In viaggio con i Messa

I Messa sono arrivati al terzo disco e, come da tradizione, abbiamo voluto fare il punto con loro affinché ci raccontassero le novità e cosa aspettarci dai nuovi brani. Questo il risultato di una lunga chiacchierata con la band per un viaggio tra passato e presente, Occidente e Oriente.

Ciao, finalmente si apre uno spiraglio per i live e voi avete un disco nuovo in uscita, credo non vediate l’ora di presentare i nuovi brani sul palco. Come avete vissuto questo periodo?

Rocco (batteria): Per nostra fortuna avevamo già in programma di fermare i concerti per concentrarci sulla scrittura del nuovo disco, quindi ci ha più che altro colpito il non poter fare prove assieme. Non avevamo live in programma e da quel punto di vista è andata bene, dall’altra parte è andata male perché abbiamo dovuto posticipare le sessioni in studio per cui, anziché uscire a fine 2021, il nuovo disco uscirà a marzo.

Avete anche una nuova label, la finlandese Svart, come sono andate le cose?

Rocco: Be’, alcuni di noi la conoscevano già da tempo come clienti ed è stato un bell’upgrade, senza nulla togliere ad Aural, perché Emi è una persona speciale con cui abbiamo avuto un ottimo rapporto e tuttora siamo in contatto, ci sentiamo ed è stato uno dei primi ad ascoltare in anteprima il disco. Con Svart ci stavamo annusando da un po’.

Sara (voce): Sì, ci siamo gravitati intorno per un po’, alla fine ci siamo trovati al momento giusto e siamo molto contenti anche perché siamo fan della loro proposta molto eterogenea, che è una caratteristica che ho sempre molto apprezzato anche da acquirente. Io sono di parte perché alcune delle uscite secondo me più fighe degli ultimi dieci anni sono su Svart, come il vinile di Henrik Palm, Poverty Metal del 2020, che è bellissimo, oppure Climax dei Beastmilk.

Del resto, trovo che le atmosfere del nuovo album siano decisamente adatte a Svart. Come è nato un lavoro così ricco ed eterogeneo, tanto che al suo interno si avvertono persino influenze orientali?

Alberto (chitarra, synth): L’idea di base di questo disco è proprio l’idea di viaggio, volevamo usare la nostra musica come mezzo di trasporto per evadere in un momento in cui eravamo tutti chiusi dentro casa. Inoltre, in ogni disco abbiamo sempre inserito un elemento di disturbo, come nel precedente il piano, per cui questa volta abbiamo voluto inserire degli strumenti acustici con delle caratteristiche specifiche, anche geografiche, che aiutassero a viaggiare. Abbiamo sempre fatto attenzione alla scaletta dei nostri dischi, ma questa volta abbiamo fatto sì che il susseguirsi dei brani avesse un senso per come sono inseriti, per questo ha più senso ascoltare il disco intero che estrapolarne dei pezzi interrompendo l’atmosfera generale.

Rocco: … anche se, comunque, non si tratta di un concept album. L’unico concept presente è il fare un viaggio.

Sara: Diciamo che è un fil rouge un po’ come avveniva anche negli altri dischi, l’avere un filo comune è un po’ un nostro modo di approcciarci alle cose.

Quindi i brani sono già stati composti pensando a come avrebbe suonato l’insieme?

Rocco: Possiamo dire che i brani sono nati a sé ma sono poi stati direzionati in modo tale che alla fine risultasse qualcosa di fluido e non contrastante al suo interno. Almeno dal mio punto di vista.

Alberto: Sì, diciamo che la tematica e l’atmosfera erano state stabilite dall’inizio, per cui c’erano dei paletti ma poi ciascun brano ha una storia a sé che si conclude, non ci sono episodi che tornano nel disco. C’era da parte mia l’idea di temi che tornassero ma alla fine non l’abbiamo più seguita.

Per il disco precedente molti avevano parlato di jazz, accennato a Coltrane per le atmosfere. Quali sono gli elementi di disturbo che avvertite in questo disco oltre alla parte etnica? Quali altri ingredienti avete voluto inserire?

