Mauro Gargano: una corda di basso feconda

Mauro Gargano, foto di Davide Del Giudice.

Pugliese trapiantato in Francia oramai da una vita, il contrabbassista Mauro Gargano ha pubblicato a fine 2020 Feed, in trio con il pianista Alessandro Sgobbio e il batterista Christophe Marguet. Il disco, ispirato e a fuoco, ci ha fatto scoprire un musicista che non conoscevamo e ci ha convinto che fosse il caso di dargli voce e spazio: ci ha raccontato la sua vita da cervello in fuga, le sue fonti di ispirazione (rivelando ascolti eclettici che arrivano fino a The Necks) e molto altro. 

Domanda ad alto tasso di retorica.
Contrabbassista a Parigi: come, quando, perché?

Mauro Gargano: Sognavo di Parigi dopo averci messo piede la prima volta nel 1992, avevo 20 anni e suonavo appena da 3 anni. Conoscevo pochissimo la città, mia sorella che già ci abitava mi portava in giro nei jazz club di Saint Germain e fu amore a prima vista. In uno in particolare, che si chiamava “La Villa”, ebbi la grande fortuna di ascoltare in concerto Clark Terry accompagnato dalla “home band” del club, nella quale c’erano Alain Jean Marie, pianista di Chet Baker, Wayne Dockery al basso e George Brown alla batteria, praticamente la ritmica di Archie Sheep, il quale era anche presente in sala. Mantengo un ricordo vivissimo di questo concerto, anche grazie al fatto che fu registrato live da France Musique e posso riascoltarlo quando voglio. Ricordo di aver passeggiato tantissimo da solo, perché mia sorella studiava alla Sorbona e non poteva accompagnarmi sempre. Così bighellonavo senza meta sotto la pioggia, stringendomi per il freddo dentro il mio bomber di pelle usato, comprato in un mercato delle pulci della città.
Mentre passeggiavo fra i bistrot, i musei, i negozi di dischi, attardandomi davanti i grandi teatri del centro e i Club della Rue de Lombards, spesso sconosciuti mi fermavano per strada chiedendomi delle informazioni, o una direzione per il Metrò, ed io, sorprendendomi di essere stato scambiato per un “parigino”, sognavo sempre di più di far parte di quel mondo…
Così l’occasione si presentò nel 1998 durante i seminari di Siena Jazz: persi la testa per una pianista francese e mi ritrovai qualche mese dopo a Parigi con il mio contrabbasso e senza un soldo. Mi iscrissi al conservatorio municipale del 14éme arrondissement per continuare i miei studi classici, e da quel momento la vita non si è più fermata un attimo. Continuavo a studiare e al tempo stesso cercavo di suonare in giro per la città con chi capitava.  Due anni dopo tentai il concorso per entrare al Conservatoire National Superior de Musique (CNSM) in “Jazz et Musiques Improvvisèes” e con mia grande sorpresa fui preso. E fu l’inizio di una parentesi estremamente stimolante dal punto di vista artistico, quanto stressante dal punto di vista fisico e psicologico. Quattro anni ricchi di scoperte, nuovi ascolti, confronti brutali, incontri con talenti marziani dalle sembianze umane, progetti appassionanti, fallimenti e grandi conquiste. Ebbi la grande fortuna di poter incontrare alcuni dei miei idoli e di poter suonare e studiare con loro: Lee Konitz, Steve Lacy, Stefano Scodanibbio, Mark Dresser, Marc Johnson, Barre Phillips, Kenny Werner, Bruno Chevillon, Bojan Z, e tanti altri. Finito il cursus di studi e uscito con il diploma in tasca, mi convinsi a restare a Parigi, mi sembrava un periodo fortunato, avevo una fidanzata svedese bellissima e cominciavo a suonare professionalmente nei club e nei festival francesi. Stilisticamente non mi ponevo troppi obiettivi, e cercavo di suonare il più possibile. Anche se preferivo di gran lunga suonare jazz moderno e musica improvvisata, mi piaceva tantissimo suonare anche il jazz più tradizionale ed ortodosso, che mi piace e mi diverto ancora a suonare, adoro gli “standards”, ma c’è sempre un pregiudizio del nostro ambiente verso chi non è purista, o verso chi non ha scelto il proprio “ambiente” musicale in maniera radicale, e questo è particolarmente vero in Francia negli ambienti del jazz che potrei definire “franco-français”… Io invece adoro abitare “le terre di mezzo”. Quelle zone di frontiera dove filtrano le influenze culturali diverse, e dove si sintetizzano diverse correnti stilistiche musicali.

