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Pepijn Caudron - foto di Nathalie Tabury

Probabilmente uno dei dischi migliori sentiti a inizio anno e una prova di maturità (non necessaria, poi) da parte di Pepijn Caudron, che già con gli album precedenti e col suo lavoro nel teatro si era procurato molto consenso. Il fatto che The Summoner unisca i nostri interessi per la musica sperimentale e ambient e quelli per le scene postmetal e postcore, sempre presenti sulle nostre pagine, ci ha persuaso fosse necessario saperne di più dalle parole di questo affabilissimo quarantenne (le foto a corredo dell’intervista sono di Nathalie Tabury).

The Summoner ha una struttura chiara, ci sono delle specie di “atti” (Denial, Anger, Bargaining, Depression, The Summoning, Acceptance). Origina da tuoi lutti privati, ma io posso relazionarmici, perché i miei hanno seguito un percorso molto simile. Guardandolo ora, lo consideri un album personale o universale?

Pepijn Caudron: Sfortunatamente la storia dietro a The Summoner è disperante così come pensi che sia. L’anno scorso ho perso tre amici. Suicidio, tutti e tre. Non sono il tipo di persona che giudica questi gesti. Era gente che aveva a che fare con grave depressione. Per loro la morte è stata una salvezza, una soluzione, una via d’uscita da una condizione insostenibile.

Nonostante fossi felice per loro, e anche plaudissi all’aver avuto le palle di prendere una simile decisione, ero triste in un modo che non potevo comprendere. Perdere un amico è capibile, due è inquietante, tre è davvero traumatico. Questo tipo di perdita era oltre il linguaggio. Ero saturato da un sentimento astratto, ottuso e pesante, è rimasto insieme a me per mesi. Da un lato, The Summoner è un sistema per far visualizzare a me questi sentimenti, un modo di monitorarli. Dall’altro, spero che possa servire come conforto per chi passerà per vicende simili. Il disco non è dedicato ai morti, è per i vivi. L’ho fatto per chi ha avuto la perdita. Quindi sì, è molto personale, ma spero che ci sia anche qualcosa di universale, qualcosa con cui tutti possano relazionarsi.

Hai utilizzato moltissimi campionamenti nei tuoi dischi precedenti. C’è chi dice che la “sampling culture” sia espressione tipica del postmoderno. Sei d’accordo? In ogni caso The Summoner è una storia piuttosto differente: gente reale, con strumenti veri e addirittura un’intera postmetal band al lavoro con/per te. Che è accaduto? Che è cambiato?

Penso che siamo tutti il prodotto dei nostri ambienti. David Byrne lo spiega perfettamente nel suo libro “How Music Works”. C’è una ragione se i cori nelle chiese cantano note lunghe e vanno lenti (perché dei brevi staccati si perderebbero nel riverbero prodotto dall’architettura) e c’è una ragione se la gente in Africa usa strumenti a percussione (per comunicare a lunghe distanze). Sono d’accordo che la musica basata sui campionamenti sia un fenomeno postmoderno, ma questa è un’osservazione intellettuale. Non ho mai deciso consciamente di diventare “un artista postmoderno”. È solo qualcosa che accade. Mi trovavo in una situazione nella quale volevo utilizzare tutta la musica possibile e la tecnologia mi aiutava a farlo. Soprattutto era il modo meno costoso di lavorare. Non era possibile per me impiegare veri suonatori d’archi nel mio primo album. Il clima economico non lo rendeva fattibile. Ho lavorato con questo sistema per più di dieci anni e ho realizzato che sarebbe stato piuttosto semplice per me realizzare un altro Grimoire (il predecessore di The Summoner, uscito nel 2011, ndr). Sentivo che il mio sviluppo come artista era un po’ incagliato. Così, per The Summoner, ho deciso di cambiare il mio metodo: uscire dallo studio, incontrare nuove persone, collaborare. Era anche importante per me coinvolgere un sacco di gente diversa in questo dico. Ha tutto a che fare con lo slegare un po’ il messaggio di The Summoner da me e renderlo più prossimo a tutti noi.

Se penso alla mia esperienza, a volte può essere molto difficile lavorare in gruppo, specie se in passato hai dovuto contare solo su te stesso. Che ne pensi?

Collaborare non è semplice. Però io avevo il completo controllo sul prodotto finale. Di base ho solo registrato un mucchio di suoni coi miei collaboratori. Poi ho preso questi suoni, li ho portati a casa e ho iniziato a comporre, arrangiare e mixare. La maggior parte del lavoro è stata fatta in solitudine. Devo ammettere che è tuttora il mio modo preferito di creare. In questa fase nessuno può mettersi tra me e il lavoro. Quando una prima bozza del progetto è pronta, chiedo a qualcuno di ascoltarlo. Si tratta di gente la cui opinione ha per me un valore molto alto: mia moglie, Kaboom Karavan, Erik Skodvin… Poi faccio altri aggiustamenti alla registrazione, di nuovo in completa solitudine, e lo modifico leggermente finché non penso sia finito. Ma non puoi mai dire che è finito. È come dipingere. Quand’è terminato un quadro?

Ti dico la verità. Ho ascoltato tanti gruppi postcore/postmetal, ma non mi sono mai innamorato degli Amenra… finché non li ho visti dal vivo al Roadburn (2013). Il live è stato la chiave per me. Come ti sei innamorato di loro?