Alberto: Una cosa cui poniamo sempre attenzione sono le dinamiche: nel primo e nel secondo lavoro abbiamo giocato molto sulle dinamiche tra parti forti e momenti più soft. Abbiamo in parte mantenuto questo aspetto anche nel nuovo, ma allo stesso tempo abbiamo cercato anche soluzioni differenti. Si può anche parlare di contrasti tra stili diversi, come un assolo jazz abbastanza sovraimposto o parti di blast black metal che contrastano con il resto che è più doom e rilassato.

Sara: Se ad esempio metto insieme due brani come “Leffotrak” e “Orphalese” trovo due campi semantici totalmente all’opposto tra loro.

Alberto: C’è poi il contrasto sempre presente tra la voce pulita ed elegante di Sara e noi che distruggiamo tutto e facciamo casino sotto. (risate, ndr)

In realtà mi sembra che voi abbiate lavorato di fino per gli arrangiamenti, c’è un bel lavoro pure nella scrittura, seppure allo stesso tempo il tutto suona molto scorrevole e non pesante o ostico.

Rocco: Grazie, questo è un gran complimento, perché non è sempre semplice trovare la quadra finale per i brani e ha occupato più di qualche prova.

A proposito, che effetto fa avere un disco pronto e dover aspettare così tanto per avere un feedback esterno?

Sara: Come diceva Rocco, abbiamo dovuto posticipare le registrazioni per i motivi che possiamo immaginare. Sembrava un po’ di essere bloccati in un momento statico perché il disco era pronto e avremmo avuto voglia di registrarlo e rendere tangibile questo sforzo di testa, sangue e tutte le energie fisiche, mentali e creative che comporta, per cui in certi momenti è stato frustrante non poter fare il passo avanti. Dall’altra parte, però, abbiamo avuto anche qualche risvolto positivo da questa cosa come ad esempio il pezzo che abbiamo scelto come secondo singolo, “Dark Horse”, che è nato proprio nel periodo di pausa prima di entrare in studio. Per cui alla fine questo ci ha permesso di avere un brano in più.

Ora sta finalmente per uscire e, se non cambia la situazione, potrete anche presentarlo dal vivo. Avete già pensato se presentarlo tutto o alternare con brani dei precedenti, insomma che scaletta portare in giro?

Sara: Sì, sì, ci stiamo già scannando alle prove da qualche settimana sull’argomento.

Rocco: Abbiamo il release party il diciotto marzo al CSO Pedro qui a Padova, quindi in casa, ma abbiamo optato per più scalette differenti visto che da aprile saremo in tour e quindi ne avremo una per il tour e altre per eventi differenti come può essere ad esempio il Roadburn. Quindi non è semplice riuscire a presentare il disco nuovo e allo stesso tempo far sentire i pezzi dei primi due, quelli più significativi o che la gente si aspetta perché è loro più affezionata. Bisogna trovare una quadra dove tutto fili bene e arrivare sul palco dove tutto è calibrato e funziona bene. Speriamo di fare del nostro meglio.

A proposito di live, vi ponete il problema di come proporre il disco dal vivo anche per gli strumenti particolari? Avete una versione più diretta dei pezzi per i live o cercherete di riproporre una versione quanto più simile allo studio?

Alberto: La questione è proprio questa, faremo dei concerti più fedeli al disco perché magari avremo anche ospiti che ci daranno una mano. Anche se poi nel disco abbiamo suonato quasi tutto noi a parte il duduk, suonato da Giorgio Trombino (Bottomless, Assumption e molto altro) che ci ha dato una mano. Altri invece saranno più essenziali, diciamo rock.

Rocco: Forse, a nostro vantaggio, c’è da dire che anche se i pezzi erano già stati creati con la prospettiva di aggiungere questi elementi, comunque in saletta li abbiamo sempre provati alla vecchia maniera noi quattro e riusciamo a farli girare comunque anche senza le parti di disturbo.