Ho sempre pensato e penso che un musicista di jazz debba cercare una sintesi personale che possa permettergli di essere riconoscibile sempre, indipendentemente dalla musica che suona. Sembra un concetto datato secondo alcuni, invece a mio avviso è ciò che da sin dalle origini ha animato il jazz alla sua radice, e che attualmente una mentalità “revivalistica” tende a negare, cercando “purezze” dove non ce ne sono mai state. Per quanto questa musica ha espresso, e che è stato oramai ampiamente storicizzato, credo che debba avere la tendenza costante ad andare oltre, o quanto meno a provarci. Tanto più che negli ultimi 70 anni la musica è evoluta tantissimo, e penso che sia veramente indispensabile, per un musicista che si definisce “contemporaneo”, dover sintetizzare nel presente tutto questo percorso, andando avanti mantenendo un passo in avanti ed uno leggermente indietro. Purtroppo per me non sono un eclettico nel vero senso del termine, o un bravo imitatore. Forse avrei molto più lavoro se lo fossi, in quanto l’eclettico padroneggia le forme, e senza alcuno sforzo si esprime nell’idioma richiesto usando il linguaggio corretto. Credo di essere piuttosto un meticcio, fatto di varie parti sovrapposte che non necessariamente esprimono quello che l’idioma stilistico pretende o si attende. In ogni caso questa mia caratteristica mi ha permesso di poter incontrare tantissimi musicisti internazionali curiosi, anche di generazioni molto lontane dalla mia. Ovviamente non tutto quello che suonavo mi entusiasmava, ma da sideman è facile non porsi altri obiettivi, devi solo cercare di suonare bene senza essere responsabile di tutto il resto. Da leader le cose cambiano tantissimo, ci sono tante responsabilità che travalicano la musica, che dall’esterno si non si riesce bene ad inquadrare. Ora posso dire di saperne qualcosa. In ogni caso sono passati 23 anni dal mio arrivo, ora ho una splendida moglie italiana, due bambini per fortuna sani, e sono ancora qui anche se Parigi è cambiata molto. Ha perso molto del suo charme, e le politiche degli ultimi 15 anni l’hanno a mio avviso indebolita. Dal punto di vista creativo l’impoverimento delle politiche culturali ed associative hanno prodotto un disinteresse crescente per la creazione, ed un interesse per il profitto ed il botteghino a tutti i costi. Poi i numerosi attentati terroristici hanno dato un colpo alla leggendaria “vie bohème” dei parigini… L’aumento vertiginoso dei prezzi sta svuotando Parigi dei suoi abitanti e dei suoi artisti (me compreso), desiderosi di vivere in spazi più grandi e meno costosi. Poi come in Italia, anche in Francia tantissime realtà provinciali si sono dimostrate molti più interessanti, dinamiche, e creative di quelle metropolitane. Il periodo Covid ha ulteriormente accentuato questo fenomeno.

Raccontaci della Francia dal tuo punto di vista. Un paio di anni fa sono stato ad un paio di festival, Jazz à Luz e Mulhouse, e poi sono passato pure da Avignone durante il festival del teatro e mi è parso che si viaggi a tutt’altra velocità rispetto all’Italia.

