Luigi Ceccarelli, cercatore di suoni

Luigi Ceccarelli, classe 1953, romagnolo trapiantato a Roma, membro di Edison Studio, collettivo di compositori fondato nel 1993 che gira il mondo sonorizzando film muti, per quarant’anni docente di Composizione Musicale Elettroacustica al Conservatorio, è senza mezzi termini una delle personalità più importanti nell’ambito della musica elettronica in Italia. Basti dire che la sua prima composizione risale al 1975: siamo dunque al cospetto della Storia. Chi scrive ha avuto modo di conoscerlo durante l’edizione 2018 del Forlì Open Music, dove si rivelò alle mie orecchie profane come un vero e proprio mago dei suoni. Questa estate ho assistito all’Inferno dell’Edison Studio per il Ravenna Festival, che sarà a Reggio per Aperto Festival il 31 ottobre, e negli ultimi mesi sono ritornato più e più volte all’ascolto del mesmerico cd Fedeli D’Amore, con Ermanna Montanari, un poema scenico pubblicato da Stradivarius. In questa lunga, densa intervista Ceccarelli con acume e generosità ci svela traiettorie, vertigini e abissi dei suoi mondi plurali e di una ricerca instancabile (della quale, nonostante l’intervista torrenziale, qui raccontiamo solo una parte) mossa dall’idea del suono come motore (im)mobile di tutte le cose.

Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?

Luigi Ceccarelli: Risale a quando avevo quattro o cinque anni, accompagnavo mio padre che andava a salutare un amico, batterista professionista. Lo trovammo mentre si esercitava da solo in una grande sala dall’acustica molto risonante. Non avevo mai sentito dei suoni così belli e potenti che pervadevano completamente tutto lo spazio, e lo stesso facevano anche con me. Ero totalmente affascinato, una sensazione così forte non l’avevo mai provata. Quel ricordo ce l’ho ancora vivido come fosse oggi.

Come ti sei avvicinato alla musica elettronica/elettroacustica? Cosa ti ha portato ad optare per questo percorso da studente piuttosto che quello di uno strumento classico?  

A quindici anni ero già un batterista rock professionista, suonavo in una band e facevamo serate nei locali più noti della riviera romagnola. Ero completamente calato in quell’ambiente musicale, vivo e creativo, ero convinto che la mia vita sarebbe stata quella per sempre. Così la mia prima formazione è stata molto lontana da quella accademica.

La necessità di iscrivermi al Conservatorio è arrivata dopo la maturità. Sentivo la necessità di avere una completa preparazione musicale, anche se non ero sicuro che un ambiente musicale accademico mi avrebbe soddisfatto, così mi sono iscritto contemporaneamente al conservatorio e alla facoltà di statistica dell’università di Bologna. Le mie conoscenze della musica elettronica allora erano molto vaghe, conoscevo di nome Stockhausen e poco di più, ma anche nella musica rock stava arrivando la tecnologia elettronica ed erano comparsi i primi sintetizzatori, quindi ero molto incuriosito, complici anche i miei studi in elettronica industriale. La decisione di studiare in conservatorio, quindi, è stata un po’ casuale, non avevo le idee chiare, come succede spesso ad un diciottenne dopo la maturità. Caso ha voluto che neanche il Conservatorio Rossini di Pesaro avesse così chiaro cosa fosse la musica elettronica. La cattedra sperimentale di Composizione di musica elettronica era stata istituita da appena un anno e la materia era così lontana dai canoni estetici tradizionali che non c’era molta richiesta, perciò stavano cercando studenti disposti ad iscriversi. All’esame di ammissione furono ben contenti di farmi idoneo, ma dato che non avevo studi musicali tradizionali mi dovetti iscrivere contemporaneamente anche ai corsi di teoria musicale e di composizione tradizionale. Allora non era concepibile che un novellino potesse occuparsi di musica elettronica senza conoscere la musica strumentale tradizionale, e poi la musica elettronica era considerata un campo esclusivo, per pochi compositori di alto livello intellettuale. E infatti nel mio corso ero l’unico che non avesse già un diploma o non fosse già docente. Ma avevo una competenza in elettronica, e questo mi dava un grande vantaggio su musicisti, che per quanto avanzati, non avevano alcuna preparazione tecnico-scientifica. Quell’anno era stato nominato a Pesaro un nuovo direttore, Gherardo Maccarini Carmignani, pianista eccellente e con idee molto innovative sulla didattica e sulla formazione musicale. Convinto che la musica dovesse procedere al passo con i tempi, era un aperto sostenitore della musica contemporanea. Al suo seguito erano così arrivati a Pesaro tanti musicisti dell’avanguardia musicale romana degli anni ’60 e ’70: Aldo Clementi, Giancarlo Schiaffini, Giovanni Piazza, Fausto Razzi, Giuliano Zosi, Walter Branchi, Mario Bertoncini, Giampiero Taverna, Michelangelo Zurletti, Fernando Grillo, Roberto Laneri. Compositori, improvvisatori, strumentisti dalla tecnica stupefacente, musicologi, direttori. Certo non tutti conosciuti dal grande pubblico, ma tutti musicisti che hanno dato un contributo significativo al rinnovamento musicale di quegli anni. E tutti hanno insegnato a Pesaro in quel periodo. In quel periodo i metodi di insegnamento della composizione si erano molto rinnovati. A Pesaro i programmi di studio erano basati sulla composizione sperimentale, e la musica tradizionale era studiata non in sé stessa, ma in funzione di un suo superamento verso un pensiero contemporaneo. Come all’università, ogni docente faceva anche corsi monografici che potevano essere seguiti da tutti gli studenti che lo desideravano. Si era formato un gruppo di docenti e studenti talmente unito che la sera andavamo tutti insieme a cena e poi da qualche parte a vedere concerti e film oppure si continuava a parlare fino alle ore piccole. Un’esperienza, oggi irripetibile, che ha permesso a noi studenti di diventare in seguito musicisti entusiasti e preparati. Tra i miei compagni di studi c’erano anche Stefano Scodanibbio e Fabrizio Ottaviucci, musicisti che hanno segnato un percorso significativo e originale nel panorama della musica internazionale. Sono stato totalmente assorbito da questo contesto per almeno quattro anni, ripudiando completamente la musica rock, facendomi una esperienza culturale e tecnica unica (e la facoltà di statistica non mi ha visto neanche per un giorno).