Sara: Trattandosi di brani che sono comunque stati concepiti e suonati in sala prove dove siamo solamente noi quattro, il quadrato è quello e gli strumenti sono quelli. Se, poi, in studio vai ad intervenire con dei layer acustici, comunque la struttura e l’arrangiamento del brano funzionano da soli.

Quanto credi vi abbia aiutato il venire da una scena abituata a suoni più crudi per sviluppare un suono più complesso in un secondo momento?

Alberto: Non credo che ci abbiamo mai pensato, piuttosto quando abbiamo portato in giro il secondo disco che necessitava del piano è stato bello ma abbiamo capito che l’avere un album che abbisognava di quello strumento comportava anche un discreto sforzo (non solo fisico), anche perché richiede un certo tipo di predisposizione del pubblico che magari a volte vuole un set più rock o del locale. Per cui abbiamo deciso che volevamo un qualcosa di più semplice e tra virgolette più rock, anche se poi ci siamo complicati la vita con gli strumenti acustici, ma questo è un altro discorso. L’intenzione originale era di togliere il piano e fare qualcosa di più diretto.

Credete che il vostro pubblico sia cambiato nel tempo, ad esempio attirando persone che precedentemente non avevano mai ascoltato metal?

Alberto: Ricordo che, quando abbiamo aggiunto il piano, molte persone sono venute da me dicendomi che non ascoltavano metal ma apprezzavano il nostro disco.

Rocco: C’è da dire che mentre il primo album era più legato al genere tradizionale, i primi live erano più piccoli e all’interno della scena, con l’uscita del secondo sono iniziati i primi festival e il pubblico si è ampliato. Ricordo che con Feast For Water abbiamo suonato al circolo Nadir qui a Padova, dove solitamente suonano jazz e cose non legate al metal, per cui chi non ci conosceva ma sapeva che in quel locale trovava proposte di suo gradimento magari ci ha visto per caso, si è trovato coinvolto ed ha apprezzato anche la nostra musica. Per cui per forza di cose il bacino di utenza si è ampliato. Poi, lo zoccolo duro con la birra in mano c’è sempre, per fortuna.

Sara: Una cosa che a me piace molto del pubblico che troviamo noi di solito è che rappresenta un’audience disparatissima, ci sono persone di qualsiasi tipo, c’è il punk, quello che ascolta metal (andando per etichette), quello che ascolta speed metal ma si gasa, persone che magari invece non ascoltano metal o ascoltano solo roba anni Settanta. E questo lo apprezzo molto, perché non è un pubblico settario.

Come musicisti, visto che Feast For Water è stato molto apprezzato, avete sentito la pressione del terzo disco?

Sara: Secondo me la pressione maggiore ce la mettiamo noi cercando di migliorare e fare sempre qualcosa di meglio di quanto fatto prima. Quando finisci di fare un disco è ovvio che ti chiedi “per il prossimo cosa faccio?”. Poi, però, alla fine secondo me la strada si svela anche in base a quanto ti capita attorno. È come iniziare a percorrere un sentiero e pian piano capisci sempre più dove ti porta.

I testi sono legati alla musica o nascono da soli e poi vengono uniti ai brani?

Sara: In realtà non c’è un modus operandi. Io scrivo molto, specie testi, poesie (anche se definirle poesie mi sembra esagerato), insomma scrivo spesso e tanto perché mi è sempre piaciuto. Certi testi o magari certe immagini che ho in mente nascono prima dei brani e sento che potrebbe diventare un testo anche se non esiste ancora la canzone adatta. Poi, ovviamente, ci sono dei cambi in corsa perché siamo sempre insieme, anzi questa è una dimensione per noi necessaria. A volte mi è capitato di scrivere un testo mentre i ragazzi stavano buttando giù un brano in sala prove, senza avere nessuna idea o nessun paletto su ciò di cui parlare, lasciandomi trasportare solo dalla musica mentre altre volte ho scritto testi che non ho mai utilizzato. Non c’è un modus operandi ben definito, ogni canzone fa storia a sé.

Quindi state molto insieme, non siete il classico gruppo in cui ciascuno compone da solo e poi porta il materiale in sala prove?