A livello organizzativo e progettuale sono veramente dei campioni. Hanno saputo sviluppare e perpetuare dei modelli culturali usando gli argomenti giusti per farli diventare anche dei veri volani per l’economia. A tal punto che per esempio gli artisti del Festival di Avignone in sciopero possono permettersi di bloccare una riforma del governo e obbligarlo a cestinarla appunto per questioni economiche. Questo l’ho trovato da sempre molto bello, qui c’è una sinergia molto forte fra gli organismi culturali, i contenitori e gli artisti. Una cosa del genere l’ho raramente vista in Italia, dove negli ambienti legati alla produzione culturale ognuno resta nel proprio orticello e ci si azzuffa spesso per vanità, e talvolta per un pezzo di pane. Qui c’è anche un certo benessere che si deve ad una organizzazione lavorativa e sociale per ora molto diversa rispetto all’Italia. Lo statuto degli “intermittents du spectacle”, per esempio, ha creato una categoria molto solida, cosciente del proprio ruolo professionale, accomunando artisti e tecnici dello spettacolo. Ma soprattutto ha liberato gli artisti dalla miseria e dallo sfruttamento, permettendo a tanti di noi di vivere dignitosamente di musica senza necessariamente avere l’esigenza di diventare delle star popolari o professori di conservatorio. Ma ogni anno dobbiamo scendere in piazza per difendere la cultura e gli artisti dai continui tentativi di tagliare il budget del ministero, e di far scomparire lo statuto degli “intermittents”. Gli ultimi tempi non sono stati facili, specie l’ultimo dove il COVID ha azzerato l’attività, ma in ogni caso più facili per gli artisti francesi che per gli artisti in Italia.

Nella cartella stampa menzioni il fatto che prima di lavorare a Feed ti sei immerso in nuovi ascolti, uscendo dal seminato del jazz: citi dei generi ma non dei nomi, me ne fai qualcuno ora?

Sono sempre stato onnivoro musicalmente, anche se non sempre metto in pratica tutto quello che ascolto e che amo. In ogni caso in questi ultimi anni ho avuto il tempo di concentrarmi su numerosi ascolti nuovi per me, in particolare modo alcuni compositori della scuola di Darmstadt, come Messiaen, Maderna, Xenakis, Nono, e poi Ligeti, Reich, Glass, Cage, Pärt, Bussotti.

A ritroso ho voluto approfondire ciò avevo superficialmente ascoltato durante il mio percorso di studi, come per esempio i concerti per pianoforte di Prokof’ev e le sonate di Skrjabin.

In ambito più legato all’improvvisazione e al jazz ho ascoltato tantissimo Craig Taborn, Benoit Delbecq, Christian Wallumrod, Jim Black, Vijai Iyer, The Necks, Stefano Battaglia, Skuli Sverisson, David Virelles, Jon Hassell, Arve Henriksen, Oregon ed altri. Poi mi sono divertito moltissimo a ballare sulla musica tecno di Don Turi, Little Big e di Signifyng Monkey, sul funk di Marc Rebillet, Louis Cole, Thundercat e sulla New Wave anni Ottanta, a me molto familiare perché della mia X generation.

Mi citi invece cinque dischi fondamentali nel tuo percorso? E se dovessi scegliere un paio di piano trio che secondo te sono al vertice assoluto chi mi nomineresti? 

Il disco fondamentale forse è quello che non ho ancora ascoltato… e dico così perché forse ho seri problemi di focalizzazione mentale. Escludendo i “fondamentali” per default, cioè i grandi compositori della storia ed i mostri sacri fondatori del jazz, non credo comunque di essere capace di isolare alcuni artisti e di lasciarne fuori altri. Sono legato a doppio filo a tantissimi album di epoche e generazioni diverse, però posso dirti le due opere che più hanno sconvolto le mie convinzioni artistiche: Partners di Paul Bley e Gary Peacock, e Voyage That Never Ends di Stefano Scodanibbio. Del primo mi colpisce l’espressività infinita di entrambi durante le improvvisazioni, che diventano metamorfiche anche quando partono da materiale scritto o predefinito. Sia Bley che Peacock sono abitati dal sacro fuoco dell’ispirazione. E da parte di Peacock ci sono alcuni dei più bei soli di contrabbasso che abbia mai sentito in vita mia. Nel secondo, dal punto di vista concettuale e nella scrittura, c’è qualcosa di sovrumano e al tempo stesso profondamente naturale, di profondamente radicato nella storia ma con i rami protesi verso l’infinito, quindi a mio avviso veramente “contemporaneo”. La maniera nella quale Stefano ha cercato nei timbri senza peraltro andare verso la musica concreta mi ha sconvolto, la sua è una “errance” costantemente carica di ricerca e di spiritualità. Se poi devo consigliare un trio con il pianoforte resterei ugualmente nella contemporaneità, perché a livello stilistico questa formula ha già espresso una serie di idiomi che si sono cristallizzati nel tempo, diventando “classici”, “storici” e che continuano a riprodursi attraverso molta produzione anche recente. In questo senso il sempiterno schema formale composto da “intro/tema/solopiano/solobasso/solobatteria/tema/finale” ha ancora giorni felici davanti a sé ed ha prodotto e produce sicuramente meravigliosi capolavori oramai classici.

