Alessandro Fiori, il cielo in altre stanze

(ovvero  grappoli d’uva a gennaio, ipercoop psichedeliche e  ricordi fuzz)

Un tempo cantante dei Mariposa (band che non ha avuto la fortuna che meritava, troppo eclettica e inclassificabile probabilmente; ci militava pure quell’Enrico Gabrielli col quale abbiamo parlato non molto tempo fa per presentare l’etichetta 19’40’’), Alessandro Fiori è scrittore (sul suo vecchio sito c’erano racconti e poesie e noi lo abbiamo incontrato a Parma in una libreria dove presentava il suo ultimo libro di racconti autoprodotto, “Gite”), intrattenitore (perché no? In diversi momenti della serata le risate sono state fragorose, una certa toscanità unita a uno spirito surreale lo rendono un tipo davvero peculiare), musicista e pittore. Il suo ultimo disco solista, Plancton (Woodworm/Ibexhouse, 2016), è una specie di rivisitazione del Lucio Dalla del periodo Roversi su toni scuri, con testi davvero potenti ed immaginifici e una ricerca timbrica sorprendente per chi lo avesse conosciuto sia nella sua dimensione più classicamente cantautorale attraverso i dischi solisti precedenti (iniziò con Attento A Me Stesso del 2010, su Urtovox) oppure nelle sue diverse collaborazioni (dai Craxi ai Betti Barsantini, dagli Amore agli Stres). Ma quando si parla di Fiori, si parla di una persona con uno sguardo molto personale, vivo, geneticamente lontano dalla banalità di tanti, con cose da dire. Eccone alcune.

Ho passato diverso tempo a leggere i tuoi testi e ricordo che sul tuo sito (al momento non più attivo) c’era una vasta selezione di racconti e poesie.

Alessandro Fiori: Infatti stasera sono qua a presentare “Gite”, che è la mia ultima pubblicazione di racconti, scritti negli ultimi sei, sette anni, poi canterò alcuni pezzi inediti. Non è altro che un contenitore dove metto delle cose per evitare di perderle, come ad esempio quei raccontini che c’erano nel sito e poi sono andati smarriti. Fosse per me farei solo reading, perché in realtà ultimamente ho suonato tantissimo. E tu come li hai trovati questi testi?

Ti volevo giusto leggere un tuo pezzo (dalla canzone “Il Gusto Di Dormire In Diagonale”): Il gusto di piangere per farsi consolare, il gusto di non andare a scuola, il gusto di tornar bambino, il gusto di spostarti i difensori del Subbuteo se vai a telefonare.
E adesso che cosa ti dà gusto?

Questa canzone è costruita su una lista, però nell’affaccio del ripescaggio dell’infanzia che è un tema che mi interessa, come un altro punto del percorso di tutte le cose. In questo presente, anche per una questione di tempo e di paternità, ho meno tempo per guardarmi indietro, perché sono occupato, anche se per fortuna non preoccupato. È una cosa che ho imparato da poco, gestire meglio la distanza. Nella prima fase della paternità tutto il mio ascendente paranoico si era accentuato, ora sto bene e mi dà gusto questa presa di coscienza del fatto che riesco a godermi le cose quando ci sono, senza proiettarmi da una parte o dall’altra.

Il  puro presente dei buddisti, giusto?

Anche chi ha i figli in realtà resta legato ai ritmi che aveva prima, io no, me la sto proprio godendo, sono contento di me.

Non più attento (Attento A Me Stesso, un suo disco, ndr) ma contento, insomma.

Ora col nuovo disco – già con Plancton, ma pure col nuovo – c’è tutta una gestione dei nuovi buchi che si vengono a creare, c’è sempre da lavorare, da inventarsi dei nuovi rimedi, e la musica mi aiuta, il lavoro che faccio mi piace. Ho tentato da poco di scrivere un bestseller da ombrellone, sulla storia di un cantante che cerca il successo. La dimensione in cui sono non sono nient’altro che io. Se mi trovo qua sono io. Se uno da circa 15 anni (con più coscienza 10 anni) cerca di proteggere il suo sguardo, si trova poi in situazioni piacevoli.

Non c’è più il topo in soffitto che non ti fa dormire bene (il riferimento è a “Fuori Piove”, uno dei suoi pezzi che hanno avuto maggior riscontro, dal primo disco solista prima citato, ndr)?

