto molti dischi a casa, amo più andare ai concerti. A casa tra il tempo sullo strumento e l’ascolto di registrazioni sulle quali devo lavorare, spesso le mie orecchie preferiscono riposarsi o adagiarsi sul fluire della vita attorno.

Cinque dischi che ho ascoltato tanto: David Bowie – Outside, Sonic Youth – Confusion Is Sex, PJ Harvey – White Chalk, Larry Norman – In Another Land, John Zorn – The Circle Maker.

Se non fossi stata una musicista, nella vita cosa avresti fatto?

Forse l’antropologa. Però a vent’anni non lo sapevo ancora… Alle superiori pensavo che avrei studiato matematica.

Progetti futuri in cantiere?

Una collaborazione con la pianista Chiara Saccone, un progetto dedicato a Giuseppe Chiari e ai suoi Metodi per suonare. Abbiamo presentato già Metodo per suonare l’acqua, per suonare il rompere, per suonare i sassi, per suonare la stanza… e saremo il 25 agosto alle Murate a Firenze per una performance. Stiamo anche preparando una registrazione dei Metodi per Alga Marghen.

Sto seguendo anche un progetto a Berna, in collaborazione con il saxofonista Christian Kobi, per realizzare un nuovo pezzo per ensemble di Éliane Radigue con gli studenti dell’università e l’ensemble Vertigo.

E poi l’anno prossimo sono invitata dall’ensemble canadese GGRIL a scrivere un pezzo per loro. Sono basati a Rimouski, che si trova a 500 Km a nord-est di Montréal, sul fiume Saint-Laurent. È la quasi prima volta che scrivo un pezzo per ensemble, mi è capitato ma in situazioni legate ad atelier o workshop musicali. Sono già un po’ emozionata…