Però, dopo una quindicina di anni, la musica rock l’ho recuperata, e invece la didattica della composizione in Conservatorio si è involuta ai livelli di prima.

Sei docente al conservatorio: mi racconti il tuo percorso e il mondo accademico da dentro? Come siamo messi in Italia, da questo punto di vista, per la tua esperienza?

Sono stato per quarant’anni docente di “Composizione Musicale Elettroacustica” e sono fortemente favorevole alla scuola pubblica. A mio parere il conservatorio resta ancora in Italia l’unico luogo dove si possono acquisire una cultura ed una preparazione musicale professionale. Non credo che altri tipi di scuola possano sostituirlo. Questa convinta dichiarazione di stima nei confronti dei conservatori italiani non vuole dire però che non ci siano problemi. I problemi ci sono e sono tanti. Come dice la parola, i “conservatori” cercano di conservare, mentre la musica elettronica può soltanto innovare, almeno così era nel 1980 quando ho iniziato l’insegnamento. Allora la musica elettronica era una materia totalmente al di fuori dal contesto, perché presupponeva competenze tecniche e musicali che nessuno aveva e gli studenti che si iscrivevano al corso o erano musicisti classici, che non sapevano nulla di tecnica elettronica, oppure erano elettronici che non sapevano nulla di musica. Eravamo un organismo estraneo in una scuola concepita ancora quasi esclusivamente per formare strumentisti per l’orchestra, senza alcuna preoccupazione per un’educazione di base e per la cultura musicale contemporanea. Ancora oggi ci sono insegnanti di strumento contrari al fatto che i propri studenti sprechino tempo nello studio di materie di cultura generale. Al di là della competenza tecnica, che comunque richiede una cultura scientifica, la composizione elettronica ha introdotto nuove logiche di pensare la musica, di crearla, di scriverla, di realizzarla, insomma una vera e propria rivoluzione che oggi pervade tutta la musica nel mondo intero. I conservatori si sono lentamente dovuti adeguare ai tempi, da 13 docenti che eravamo in Italia fino agli anni ’90, ora i docenti di musica elettronica superano ampiamente il centinaio, e in alcuni casi sono diventati un vero e proprio dipartimento. Bisogna fare attenzione però, anche parte degli insegnanti di musica elettronica si è adeguata ai meccanismi dei conservatori e in alcuni casi essi stessi sono diventati accademia.

Nonostante quarant’anni di riforme che hanno cercato di trasformare i conservatori in una scuola al passo con i tempi, non si è ancora compiuto quel salto culturale verso una scuola moderna. La disparità tra le discipline della cultura classica e quelle contemporanee è ancora grandissima e le logiche organizzative e gestionali restano incentrate sull’insegnamento della pratica orchestrale e sulla conservazione della musica del passato. Non dico che miglioramenti non ci siano stati, oggi abbiamo docenti sempre più bravi e culturalmente prepararti. Il punto dolente è un altro. Non c’è in molti casi un rapporto con la creatività musicale. Ancora oggi ci sono troppe classi dove si impara una estetica accademica, buona tutt’al più a perpetuare le docenze dello stesso tipo.