Ma no, quello c’è sempre, figurati, magari fosse solo un topo. Una cosa precisa che mi dà gusto comunque non te la so dire, ma ne ho approfittato per girellare un po’ su questo argomento.

Senti, mi dicevi ora che non sei più preoccupato, io però ascoltando Plancton non ne sarei così convinto (ride, ndr). Io un po’ di bruma l’ho sentita, poi con quel pezzo iniziale che dice “Il sole rimane dietro”…

Ci si inabissa, ascoltando quel disco lì, in più poi si sprofonda sotto il mare, è un disco così, ragazzi, che si deve fare. Mi viene da pensare due cose: i dischi per me non sono dei supporti che mi servono per lavorare; per sono cose importanti, io scrivo delle robe per dei motivi che vanno al di là del puro rientro. In questo caso si trattava di una sorta di esorcismo, poi scopri in maniera sorprendente che questo fatto arriva a molte persone, e quindi c’è una condivisione reale, non di piccoli paradigmi gestiti da chissà chi, ma di sensazioni vere. Bisogna essere così per scrivere così? Io non posso scrivere poesia, ad esempio, ora io ho la fortuna di non essere poeta. Io ho la sensazione che per essere poeti bisogna essere davvero dei medium, occorre avere un tipo di permeabilità che stanca tanto. Nel disco Cascata, che è uscito in vinile, ho fatto l’esperimento di scrivere durante un picco in giù, poi però passa del tempo, devi musicare, arrangiare un testo, c’è una diluizione, ecco, mentre nella poesia non è così. Io spero di non poter essere mai un buon ballerino o poeta.

Hai lavorato con i bambini, io faccio il maestro elementare quindi l’argomento mi interessa, me ne parli un po’?

Per cinque anni circa ho condotto nel Mugello, una zona abbastanza depressa, dei laboratori teatrali per bambini; un’esperienza molto forte, ho dovuto smettere perché si creavano delle relazioni forti e anche perché iniziavano a saltare fuori sempre più concerti, e quindi ho dovuto mollare. Io ero appassionato e avevo una competenza, legata proprio al fatto che ricordavo in maniera nitida com’ero e cosa volevo quando avevo quell’età. Ero un bambino con le orecchie aperte, come quei bimbi là. All’inizio stavo sul cazzo a tutti, poi nel giro di un paio di anni sono diventato una sorta di vanto per la scuola, perché le cose andavano così bene che i genitori si presentavano con le lacrime agli occhi, scoprivamo che i bambini a 6-7 anni possono avere delle paure del tutto simili a quelle che hai a 40 anni. I laboratori li tenevo da solo e preferivo che la maestra se ne andasse: loro a fumare, io da solo con i bambini. Però è stata una bella botta anche dal punto di vista del percorso musicale. Economicamente era conveniente, ho deciso poi di fare il musicista in tutto e per tutto, non più come hobby. Comunque voi maestri a volte potete essere delle merde. È un lavoro difficilissimo e siete pagati pochissimo, pazzesco.

A proposito di paura, tosto quel testo sulla paura, in Plancton (io ho paura, perché non voglio morire, accenna a cantare, il fiato non puzza perché i polmoni sono secchi come grappoli d’uva a gennaio).

Ho scoperto da poco che non so in quale cultura, forse sudamericana, laddove ci sono delle salme, arrivano delle farfalle. C’è stata questa coincidenza che è una di quelle che capita quando un artista lavora bene, spesso si creano queste connessioni con cose lontane sia geograficamente che temporalmente.
Quel testo, per esempio c’era già, era una poesia.

Ci metti del tempo a scrivere i testi, li lavori, escono così?

Io lavoro molto con l’istinto, l’istinto non centellina con la creazione, poi in un secondo tempo naturalmente si lavora con la lima, anche in maniera pesante.

Perché la cosa più difficile e importante con le parole forse è proprio quella di imparare a togliere, lasciando solo l’essenziale, no? Un po’ come nella musica, col groove? Lo crei con i vuoti.