Sara: Da questo punto di vista siamo una band molto vintage, per quanto riguarda il comporre e suonare musica. Chiaro che, comunque, nel caso di Close abbiamo dovuto utilizzare una maniera di fare un po’ diversa, per cui alcuni riff sono stati purtroppo creati stando separati, anche se come c’era possibilità scappavamo tutti in sala prove, perché comunque creare una base solida per un brano è davvero importante. È come costruire una casa, getti le fondamenta e poi viene tutto il resto, come la voce che arriva sempre dopo.

Siete una band sempre presa dalla ricerca dei suoni e degli incastri giusti o è un aspetto che affrontate una volta in studio?

Alberto: In realtà il suono e l’incastro giusto devono ancora arrivare, per cui la ricerca non è mai finita in questo senso. Personalmente, credo ci sia una fase per tutto, c’è una fase per trovare il suono ma se continua per troppo tempo poi torno indietro alle mie origini e alle cose che so funzionare, perché voglio che il mio pensiero resti focalizzato su cosa suonare e non sul resto. Sicuramente prima di entrare in studio abbiamo pensato al sound che volevamo ottenere, ma come dice il fonico che ci ha registrato “devono ancora inventare il microfono con le orecchie”, per cui bisogna trovare il suono più vicino a quello che avevi in testa e quel suono non è mai precisamente quello che avevi preventivato. Stiamo ancora cercando la soluzione perfetta, anche perché con il blocco dei live ci sono più variabili in gioco. Di solito capita che magari compri qualche pedale o strumento e la provi live, mentre in questo periodo non si è potuto fare per cui sarà un po’ una sorpresa anche per noi.

Parlatemi dell’artwork, come è nato?

Sara: La copertina è nata mentre stavamo facendo una ricerca di materiale visivo che potesse rappresentare bene l’idea che avevamo del disco e su come lo volevamo vedere rappresentato. Abbiamo trovato questa fotografia di E. M. Schutz scattata in un arco di tempo che va dal 1930 al 1940 in Algeria. Ci siamo subito innamorati di questa foto pensando che fosse perfetta per descrivere quello che volevamo rappresentare con l’album. È stato un fulmine che ci ha colpito per cui abbiamo deciso di utilizzarla.

Rocco: Aveva tutti gli elementi che cercavamo, l’esotico, la movenza dell’headbanging, racchiudeva bene quello che ci sarebbe stato nel disco.

Sara: Esatto, poi, sono tre donne e questo è il terzo disco per cui c’è anche un richiamo simbolico.

Esiste un legame tra i vari artwork dei dischi, magari una vostra firma a livello di immagine o ogni grafica fa storia a sé?

Marco (basso, chitarra): Sostanzialmente io e Sara organizziamo quella che è l’immagine coordinata di ogni album che ha una sua palette di colori che decidiamo. Di solito ci sono di base il nero e bianco che usiamo ogni volta e poi c’è un colore che viene utilizzato a seconda del significato del disco. Per il primo era il rosso, per il secondo era un color rame, arancione come la ruggine, perché il disco aveva questo concept legato all’acqua, mentre per il nuovo è un pattern oro, perché ha delle sonorità nordafricane e mediorientali. Ci siamo rifatti alla cultura dell’intarsio e volevamo dare un senso di preziosità.

A proposito di suoni che vi colpiscono, come ascoltatori cosa vi prende in questo periodo? Avete ancora tempo per ascoltare musica?

Alberto: Di recente ho ascoltato Sven Wunder, un compositore svedese di colonne sonore che ha realizzato vari dischi costruiti come concept album. Mi ha molto colpito Eastern Flowers, che raccoglie influenze mediorientali e le miscela con jazz e funk anni Settanta, con ciascun brano che prende il nome da un fiore e ha questo forte legame con le immagini. Mi è stato ovviamente di ispirazione anche per il nostro nuovo album. Poi magari pochi minuti fa ho ascoltato 50 Cent.

Sara: Wow, questo me lo aspettavo più da Rocco che da Alberto, credevo fosse lui quello che ascoltava hip hop.