Ho visto una loro live performance e sono rimasto scosso nel profondo. Non conoscevo la loro musica prima e mi ha ipnotizzato. La forza incredibile di questa band, combinata all’incredibile controllo della situazione. Il passo della loro energia, la tensione e il rilascio tra introspezione e potenza brutale, lo spettacolo sul palco che ti sopraffà. Mi ha lasciato con la curiosità di collaborare con loro. Li ho semplicemente contattati e ho chiesto loro se gli andava di lavorare assieme. Sono felice che abbiano accettato di farlo e questo illustra la loro apertura a tutti i tipi di musica.

In The Summoner sentiamo gli archi. La tua etichetta Miasmah evoca Ligeti come possibile riferimento. È utile e semplice, perché la maggior parte di noi può associare Ligeti a Kubrick, Kubrick e Ligeti alle colonne sonore e alla fine pensare a te. Che tipo di musica classica ti ha influenzato nel corso degli anni?

Sono musicalmente onnivoro. Ascolto tutto, perché sono convinto che in ogni genere ci sia qualcosa di buono da trovare. La musica classica è arrivata molto tardi da me. Ho iniziato verso i trenta. All’improvviso questo mondo enorme si è aperto a me e non sapevo da dove iniziare. Sono andato in biblioteca e ho affrontato la cosa alfabeticamente. Non sono mai andato oltre la lettera B… completamente travolto: Beethoven, Berlioz, Bartok, Berg, Bizet… Bach! Occorre capire che la musica popolare, nel modo in cui noi la conosciamo, è iniziata negli anni Trenta. Andando a spanne, abbiamo avuto ottantacinque anni di musica popolare, che si è evoluta dal blues urbano a Skrillex. Quello che io voglio dire è: la musica classica è con noi da più di millecinquecento anni. È un pozzo senza fondo e una volta che ti ci butti continui a scoprire nuove cose. È la tana del Bianconiglio… non finisce mai… c’è taaanta roba… Gustav Mahler, Erik Satie, Arvo Part, Henryk Gorecki, Marin Marais, Arcangelo Corelli, Frederic Chopin, Richard Wagner, Dmitri Shostakovich…

Il trailer dell’album che hai postato, quello del “dietro le quinte” di The Summoner, mi è davvero piaciuto. Vediamo violinisti, vestiti come nella quotidianità, usare i loro strumenti in un modo non convenzionale ed estremo. Poi vediamo gli Amenra, “i cattivi” vestiti solo di nero e tatuati, suonare la loro roba in una maniera molto naturale e rilassata (eccezion fatta forse per il loro cantante). Insomma… mai giudicare un libro dalla copertina?

Grazie. So che intendi. Mi sono sorpreso anche io almeno un paio di volte. Ho fatto un’audizione per selezionare i musicisti classici e a volte chi entrava mi faceva pensare cose del tipo “che ci fa questa persona qui? Sembra così fuori posto”, ma nel momento in cui iniziava a suonare il soffitto veniva giù. Sì, quindi mai giudicare un libro dalla copertina, nemmeno un disco dalla copertina e nemmeno una persona dal look.

La colonna sonora di “Under the Skin”, realizzata da Mica Levi, è stata uno dei dischi dell’anno per vari persone, critici e artisti. Scusa se ti chiedo di fare il mio lavoro: che ne pensi?

La amo. L’ho ascoltata ripetutamente. Sono felice in modo speciale di vedere che questo tipo di musica sta trovando la strada per le produzioni mainstream.

Uno dei protagonist musicali del 2015, col suo album per Sacred Bones, è Sua Maestà John Carpenter. Hai già sentito Lost Themes?

Sì, certo. Sono un grande fan dei suoi primi score, ma sono un po’ perplesso sul nuovo album. Forse perché non ha contesto (non c’è il film). Sembra che voglia essere un album “normale” e io ho paura che il materiale non sia proprio così forte da farcela…

Lavori con la compagnia teatrale Abattoir Fermé, ma ho letto che stai anche intraprendendo la strada delle colonne sonore per film. Come vanno le cose?

Il teatro è ancora una mia grande passione, così assieme ad Abattoir Fermé faccio almeno un paio di spettacoli ogni anno. Nel corso degli ultimi due anni mi sono inoltre concentrato su una possibile carriera nell’ambito della film music. L’anno scorso ho realizzato lo score di “Cooties”, una pellicola con Elijah Wood.

“Cooties” è stato proiettato al Sundance edizione 2014, dove è stato prelevato dalla Lionsgate e dalla Universal. Era la cosa migliore che potesse capitargli, ci ha dato una grossa spinta a farlo anche meglio. Ci hanno fornito un budget per ri-girare il finale e realizzarlo esattamente nel modo che desideravamo. Ovviamente questo ha implicato il rimando dell’uscita vera e propria nelle sale, tanto che ancora adesso non siamo fuori e non posso confermare date ufficiali, ma si dice che per l’estate di quest’anno sarà in giro. Non riesco ad aspettare, perché mi sono davvero preparato a fare molto di più in questo campo.

Ci sarà mai una versione live di The Summoner? Sembra una cosa difficile e dispendiosa…

Al momento non ci sono piani a riguardo, perché, sì, sarebbe molto costoso. Dodici archi (forse ne sarebbero necessari di più) da sommare agli Amenra… un ingegnere del suono… Sto pensando a come cercare dei finanziamenti, ma sarebbe comunque dura farcela. Ma non mi preoccupo. Sono molto felice che il disco sia fuori. A volte dobbiamo solo vedere il bicchiere mezzo pieno…

Kreng - foto di Nathalie Tabury