Assolutamente, ormai ho 41 anni, non voglio rileggere una cosa che ho scritto e trovarla inutile, quindi nel dubbio piuttosto tolgo. Io ho un pezzo del 2008 al quale hai accennato, “Fuori Piove”, molto apprezzato, che non volevo mettere nel disco, perché mi sembrava un po’ semplice, diciamo. In diversi mi hanno incoraggiato a metterlo, e quindi ho seguito il consiglio. Il poeta, quindi, come ti dicevo è un’altra cosa. Io, essendo calato in un contesto pop, devo fare compromessi, anche se con Plancton non ne ho fatti molti. Il tour di Plancton era partito in maniera ambiziosa, in quintetto, poi per cause di forza maggiore siamo dovuti passare al trio, che in realtà era più vicino al disco stesso.

Nel disco io ho sentito un Battiato domestico,  che se ne sta dietro la finestra invece che abbandonarsi al misticismo.

All’inizio per semplificare mi dicevano che il mio mondo è surreale, ma si fa presto a dire che uno è surreale. Poi con gli anni sono riuscito a far capire che spesso la realtà viene fraintesa e che la realtà è spesso iperreale, e quindi surreale.

Che volevi fare da bambino?

È tutto così fuzz che non ti saprei dire.

Pensa che io insegno nella scuola dove andavo da bambino.

Minchia che psichedelia.

Tra il primo pezzo (“Idrocarburi”) del tuo primo disco e “Sereno”, l’ultimo di Plancton, una roba alla Massive Attack malati, c’è uno iato bello grosso.

Io non so perché, ma a volte mi imbarazza dire che sono un artista. Non mi sorprende che tu possa trovare una forbice piuttosto varia nella mia produzione, dipende se oltre alla divergenza c’è un’unione di poetica, un filo che collega le varie strade traverse. Plancton è un disco che respinge molto all’inizio, se uno non è abituato all’elettronica. Però se poi hai il tempo e la pazienza, la poetica di Fiori ce la trovi. Ora vengo da una due giorni di improvvisazione totale, a casa mia ho la fortuna di avere un piccolo studio, sto lavorando sull’illogicità, mi piacerebbe in questo decennio che arriva, oltre che essere un bravo padre, un bravo cittadino, una bella persona, essere un pochino più psichedelico, guardare la logicità da un altro punto di vista. A me piace andare all’Ipercoop, fare la spesa, non voglio finire in un altrove, però non voglio seguire le logiche che mi portano a fare lo stesso percorso di tutti gli altri. Grazie all’espressione artistica ho la fortuna di mantenere vivi dei meccanismi naturali che in molti hanno messo via, cose che normalmente nell’uomo rischiano di ossidarsi. Per questo una volta al mese organizzo sessioni di improvvisazione a casa mia, con musicisti che cambiano. La canzone ok, ma se avessi un laboratorio più grande userei olii e solventi, ora ho una voglia di dipingere che mi sbuccia. La canzone è una delle vie, e più si intervallano l’una con l’altra, più funzionano meglio.

Un musicista che ti porta via, che ti aiuta ad andare all’Ipercoop, diciamo?

Oggi non stavo molto bene, ero debole, pieno d’ansia, stanco ed eccitato al tempo stesso. Da una radio in rete è partito random “Caro Amico Ti Scrivo” di Dalla. Altro che fiori di Bach! Io dietro in macchina con i miei, l’odore della mamma, lo zolfo del fiammifero, la sigaretta del papà. C’è qualcosa di Dalla che mi riporta nella pace, Ciampi mi ha aiutato a non smettere di fare questo mestiere.

Poesia ne leggi?

Io ho sempre letto poco, prima ovviamente leggevo solo poesia, ho imparato pure ad avvicinarmi ai romanzi, ma corti, ho letto Vonnegut, “Mattatoio n.5”, però faccio fatica, perché sono troppo piccolo rispetto alla grandezza degli stimoli che mi vengono in mente quando leggo e devo per forza mettermi a far qualcosa, quindi poi devo lasciar perdere, però ti direi anche Cortázar, “Storie di cronopios e di famas”, e Garcia Lorca, mi piacevano molto i suoi disegni.

Il tuo primo ricordo musicale?

Io che canto in piedi sul divano nella nostra seconda casa ad Arezzo “Il Cielo In Una Stanza” a memoria, vicino al giradischi. Ero piccino, avrò avuto sei anni al massimo, e lo cantavo bene, tutto a memoria. Anche prima ero famoso perché cantavo assieme alla tv “Giumbolo Giù Giumbolo”.