Rocco: Sì, ho sempre avuto una parte hip hop, N.W.A. e tutta la vecchia scena mi affascinano da un po’ di anni a questa parte. Infatti, ultimamente divido gli ascolti tra cose nuove della scena black metal come i Djevel di Bard Faust, il cui ultimo lavoro è davvero figo e cose vecchie, tipo “Still DRE”, passo da un estremo all’altro.

Per i live, invece, quale è la vostra situazione preferita, dove vi trovate più a vostro agio? Preferite line-up con gruppi dello stesso genere, che so doom o metal, oppure situazioni varie?

Sara: Io apprezzo entrambe, ciascuna per dei motivi specifici. Ad esempio, in un festival enorme tipo Hellfest la situazione è molto emozionante, c’è moltissima gente e si respira un’atmosfera speciale, allo stesso tempo però mi piacciono live in posti più piccoli, più intimi in cui puoi avere un contatto più personale con il pubblico cui ti ritrovi più vicino.

Marco: A me personalmente non piacciono i live con un palco troppo grande, non è tanto una questione di gente che per me più è meglio è, ma di palchi in cui stai molto distante. Li trovo dispersivi. Preferisco stare più vicini, anche perché sono quello che sbaglia di più (risate, ndr). Più si è intimi sul palco meglio è.

Alberto: Credo che preferiamo tutti i festival più vari, dove possiamo ascoltare più proposte diverse. Penso ad esempio al Devilstone in Lituania, è stato uno dei festival con la proposta più varia che abbiamo mai visto, da band elettroniche ai Sodom, ai Kikagaku Moyo dal Giappone.

Sara: Esatto, in una giornata abbiamo visto Sodom, She Past Away, Kikagaku Moyo, è stato una bomba perché c’erano generi disparatissimi. È bello ritrovarsi in una situazione dove c’è una differenza così abissale di generi, secondo me è molto interessante.

Rocco: Devi essere davvero un fan per assistere ad un festival solo stoner e doom di tre giorni, o sei veramente appassionato al genere o dopo un po’ diventa pesante. Per una sola serata magari è diverso.

Come band, quanto spazio occupa il creare nuova musica e il suonare dal vivo? Quale delle due cose preferite?

Marco: Credo ciascuno di noi abbia la sua sensibilità, io personalmente adoro comporre i dischi e perdermi a provare i pezzi, andare in studio. Andare in studio è come entrare in un limbo, stai lì dentro isolato dieci giorni, fuori non succede niente perché in quel momento esiste solo quello ed è un’esperienza fantastica. In tour un po’ meno.

Sara: A me, invece, andare in tour piace molto nonostante comporti delle challenge. Per me è fondamentale portare in giro il disco una volta che il processo di crearlo è finito. Mi piace sia stare là, a sbattere la testa per creare cose nuove, però mi piace anche portarle in giro perché credo che sia un altro modo per dare valore a ciò che hai fatto come Messa.

Avete notato differenze di organizzazione e pubblico andando in tour tra Italia e estero?

Rocco: Dipende molto da dove si va, sia con Messa che con una band precedente con cui siamo andati in tour in Germania ho notato che lì anche negli squat i tempi sono molto più rapidi e sono più organizzati. Questo senza nulla togliere a situazioni molto professionali anche qui in Italia, più che altro parlo di situazioni più piccole. A volte ti trovi di fronte ad un fonico arrabattato che ti fa attendere anche due ore per fare i suoni di batteria, una cosa che all’estero è capitata meno di frequente.

Marco: Comunque direi che Olanda e Germania di base stanno sopra a tutti, in qualsiasi posto tu vai sono più attrezzati.

Sara: Diciamo che più che altro sono proprio loro super-operativi e questo si riflette anche nell’organizzare concerti e nel mettere su determinate situazioni, per cui come diceva Rocco anche nello squat sono tutti molto professionali e sul pezzo.

Alberto: Un’altra differenza che ho visto è che la gente fa meno casino e ascolta.

Marco: Sì, da noi è più conviviale, ci si becca e si sta sotto il palco ed è normale chiacchierare perché è convivialità, siamo anche noi i primi a farlo. Fuori invece si sta zitti, non chiacchiera nessuno. È proprio un approccio diverso.

