SANDRO PERRI, In Another Life

SANDRO PERRI, In Another Life

In un’altra vita avrei vissuto in un posto dove le scarpe non servono. In un’altra vita non avrei preso una sbronza di Ouzo a 18 anni ed ora riuscirei a bermi ogni tanto una sambuca, perché l’amaro dopo il caffè mi piace come concetto, anche se non bevo nemmeno il caffè. In un’altra vita, invece di insegnare nella scuola dove sono stato alunno da bambino, sarei allenatore della nazionale messicana di calcio e sarei un fanatico di narcocorrido. In un’altra vita, trovandomi al confine col Paraguay non avrei ascoltato i consigli del mio ospite brasiliano, me ne sarei fottuto del millantato pericolo e ci sarei andato a Ciudad del Este, almeno per metterci il naso, per vederlo, questo Paraguay. In un’altra vita sarei sempre sorridente. In un’altra vita scriverei recensioni lineari, composte, da ragioniere, chissà. In un’altra vita forse sarei altrove, vivrei invece che nel grigio democratico nella meraviglia rivoluzionaria. E meraviglia è la parola adatta per In Another Life, 24 minuti di magia pura, un esperimento di songwriting orizzontale ad aprire e intitolare il nuovo disco del canadese Sandro Perri, che torna a deliziarci con un lavoro solista dopo 7 anni di silenzio. Un mood imprendibile e lievissimo, una beatitudine appena appena sbronza, sghemba, un groove sottile, ogni singolo elemento dosato con sapienza naturale, quasi sbalorditiva: le virgole dei synth, la chitarra essenziale, ariosa, la voce splendida, che ricorda un po’ quella di Sam Prekop di Sea And Cake ma è meno affettata, è un soffio tiepido, accogliente, a cui affidarsi all’istante. Una sorta di strano eppure familiare ibrido kraut-soul: il diavolo sta nei dettagli e Perri gestisce ogni minimo particolare con la sapienza antica dell’artigiano. Una batteria impalpabile fa capolino dopo quasi sei minuti, la chitarra è densa di languori quasi da jam o southern rock, il pezzo è una canzone semplice e modale nel suo svolgersi, quasi elementare, un pugno di accordi, una linea melodica a presa istantanea l’idea geniale però è quella di estenderla verso l’infinito, di dilatarla, riuscendo nell’impresa di non far suonare nemmeno un secondo di troppo. Come un Brian Wilson in missione per conto della Nasa, o una versione user friendly di certo minimalismo, Perri va in orbita e ci porta con lui, per questo vero e proprio trip, privo di qualsiasi effetto collaterale. Lo stupore continua anche con “Everybody’s Paris”, di nuovo oltre i venti minuti ma questa volta divisa in tre parti, con André Ethier (The Deadly Snakes) e Dan Bejar (Destroyer) a prendere il posto dell’autore al microfono: filastrocche d’infanzia, memorie al super8, altalene di pianoforte bambino, Van Dyke Parks, Randy Newman, il grande circo dell’America visto attraverso lenti ambient deformanti, miraggi di pop elettronico, caramelle allucinogene e dolcissime, piene di uno zucchero che per un qualche ineffabile segreto non è eccessivo né nocivo. Una colonna sonora fatta e finita per un film di Michel Gondry; come è stato detto su altre testate, se il lavoro ha un difetto è solo quello di essere forse troppo breve, perché la musica che contiene è davvero magnifica. Ma Sandro Perri, da Toronto, oltre ad essere un alchimista del pop futuribile e un cantante confidenziale dell’altrove, è saggio, e ci ha voluto lasciare con la voglia di stupirci ancora, la prossima volta. Speriamo solo non passino altri sette anni. Disco coperta di Linus, straconsigliato, più efficace di qualsiasi sciarpa o pillola o tisana per attraversare indenni l’inverno o almeno senza troppe ammaccature.