Transmissions Festival IX, 25/11/2016

Ravenna, Artificerie Almagià. Si ringrazia Chiara Viola Donati per le foto.

Duke Ellington diceva che esistono soltanto due generi di musica: quella bella e quella brutta. Questo sembra valere, fortunatamente , anche per Bruno Dorella, curatore della rassegna alla cui serata inaugurale ho partecipato con grande piacere. Cinque set nella stessa sera in un magnifico spazio di architettura industriale, con due palchi e un’organizzazione puntuale e perfetta, ma soprattutto una proposta molto varia e caratterizzata da scelte azzeccate, per qualità e (benvenutissima) eterogeneità.

Archiviati senza colpo ferire i locali e dimenticabili In Between (wave elettronica che non lascia grandi tracce di sé), ecco la prima epifania, anch’essa “fatta in casa”: Giovanni Lami. Un set mesmerico e calibratissimo per registratore a nastro e altre diavolerie, da vero e proprio alchimista sonoro: un’esplorazione dentro un microscopico universo elettroacustico, un viaggio nei sottomondi, un suono rugginoso e sfuggente, materico e foriero di un’ansia sottile e panica, che mi ha ricordato la folgorazione avuta anni fa assistendo ad uno spettacolo di Cellule d’Intervention Metamkine. Come William Basinski, ma meno lirico e più punk, Lami ci fa letteralmente vedere con gli occhi il suono di una fine: bravissimo.

Sul palco grande è poi il turno di Sarah Neufeld, violinista degli Arcade Fire ed attiva anche col marito e sassofonista monstre Colin Stetson, che anche qui si presenta in duo, stavolta con un batterista, per una persuasiva ipotesi di minimalismo in formato rock. Proprio l’approccio un po’ rigido del suo accompagnatore non convince a pieno, ma sono dettagli: il live è potente ed evocativo al tempo stesso e la ragazza è una musicista coi fiocchi. A un certo punto le orecchie colgono anche qualche inaspettato sapore di folklore latino-americano, e comunque tra l’estasi della ripetizione e un’urgenza tutta pop, la Neufeld, armata solamente della sua (bella) voce e di un violino effettato, suona come una variante normalizzata della divina Iva Bittovà (e del suo duo col batterista Pavel Fajt), e che questo suoni come un complimento, perché vuole esserlo.

Si tira un momento il fiato, e dopo quest’immersione ipnotica nei mondi celesti ecco che si torna (felicemente) e bruscamente a terra con Le Singe Blanc, trio francese due bassi e batteria: tosti e divertenti, senza mai essere scontati. La serata è piovosa, e le nuvole in cielo sembrano un po’ quelle che si addensarono, per non diradarsi mai, sopra Cleveland, Ohio, ai tempi grigi dei Pere Ubu. Un azzeccatissimo mix di devianza secondo la Bibbia di David Thomas, sburla anarchica (God is My Co-Pilot?), inni al fulmicotone à la No Means No, ed in generale un’idea aperta, anzi sfondata, di rock. Grandi davvero, anche perché a un certo punto mi hanno ricordato i dimenticati Giddy Motors, autori di un superdisco su Fat Cat secoli fa.

Dopo una tale abbuffata, che già sarebbe stata più che sufficiente, si chiude con i Jaga Jazzist, che mancavano dall’Italia da qualcosa come undici anni. Il batterista, che funge da frontman, lo ricorda al microfono, ed è palese la voglia di suonare a più non posso dell’ottetto norvegese. Personalmente, devo ammettere che durante il loro concerto ho raggiunto in alcuni momenti il nirvana: è roba suonata da musicisti sopraffini e fatta per spargere benessere, una specie di electro-jazz-rock cromato e pieno, che a volte magari diviene un filo ridondante, ma che quando imbrocca il giusto flusso fa veramente volare. Coordinata da Lars Horntveth, che suona chitarra, sax alto, tenore, clarinetto, basso, tabletop guitar e tastiere, la band è una macchina perfettamente funzionante: i ritmi sono squadrati e fanno battere il piedino, le melodie solari e spesso e volentieri cantabili, ma sono gli incastri e la stratificazione delle parti il vero bonus di questo progetto. Due chitarre, basso, vibrafono, tuba, voce, trombone, mille synth (nella postazione del tastierista ne conto cinque, ma anche gli altri ne hanno qualcuno, tra Moog, Prophet e così via, e i suoni sono sempre quelli giusti, scelti con gusto ed eleganza) compongono un quadro corale che a volte è un vero e proprio inno alla gioia (“Big City Music”).

Al crocevia tra electro, rock, prog (un certo nitore barocco nella composizione) e orchestrazione jazz, l’unica pecca del concerto è forse quella di esagerare: un po’ di enfasi di troppo a volte, e un bis che forse, per una volta, non era davvero necessario.

Resta comunque una serata – come dire – caleidoscopica, con quattro concerti di assoluto livello, in uno scenario che ha funto da fondale perfetto. Complimenti davvero ai ragazzi del Bronson e a Bruno Dorella: come si diceva una volta, un uomo con una visione.