Rocco: Sì, anche dopo il concerto, qui magari finito il concerto spesso e volentieri viene qualcuno che magari non compra neanche il disco ma si beve una birra e fa due chiacchiere. All’estero succede meno. Questo ha i suoi pro e i suoi contro, a volte la parte caciarona può risultare più divertente: prendi la serata del Frantic, poche volte ci siamo divertiti così tanto, perché comunque finito il festival ci siamo ritrovati con le altre band a fare seratona. Magari da un’altra parte quando il locale si svuota si parte e si va a letto.

All’estero dove avete riscontrato più interesse per la vostra proposta, dove siete stati accolti meglio?

Rocco: Personalmente penso di aver visto in Germania e Polonia la gente presa meglio, anche in Olanda ma probabilmente erano tedeschi andati su (risate, ndr). In media in questi due paesi ho riscontrato che la gente conosceva i pezzi e li cantava sotto al palco, cosa che ha fatto strano a me e immagino l’effetto che abbia fatto a Sara. Comunque, direi buona comunque.

Credete valga ancora l’idea che un gruppo italiano sia in qualche modo penalizzato rispetto ad uno estero o, con internet, pensate che la situazione si sia livellata?

Rocco: Ci sono difficoltà in più perché qui quello che facciamo non è ancora riconosciuto come un lavoro, quindi questo è il vero limite perché per il resto vedo ovunque ragazzi che suonano e sputano sangue per quello che fanno esattamente come noi anche se magari hanno qualche agevolazione in più.

Alberto: Sì, in più come dicevo l’altro giorno, la band italiana che fa doom ha un che di esotico.

Marco: Non è così difficile adesso andar fuori, perché finora tutti i tour che abbiamo fatto a parte quello negli Stati Uniti li abbiamo fatti nella Comunità Europea, per cui sostanzialmente da Europeo mi sento comunque a casa. Quindi, se vado in Germania, in Francia o Polonia è estero però è difficile sentirsi davvero all’estero come negli Stati Uniti o come sarebbe andare in Australia. Poi, c’è il fatto che degli italiani che cantano in inglese e fanno rock fa ancora un po’ specie, sarà forse per quello che nel mondo mainstream hanno avuto così tanto successo i Maneskin. Perché è un gruppo che personalmente non apprezzo ma fa rock super-glamour, canta benissimo in inglese con un accento incredibile e si è proposto all’estero funzionando perché credibile. Credo ci sia un pregiudizio forse positivo, perché il fatto che degli italiani facciano come noi doom suona un po’ bizzarro e quindi puoi vendertelo. Pensa ai turchi She Past Away che sono molto popolari e suonano davvero forte: nonostante la Turchia non sia il terzo mondo e sappiamo essere un paese molto sviluppato, fa comunque strano vedere un gruppo turco che fa new wave.

Cosa finisce e va a collidere sulla vostra musica? Parlo di libri, film, attualità e altro…

Sara: Direi qualsiasi cosa abbia un impatto su di noi, qualsiasi cosa ci tocchi in qualche maniera, può essere una cosa che capita a noi o ad una persona che magari consociamo e cui vogliamo bene, può essere la lettura di un libro o la visione di un film. Diciamo che le fonti di quello che chiamiamo ispirazione possono essere disparatissime. Lo stesso vale anche per i miei testi, non è mai una cosa che va su un unico binario, non c’è un bacino unico o una fonte cui ci abbeveriamo. Mi capita di scrivere testi dopo aver fatto un sogno o magari letto un libro.

Parli dei testi con gli altri o sono una tua esclusiva?

Sara: Diciamo che fino ad un certo livello sono abbastanza un’esclusiva: mentre ci sto lavorando preferisco tenerli per me visto che non so se verranno utilizzati o che forma prenderanno. Quando, poi, un pezzo è in fase molto embrionale tendo comunque a farli leggere agli altri e spiegarli per far loro vedere cosa c’è dietro, quale è il sottobosco, soprattutto una volta che stiamo discutendo dell’arrangiamento e di dove una linea vocale va posta. Questo anche perché faccio molta attenzione a come suona, perché ci sono alcune vocali che suonano meglio di altre se devi farle in una certa maniera e non parlo solo di tecnica ma anche di feeling, per cui è normale doverci metter mano.

