PYUR, Lucid Anarchy

Sophie Schnell, in arte PYUR. Tre album all’attivo, uno stile che dondola tra ambient e glitch artici. Lucid Anarchy arriva a cinque anni di distanza dal precedente Oratorio For The Underworld, mantenendo inalterata la dilatazione delle composizioni ma arricchendole con la ricerca di nuovi spessori digitali, quasi a rimpolpare le sinusoidi dando loro più colore e profondità. Un disco da ascoltare tutto d’un fiato, dove i confini tra le tracce sono inutili e non impediscono il denso fluire delle composizioni. “Lucid Anarchy” è una creatura effimera, e va gustata in tutta la sua palpitante energia spaziale.  A tratti pare di trovarsi davanti al monolite di “Arrival”, splendida perla fantascientifica firmata da Dennis Villeneuve, dove un macigno alieno comparso dal cielo tenta di comunicare con l’umanità. Anche qui la “cosa” sta cercando di parlarci, sta provando a imbastire un ponte linguistico che stentiamo a decifrare. Mugugni primordiali si mescolano ad aperture più melodiche, in un paroliere inintelligibile che riverbera universi lontani. Sentiamo che la chiave di lettura sta lì, nascosta tra le pieghe dei synth e delle scariche di glitch, pronta a creare un nuovo dizionario condiviso di palpitanti vibrazioni, un esperanto digitale per chi sa ascoltare. Le linee armoniche si muovono a formare ideogrammi inesplorati, espressioni liminali sulle porte dell’abisso galattico. Distanze infinite, gloriose distese sconosciute che si dipanano davanti ai nostri occhi con una fluidità a tratti, per l’appunto, extraterrena. Le note di Pyur ci incollano all’ascolto cavalcando il corpo sonoro delle composizioni, lucidi prismi elettrici dotati di vita propria. Difficile trovare degli specifici momenti da evidenziare, Lucid Anarchy è un disco che funziona proprio nella sua inequivocabile omogeneità. Soffermandosi sui dettagli qua è là si possono scorgere echi di Caterina Barbieri (l’ondivaga “Night / Sea”), mentre in altri frangenti la Schnell pigia forte sulle percussioni scompigliando le carte (i battiti di “Moving, Not Knowing” sono pura goduria per i miei timpani). Nove evocativi frammenti di entropiche pulsazioni senza fondo, un orizzonte infinito in cui sconfinano in perpetuo le vibrazioni agrodolci di un disco nebuloso. Con questo ritorno sulle scene l’artista berlinese si ritaglia un importante spazio nel genere, ponendosi saldamente sulla rampa di lancio dell’ambient più accattivante.