Quelli che però voglio citare sono più contemporanei e impiegano il suono degli strumenti senza effettistica elettronica: Chants di Craig Taborn, The River Of Anyder di Stefano Battaglia, Ink di Benoit Delbecq sul quale adora ballare mio figlio Andrea (4 anni). Mi piacciono molto anche i due album del trio di Jim Black (un batterista) in compagnia del pianista Elias Stemeseder e del bassista Thomas Morgan. Cito questi quattro perché a mio avviso esprimono un equilibrio perfetto fra scrittura, spontaneità interpretativa, e improvvisazione. Per finire l’album Mindset del trio australiano The Necks, un gruppo che mi piace tantissimo e che mantiene uno stile unico da più di 30 anni!

Dal disco emerge sempre in modo abbastanza forte l’attenzione alla cantabilità, alla melodia, con un bell’equilibrio tra ricerca e fruibilità: sei interessato anche all’improvvisazione più rivolta invece al puro suono? Per il contrabbasso, penso ad esempio a Fluvine di Fernando Grillo, oppure a Daniele Roccato, a Scodanibbio, a certo William Parker. Hai mai pensato ad un album in solo?

Ho sempre adorato le melodie cantabili e sono sempre stato attirato dalla musica che esprime una componente melodica forte, anche soggiacente o astratta. Purtroppo non vengo da una famiglia di musicisti o di artisti. Mio padre era pilota di autovetture sport prototipi, artista a suo modo, e la musica che girava a casa era quasi essenzialmente quella dei motori, salvo mio nonno materno che ascoltava la lirica italiana, e mia sorella che ascoltava rock inglese. Ed io assorbivo passivamente tutto quello che passava in radio ed alla televisione. Praticamente quasi esclusivamente popular music. Posso dire che la musica che per prima mi ha emozionato è stata quella cantata da Domenico Modugno, e ricordo in particolare lo choc dopo aver assistito al cortometraggio “Che Cosa sono le Nuvole?” di Pierpaolo Pasolini, nel quale Modugno cantava una canzone struggente.

Poi l’emozione nell’ascoltare le colonne sonore dei western musicati da Morricone, e lo dico senza alcuna vergogna, anche l’ascolto dei cantanti napoletani che apparivano negli anni Ottanta nei canali privati locali, fra cui Mario Merola e Nino D’Angelo. In ogni caso, per indole e formazione sono fortemente attirato dalla maniera di improvvisare dei contrabbassisti che riescono a sviluppare una intensa cantabilità e che riescono ad essere contemporanei anche avendo un background jazzistico. Ciò è dovuto probabilmente anche all’influenza dei tre contrabbassisti con cui mi sono formato (Riccardo Del Frà, Furio di Castri, Maurizio Quintavalle) e che rappresentano quella scuola europea ed italiana del jazz che esprime uno spiccato senso melodico, una particolare attenzione alle dinamiche, cercando di far cantare il contrabbasso come qualsiasi altro strumento.

Nonostante ciò sono sempre stato comunque incuriosito da quei contrabbassisti capaci di rompere le barriere stilistiche, suonando completamente liberi dalle convenzioni.

Non suonavo ancora il contrabbasso ma ricordo per esempio la mia grande sorpresa quando ascoltai per la prima volta Lelio Giannetto con il quartetto “Ma.Ma.” di Marcello Magliocchi o Peter Kowald in “Cappuccini Klang” di Gianni Gebbia. Scoprii un altro mondo poi attraverso l’ascolto dei dischi solo di Dave Holland (Emerald Tears) e Barre Phillips (Journal Violone).