Li crei pensando in inglese o in italiano?

Mi capita di pensare sia in italiano che in inglese, anche se non ho mai scritto testi per Messa in italiano, perché sarebbe una sfida enorme. Sentirei un peso inimmaginabile, l’eredità che personaggi come De André ti lasciano in quanto italiano e cantautore ti porta a pensare di non provarci neanche. A volte penso in italiano ma non li scrivo mai in italiano per poi tradurli o meglio non mi è mai capitato.

Rispetto alle parti strumentali, invece, quanta è l’interazione? Ciascuno cura le sue parti o vi confrontate?

Sara: Tantissima, a volte ci scanniamo ma è normale, perché è un confronto che ti porta da qualche parte piuttosto che ciascuno si faccia i cazzi propri e non esprima mai un’opinione. Per quanto a volte sia comunque una cosa forte e ricevere critiche non sia comunque la cosa più bella del mondo, l’importante secondo me è pensare sempre dove ti porta. Molto spesso da questi contrasti di idee nascono delle esperienze molto interessanti che, specialmente nel nostro caso visto che siamo quattro persone molto diverse, permettono di uscire dal cortile.

Nonostante queste personalità ben definite e gusti molto vari, c’è qualcosa che accomuna tutti?

Sara: È ovvio che se vuoi fare un gruppo rock insieme devi avere dei gusti in comune altrimenti sarebbe impossibile, abbiamo molti gusti simili per quanto riguarda la musica, film, letture, posizioni su determinati argomenti, poi ciascuno ha dei generi che segue di più. Se faccio ascoltare ad Alberto i Wretched dopo due pezzi dice basta mentre io mi ascolto tutto, credo sia normale. Direi che in comune abbiamo i Led Zeppelin, visto che siamo cresciuti tutti a pane e Zeppelin. Anche gli Om mettono d’accordo un po’ tutti.

Torniamo al disco, in che versioni esce?

Sara: Allora, uscirà in doppio vinile gatefold nero, doppio vinile gatefold oro e poi ci sarà in versione digibook cd. Tutti e tre i formati avranno un booklet speciale, con delle foto fatte da Federico Floriani che ha passato moltissime ore in studio con noi e ha documentato con macchine fotografiche a 35mm anche in medio formato il processo di registrazione.  Nel cd ci sarà l’inserto del digibook, mentre nel vinile ci sarà un inserto grande 12” con le foto di Federico stampate in pantone dorato come tutto il resto.

Ci saranno i testi nel booklet o preferite non condividerli?

Sara: Si, saranno presenti insieme alle foto da Federico. Se decido di parlare di qualcosa, svelo quello che c’è dentro la mia testa e lo canto non ho problemi a mostrarlo al all’universo. Poi, tutto quello che scrivo io è molto personale e chi mi conosce bene riesce a vedere elementi di ciò che sono in quello che scrivo. Noi abbiamo sempre deciso di metterli, perché i testi sono una parte fondamentale di un album

Direi che abbiamo parlato un po’ di tutto, vi ringrazio e vi lascio spazio per le ultime informazioni.

Marco: Lascio un po’ di consigli per gli acquisti, visto che è partito un give-away con cui sostanzialmente regaliamo i tre LP, delle t-shirt long-sleeve, un pacchettino di incenso che utilizziamo nei live, un poster, toppe e quant’altro.

Per i dettagli, le prossime date e quant’altro potete consultare le pagine social della band: Facebook, Instagram, Bandcamp.

Queste le prossime date live:

VEN, 18 MAR ALLE ORE 20:00  – Cso Pedro · Padova

SAB, 19 MAR ALLE ORE 21:00 – Freakout Club – Bologna

VEN, 1 APR ALLE ORE 21:00 – Bronson Club, Ravenna