In Italia ci sono più di cinquanta conservatori e tutti rilasciano lauree di secondo livello, ma non tutti i corsi riescono a garantire una preparazione adeguata agli studenti.

In questo momento, per esempio, c’è una grande richiesta per i corsi di musica da film e di musica pop e in molti conservatori, per aumentare il numero di studenti, c’è una corsa ad aprire nuove cattedre. Ma questi in genere si tratta di corsi di musica commerciale, utili alla realizzazione di serie tv e programmi di intrattenimento, e che non richiedono un’alta competenza artistica. Nella maggior parte dei casi, i corsi di queste materie “innovative” sono praticamente corsi professionali. Quindi per chi vuole studiare musica è importante scegliere il conservatorio giusto e non fermarsi alla prima scuola che capita. Per diventare bravi musicisti oggi si deve essere disposti a viaggiare.

In Inferno mi è parso che il focus del lavoro fosse sulla voce ed anche in Fedeli d’Amore la performance di Ermanna Montanari è un po’ il fulcro: so che in settembre terrai anche delle lezioni sull’uso della stessa presso Tempo Reale. Mi parli del tuo rapporto con la voce come compositore?

La prima composizione che ho realizzato con le voci in ambito teatrale è stata nel 1980. Ero entrato a far parte del gruppo di lavoro intercodice “Altro”, una delle formazioni più interessanti del teatro d’avanguardia romano degli anni ’70. Più che una compagnia teatrale, era un gruppo di artisti di varie discipline (pittori, grafici, danzatori, architetti, cineasti, fotografi, musicisti) che lavoravano insieme per produrre spettacoli. Non si trattava precisamente di spettacoli teatrali, ma di eventi che volevano unire tutti i linguaggi artistici. Lo spettacolo si chiamava “Abominable A”.  Per l’occasione avevo realizzato una colonna elettroacustica elaborando sequenze di parole che iniziavano per “A”, prese dai dizionari di varie lingue. Queste parole erano l’unico testo dello spettacolo. Un testo non narrativo, quindi.

Negli anni delle avanguardie storiche, sia nella musica che nel teatro, il principale presupposto era l’integrazione di tutti gli elementi (suono, visione, testo) in un’unica struttura progettuale. Per quel che riguardava il linguaggio verbale veniva adottata molto spesso una strutturazione in senso fonetico del testo, fino ad all’azzeramento totale del significato delle parole e della funzione narrativa. Forse perché in teatro la narrazione è sempre preponderante sugli altri elementi della rappresentazione, i testi in quegli anni venivano destrutturati e ricomposti come fossero elementi musicali o scenici. Un significato, se c’era, era spiegato fuori dal contesto rappresentativo (diciamo che era descritto nelle note di sala). Anche per le avanguardie musicali, fino agli anni ‘90, la narratività manifesta era in disuso. Ascoltando le opere di Luciano Berio e Luigi Nono con gli scrittori del “gruppo ‘63” questo è chiaramente evidente.

La seconda opera che ho realizzato partendo da un testo è di 15 anni dopo, ma qui la prospettiva era totalmente cambiata. Rai Radio3 aveva commissionato una serie di quelli che chiamava “Radio Film”, opere radiofoniche che un compositore doveva creare scegliendo un testo narrativo. L’idea era quella di realizzare un film per la radio, raccontare cioè una storia soltanto con il suono, senza l’uso dell’immagine, ma utilizzando come il cinema, le tecnologie più avanzate. Il ritorno dell’idea della narratività in musica, impensabile fino a quel momento, era arrivato. Dopo tanti anni i musicisti ricominciavano a raccontare storie. Come testo per il radiofilm avevo scelto un capitolo del romanzo di Stefano Benni “Terra!”, del 1983, intitolato “La guerra dei dischi”. È la storia di una guerra tra due case discografiche, ambientata nel 2026, una con a capo Mick Jagger e Paul McCartney, e l’altra diretta da due robot giapponesi di tipo “creativo”.

Per me si trattava di affrontare contemporaneamente due sfide: la prima era quella di lavorare sulle voci e sui suoni mantenendo la narrazione completamente comprensibile e nel frattempo creare una parte musicale che non fosse un semplice sottofondo. In questo il testo di Benni mi ha molto aiutato perché parla di musica, di concerti e di generi musicali, così musica e testo si rinforzavano naturalmente l’uno con l’altro.