Una volta arrivato a Parigi rimasi fortemente colpito dall’ambiente della musica improvvisata francese. Pur non facendone parte, non perdevo occasione per ascoltare quelli che reputavo i musicisti francesi più interessanti in questo ambito: Jean Jacques Avenel, Jean Paul Celea, Bruno Chevillon, Henri Texier, Peter Herbert, Claude Tchamitchian. Lo stimolo verso l’improvvisazione solitaria mi fu dato poi da Bruno Chevillon e dal suo “Hommage à Pasolini”, e poi dall’incontro con Stefano Scodanibbio, che guarda caso è stato uno dei migliori allievi di Fernando Grillo. Loro due hanno contribuito a far nascere in me la voglia di produrmi in solitaria usando anche tecniche non convenzionali. La prima volta che ho visto Stefano suonare ad un metro e mezzo di distanza da me la “Sequenza” di Berio per contrabbasso, poi “Voyage That Never Ends”, e “Alisei”, avevo le lacrime agli occhi. Fu una esperienza artistica di una tale forza espressiva che non riuscii più ad ascoltare altra musica per settimane. Quando ripresi il contrabbasso in mano ero cambiato per sempre, tutto ciò che suonavo mi sembrava accademico, pomposo, scontato, ordinario.

Così cominciai a sperimentare nell’improvvisazione, cercando nei timbri, nelle sonorità, spesso partendo da tecniche inventate da Stefano, cercando poi di svilupparle alla mia maniera.

A partire da quel momento ho sentito il bisogno di inserire nei miei album dei momenti solitari per fotografare anche i miei diversi gradi di evoluzione. In uno in particolare (Suite For Battling Siki, 2016) ho suonato anche svariati intermezzi solistici facendo dialogare il mio contrabbasso con la voce del griot-conteur ivoriano Adama Adepoju, riprendendo un’idea di Edoardo Sanguineti in duo con Stefano Scodanibbio. Nel mio primo album, (Mo’Avast Band, 2012) ho improvvisato completamente un brano in solo che ho intitolato “Rootz”. In un altro progetto chiamato “Le Zouave Jacob”, in compagnia di Gianni Gebbia al sax, e Dario De Filippo percussioni, ho usato l’elettronica ed il contrabbasso preparato.

Recentemente ho composto parecchie musiche per solo contrabbasso, sia in forma canzone che più astratte dal punto di vista formale, inserendo l’improvvisazione come parte integrante della struttura compositiva. Vorrei effettivamente riuscire a concepire un album intero che possa contenerle.

Potrebbe essere uno dei miei prossimi progetti se riuscissi ad avere più costanza nello studio dello strumento. Il solo contrabbasso, per quelli che sono i miei bisogni, richiede un grande lavoro di preparazione fisica e tecnica, tanto per riuscire a suonare quanto è previsto dalle partiture, tanto per reagire istantaneamente nelle improvvisazioni, tanto per plasmare il suono ed i timbri dello strumento a seconda che si suoni con il pizzicato, con l’arco, o con altre tecniche meno convenzionali. Ci sono una serie di artisti che mi piace ascoltare ultimamente e che si esprimono in maniera molto stimolante usando anche linguaggi e tecniche nuove, per esempio Daniele Roccato, Jiri Slavik, Michael Formanek e Bruno Chevillon, naturalmente.

Curiosità da docente: come mai un pezzo dedicato a chi soffre di ADHD?

Ne sono affetto credo dalla nascita, ed ho deciso di dedicare “Full Brain” alle persone che ne soffrono.

Il deficit dell’attenzione con iperattività è un disturbo neurologico di origine genetica che comincia ad essere conosciuto anche in Italia. Nel nostro paese colpisce il 4% della popolazione, che spesso è inconsapevole portatrice perché nella maggior parte delle sue forme non è invalidante.

La maggior parte delle persone che non la conosce ci ride sopra definendola “una maniera subdola per convincere gli allocchi a spendere soldi dallo psichiatra”, senza rendersi conto delle difficoltà che questa patologia può arrecare alla vita delle persone che ne sono affette in maniera molto importante. Nella nostra cultura purtroppo c’è sempre un substrato paternalista che stigmatizza le malattie mentali e una sorta di bullismo unisex verso coloro che ne sono affetti. Penso per esempio ai commenti insultanti che tanti hanno proferito verso la formidabile campionessa Simon Biles che soffre di ADHD dalla nascita, come del resto Michael Phelps, che nonostante i successi ha sempre sofferto di depressione.

