TAKUYA KURODA, 20/3/2024

Losanna, Jumeaux Jazz Club.

Nel pensiero comune la fusion, nel senso dell’evoluzione da ultima specie del jazz-rock anni Settanta, pare non interessare più alcuno. La curiosità ci ha però spinti a verificare con mano quanto potesse valere in soldoni l’indubbia verve discografica di Takuya Kuroda, che del genere è senz’altro uno dei nuovi rappresentanti dai maggiori ascolti. Siamo stati dunque a un suo live pensando di trovare un locale mezzo vuoto, con la metà piena costituita di signori magari un po’ in là con l’età. Abbiamo invece constatato che lo Jumeaux era ricolmo di paganti di età media attorno ai trent’anni, forse meno, e, altra sorpresa, con una buona percentuale al femminile. Una clientela giovane e internazionale (tra gli astanti predominavano i discorsi anglofoni), preparata a quanto avrebbe ascoltato, che aveva ben chiaro il motivo per cui si era comprata il biglietto.

Presentatosi con un quintetto come lui domiciliato a New York, il trombettista giapponese si è perciò ritrovato a giocare quasi in casa ed ha attaccato senza indugi, proponendo subito l’inedita “Off To Space”, che a suo dire sarà presente nel nuovo album previsto per fine anno. Sin dalle prime battute il messaggio è apparso chiaro: ritmica trasfigurata in chiave hip hop sulla quale il leader e Craig Hill (sax tenore) esponevano all’unisono il tema, una melodia di pronta memorizzazione che rinviava immediatamente ai fasti di un be bop neppure troppo aggiornato. A seguire, estesi momenti in solo dei due fiati e successivamente spazio anche al fedele pianista e tastierista Takahiro Izumikawa, che quando agisce al Fender Rhodes è bravo a rinverdire atmosfere elettriche d’epoca, in bilico fra Chick Corea e Jan Hammer.

Uno schema ripetuto – con qualche variabile e con successo, a giudicare dagli applausi – lungo l’intero concerto dall’abile Kuroda, intelligente nel trovare la formula equilibrata capace di tenere insieme passato jazz e contemporaneità black. Così “ABC” ha puntato la prua verso sensazioni afro-beat dissimulate a dovere, mentre in altre tracce sono emerse venature nu-soul dovute a un allentamento di tensione (“Midnight Crisp”), oppure si è speculato su contrazioni funk e insieme downtempo (“Rising Son”). In tale contesto il duo ritmico formato da Reunben Cainer (basso) e David Frazier (batteria) ha lavorato soprattutto di forza, senza troppa fantasia, ma è stato abbastanza evidente che rispondesse a una precisa richiesta del leader, conscio del fatto che dal vivo, inevitabilmente, le raffinatezze da arrangiamento che segnano i suoi dischi in studio abbiano tendenza a svanire.

Ancora altre due vibranti novità di prossima pubblicazione, “Car 16158” – preceduta dal racconto di come il tour manager prenoti invariabilmente gli ultimi posti sull’ultima carrozza e a Kuroda tocchi sempre fare le corse per non perdere il treno (“però che bello quando infine ti sprofondi nel sedile e puff ti puoi stappare una birra e rilassarti qualche ora”) – e la dura miscela di “No More Time Out”, e poi è stata già quasi l’ora della fine e del bis per uno show risolto nello spazio di appena sette brani. D’altro canto ciò è la conseguenza del puntare su lunghi momenti solistici, a tratti esageratamente attorcigliati su sé stessi, quando non indirizzati a finire in un vicolo cieco. Se c’è un appunto da fare a Kuroda è proprio questo, perché lui non è né Donald Byrd né Roy Hargrove (per quanto si posizioni sulla loro linea stilistica), Craig Hill ricorda solo da lontano Hank Mobley o Wayne Shorter e una maggiore stringatezza in taluni momenti avrebbe giovato non poco.