SCANNER, The Great Crater

Vive di vita propria il nuovo disco di Robin Rimbaud, che si intitola The Great Crater ed è appena uscito su Glacial Movements. Il che è un vantaggio, considerando il carattere difficile, rizomatico, di una discografia fittissima e in continuo aggiornamento, tra l’altro piena di collaborazioni eccellenti. Un vantaggio, sì, quantomeno per coloro che non hanno ancora avuto modo di approcciare l’opera di quest’artista multimediale inglese, attivo come Scanner da più di venticinque anni, perché è oggettivamente impossibile definire quale sia il campo d’azione in cui Rimbaud si muove.

Scanner non fa solo dischi, o meglio: non fa semplicemente dischi. La maggior parte di questi, specie a partire dai primi anni del Duemila, altro non documenta che lavori fatti su commissione. Dopo decine o forse centinaia di sonorizzazioni per mostre, installazioni artistiche, cinema o televisione, e incursioni nell’ambito della danza, del teatro e dell’architettura, oggi Scanner può vantare un profilo ben istituzionalizzato. E se nella vostra camera da letto avete una sveglia Philips modello Wake-up Light, allora ci sono buone probabilità che sia lui a darvi il buongiorno, dato che di quella è il sound designer. In un’altra occasione, poi, ha avuto modo di sonorizzare l’obitorio di un ospedale di Parigi, così da attutire – per quanto possibile – il momento tragico in cui le persone identificano la salma di un proprio caro.

Il quadro si complica se, come d’obbligo, ricordiamo che l’intera vicenda artistica di Rimbaud si situa all’indomani delle prime registrazioni effettuate con un ricevitore scanner (da qui il nome d’arte), che gli permetteva di intercettare e catturare trasmissioni radio e telefoniche. Lui, per dirla un po’ alla Burroughs, è un agente del suono, come una spia che si muove in segreto tra le altrui conversazioni: agonie private, intime confessoni, addii vigliaccamente consegnati via telefono, gente appesa a una cornetta. Ma anche momenti più distesi e di rilassata quotidianità, oltre che pubbliche disquisizioni. Stralci quasi sempre decifrabili che Scanner, dopo una prima fase di voyeuristica archiviazione, dispone tra i suoni trovati, i sample disturbanti e i meno frequenti elementi ritmici alla base dei suoi brani (i primi due album omonimi o il foucaultiano Mass Observation, ad esempio), dosandone con cura la quantità. Dosando, appunto, visto che almeno per buona parte degli anni Novanta Rimbaud è anche avvicinabile all’ambigua definizione di Intelligent Dance Music, pur tuttavia restando in bilico tra i primi Autechre (ma al netto degli algoritmi) e una zona grigia presidiata da etichette come Sub Rosa, Mille Plateaux, Mego, Ash International. Mentre il suo disco forse più noto, Delivery, esce nel 1997 per Earache, affianco agli Entombed e ai Napalm Death.

Col passare degli anni alla figura di Scanner sono stati affibiati appellativi cuoriosi e ficcanti, come quello di “terrorista telefonico”. E nel lontano 2000 la rivista inglese The Wire gli ha dedicato una copertina prendendo in prestito quello che è il nocciolo della riflessione mediologica del sociologo canadese Marshall McLuhan, “The medium is the message”.  Altri hanno invece individuato un rimando al labile confine che separa la dimensione pubblica da quella privata; un tema che Scanner calava già allora nel contesto oggi dominante, quello di Internet e delle nuove ICT, sfociando poi in un’indagine sui “rumori nascosti della moderna metropoli”.

The Great Crater

The Great Crater, dicevamo, è un disco diverso. Del resto esce su Glacial Movements, un’etichetta su cui approdi se effettivamente dimostri determinate caratteristiche e propensioni. A spiegarcelo fu lo stesso Alessandro Tedeschi, curatore della label, in un’intervista che risale al gennaio 2013: la mission è quella di proporre “lavori (un po’ è come se li commissionasse) che si avvicinino alla sua idea, quella di un preciso paesaggio fisico, sonoro e mentale” che corrisponde ai due poli del nostro pianeta. E mai in modo vago o astratto: The Great Crater trae infatti spunto dalla scoperta – avvenuta nel 2014 per mano di un gruppo di scienziati in volo sulle distese antartiche – di una strana formazione circolare del diametro di 2 km. Il disco è qui che ci conduce, in questa depressione profonda tre metri e nei laghi che furono rinvenuti al di sotto della sua superfice. Dieci brani per un’unica, lunga immersione tra fondali dub e anfratti di silenzio, squarci di luce e scurissimi strapiombi: profondità maestose per nessuna presenza e nessuna natura, come nel recente Rubisco di Donato Epiro, che citiamo volutamente (provate ad ascoltarli assieme…). Sul secondo brano, imperiosa e abnorme, svetta l’ombra delle recenti vicende di casa Subtext (FIS, Paul Jebanasam, Roly Porter), mentre gli archi lamentevoli, stirati, di “Lakes Under Lakes” e della conclusiva “Moving Forwards” ricordano Landings, il capolavoro di Richard Skelton. L’influenza di Thomas Köner e di altri isolazionisti simili è inevitabile se parliamo di Artide o Antartide, ma qui è presente soltanto sullo sfondo: Scanner ha una sua storia, lo si intuisce da come stuzzica la nostra immaginazione e ci avvicina al tema con impressionante fedeltà; e soprattutto da come solletica il piacere dell’ascolto grazie a brevi cellule melodiche che sono perle luccicanti in mezzo al nulla. Solitarie e stazionarie, brillano nelle gelide acque sub-glaciali.