Dove sta la musica, tu dove la peschi? Ore e ore di lavoro in solitaria, collettivo, illuminazioni o che? E cosa ti ispira, al di fuori della musica?

Compongo in solitaria, ma non ho nessun metodo ed al tempo stesso penso di averne tanti.

Quando compongo non penso a nulla, che di per sé è già una forma di meditazione.
L’idea può venirmi da una melodia che ho in testa, dal canto di mio figlio, da una armonia che suono al piano, da una improvvisazione al contrabbasso, ed anche da una idea di architettura formale, sonora, ritmica o timbrica che ho annotato su di un taccuino. Può venirmi anche semplicemente giocando con le note di uno spartito, muovendole come le pedine su di una scacchiera, inventandomi delle regole e poi ascoltando i risultati finali. Alle volte sono sorprendenti! Le idee non mi mancano mai, come purtroppo anche le distrazioni che spesso mi impediscono di concentrarmi. Comincio poi a ragionare realmente solo quando devo orchestrare e arrangiare la musica. In definitiva, riguardo l’aspetto compositivo, sono rimasto un autodidatta nonostante i tanti anni di studio. Invece come arrangiatore e orchestratore ho dovuto studiare per capire come funzionano i timbri degli strumenti, le tessiture, l’armonia e il movimento delle voci.
Ma spesso faccio astrazione da questo e cerco volutamente di dimenticarmene per forzare il mio orecchio a trovare altre soluzioni possibili. Nel mio cursus ho incontrato tanti insegnanti e musicisti, e non tutti, ma la maggior parte di loro, non mi hanno mai imposto il loro credo artistico, lasciandomi libero di esprimermi e di cercare senza condizionamenti stilistici o morali rispetto la musica. Non ho mai amato i giudizi senza appello. Ecco, ho cercato di tenermi lontano da quel manicheismo che vede la musica esclusivamente con la lente del “bello o brutto” per intenderci.
E che poi finisce con giudicarne i suoi attori principali anche dal punto di vista morale…
Ho sostituito questa visione con il concetto di “interesse”. Cerco di non oggettivare la musica, e filtro i miei giudizi lasciandoli aperti al cambiamento, perché penso all’orecchio come un muscolo che si migliora costantemente con l’uso: “Mi interessa ora, o non mi interessa ora, ma non è detto che non mi interessi dopo”…
Con la mia musica sono un giudice molto più severo, ma anche in quel caso mi piace lasciarle il tempo di fermentare. Scrivo spesso e metto da parte per giorni, mesi, anni, prima di riprenderla.
Salvo in alcuni casi dove, sulla spinta dell’emotività, riesco a chiudere un brano in pochissimo tempo. Feed è stato composto per larga parte su questa spinta, componendo ed arrangiando all’istante ogni nota, a parte “Look Beyond the Window” e “Ilva’s Dilemma” che invece sono delle idee di qualche anno prima, e che ho ripreso e adattato per il trio con Alessandro e Christophe.
Una volta composta la musica, ed in linea di massima, fattomi una idea generale di come possa suonare, mi affido alle suggestioni dei musicisti del gruppo ed all’improvvisazione che spontaneamente ne scaturisce. Da questa poi mi regolo se vale la pena continuare a provarla, o se c’è bisogno di metterla da parte per continuare a lavorarla in un secondo momento.

Le altre arti mi stimolano tantissimo per scrivere musica. Mi piace molto utilizzare le sensazioni che un’opera d’arte mi lascia, mi aiuta a visualizzare colori ed immagini che possano aiutarmi a dare senso a ciò che scrivo in un secondo momento. Sicuramente le altre arti mi aiutano a stare meglio per trovare anche la condizione umana, spirituale, ed emotiva per scrivere e comporre, sentendomi parte di quel processo di creazione universale che riguarda gli artisti di ogni epoca e tempo.

Adoro leggere, sono appassionato dalla Storia, dal cinema, mi piace andare in giro per Musei, mostre, e bighellonare per il Louvre. A fine agosto sono riuscito finalmente a vedermi con calma tutto il padiglione legato alla Mesopotamia ed alle arti del Medio Oriente.