SIMONE DI BENEDETTO, Depth Sounding

SIMONE DI BENEDETTO, Depth Sounding

Fluvine di Fernando Grillo (Cramps, 1976, poi ripubblicato dalla Ampersand nel 2000), Music For Two Basses di Barre Philipps e Dave Holland (ECM, 1971), le esplorazioni al buio di Joëlle Léandre o di William Parker: questi alcuni dei riferimenti che emergono all’ascolto di questo ottimo Depth Sounding, esordio solista per il giovane (classe 1989) contrabbassista modenese Simone Di Benedetto.

Suoni di caverne, di forme di vita che brancolano nel buio, stalattiti, stalagmiti, concrezioni dai tempi geologici, squarci minimi di luce, un clima assorto, teso, rarefatto; si avanza per tentativi, in una penombra densa e compatta, sospesi – come titolava un magnetico disco di Stars Of The Lid – tra l’attrazione gravitazionale e il desiderio di una vita acquatica. Avanzare nelle cavità più remote, sparire nelle viscere dello strumento, della terra, dare le spalle al mondo delle cose, dei rumori, degli affanni, della luce oppure riemergere alle voci, alla luce? Pare sospesa tra due forze contrapposte questa raccolta di sedici haiku per solo contrabbasso, tra fantasmi d’acqua, di fuoco, di roccia, radici, stati di incoscienza, sogni, incubi, satori, sentori di inizio, di fine. Con la perseveranza della goccia che scava nei secoli la pietra, Di Benedetto, nel buio delle intenzioni e delle strutture (composizione e improvvisazione convivono in modo paritario in questo lavoro), scandaglia differenti tipi di profondità, che vengono suonate attraverso il contrabbasso, concepito come una nave immaginaria. Si salpa, dunque, verso scabri paesaggi artici, rompendo ghiacci interiori e millenari, o verso le inaspettate radure dell’anima, dove non crescono parole, ma solo licheni, muschi, nude, minime forme di vita sonora a testimoniare una presenza nel vento boreale che impedisce ad altro di prosperare. O si affonda, come il sottomarino nucleare Kursk nel mare di Barents: il suono di un’ultima preghiera dell’umanità, una sorta di mantra laico, o una versione alternativa delle monumentali, fragilissime fioriture per violoncello solo del geniale Ernst Reijseger, autore di tante magnifiche colonne sonore per Werner Herzog (in questo caso mi è venuto in mente il film “Cave of Forgotten Dreams”, visto il mood speleologico della musica).

Il fascino del disadorno e una poetica dell'(apparentemente) immobile abitano i 37 minuti del disco, pubblicato dalla sempre attenta Aut Records: un ottimo inizio per un musicista che siamo curiosi di testare dal vivo e che  d’ora in poi toccherà seguire con attenzione.