Ma avevo presto scoperto che rendere comprensibili le voci non era una cosa banale, ma un lavoro complesso e affascinante. Ad un normale ascoltatore sembra ovvio che si debba comprendere il testo di un brano musicale, ma a volte è più difficile rendere intelligibile una voce in mezzo a tanti suoni ad alto volume che stravolgerla completamente. Ma quello che mi preoccupava di più era ritornare alla musica rock dopo oltre vent’anni e ottenere un sound convincente sia per l’ambito della musica contemporanea che per quello della musica rock.

Alla fine quello che consideravo solo un esperimento curioso, musica e voce narrante, si è rivelato un campo vasto ed interessante e ancora oggi ne sono ampiamente coinvolto. E “La Guerra dei dischi” lo considero un pezzo molto riuscito.

Ho avuto altre commissioni di questo tipo da Rai Radio3, tra cui 20 racconti con i testi di Valerio Magrelli, e “La Commedia della Vanità” di Elias Canetti con la regia di Giorgio Pressburger, un lavoro gigantesco di tre ore che ha richiesto un anno di impegno a tempo pieno. Poi purtroppo la radio ha smesso di produrre vere opere radiofoniche, e dalla fine degli anni ‘90 si limita a semplici letture intermezzate da musica di repertorio.

Ho avuto la mia prima esperienza di teatro con la voce dal vivo nel 2000 con il Teatro delle Albe di Ravenna. Si trattava de “L’isola di Alcina”, con l’attrice Ermanna Montanari e la regia di Marco Martinelli. Con Ermanna e Marco abbiamo stabilito un rapporto di collaborazione molto proficuo che ci ha portato nell’arco di venti anni alla realizzazione di tanti spettacoli tra cui “La Mano”, “Lus”, e questo ultimo “Fedeli d’Amore”, tutti incentrati sulla voce di Ermanna in rapporto alla musica.

Mentre il lavoro che avevo svolto in precedenza sulla voce era realizzato completamente in studio partendo da un testo scritto, in teatro le cose diventano molto più complesse.

L’integrazione della musica con la voce e gli elementi visivi e spaziali nel teatro va ad incidere in modo sostanziale sulla dimensione del tempo, dello spazio e della dinamica. Mettere tutto insieme dal vivo in un progetto unitario richiede un lungo lavoro di preparazione e di prove, soprattutto se si vuole instaurare un rapporto paritario tra musica e voce.

La musica realizzata attraverso l’elaborazione elettronica ha una gamma timbrica e dinamica grandissima, si possono ottenere differenze di intensità gigantesche, che la voce non potrebbe mai ottenere, e per questo l’amplificazione della voce è fondamentale, deve essere moto misurata per seguire le variazioni dinamiche senza mai perdere l’intelligibilità e senza mai sembrare innaturalmente forte.

In teatro la musica elettroacustica, non avendo una chiara identificazione con una precisa fonte sonora, ha una funzione molto importante rispetto alla musica strumentale: allarga la dimensione dello spazio teatrale, gli permette di superare lo spazio del palcoscenico, fino a comprenderne tutto l’ambiente e ad includere completamente gli spettatori. Con il suono diffuso in surround viene a cadere la divisione tra pubblico e palcoscenico, il pubblico è dentro il suono.

Il suono che noi udiamo non è mai il suono diretto della fonte sonora, ma è mediato inevitabilmente dall’ambiente. Quello che ascoltiamo (a meno che siamo in cuffia) è sempre il suono dello spazio intorno. Così tutti i miei lavori, a partire dagli anni ’90, prevedono un progetto di spazializzazione del suono e una diffusione surround nello spazio, che curo personalmente. La mia musica non si ferma all’emissione dello strumento, ma continua fino allo spazio in cui viene diffusa. Questo modo di pensare mi ha permesso di considerare la dimensione spaziale come un elemento creativo in più nel gioco di relazione con gli altri elementi teatrali.

Una distribuzione spaziale dei vari suoni ti permette inoltre di differenziare meglio il piano dinamico e di far convivere insieme una quantità di suoni molto superiore che nella dimensione stereofonica. Anche la voce amplificata diventa parte dello spazio surround, e le sue risonanze vengono ampliate per diventare parte integrante del suono.

Tutto ciò naturalmente si perde completamente in un cd e in un ascolto stereofonico.

Parliamo ora dell’uso delle voci in Inferno e nei film di Edison Studio. Abbiamo realizzato varie colonne sonore per i film del periodo del cinema muto, dalla sua nascita fino alla fine degli anni ’20, e per ogni film abbiamo seguito logiche diverse per quel che riguarda l’inserimento delle voci. Nel cinema muto anche senza suono la comprensibilità della trama è già risolta dalle didascalie e da vari altri espedienti narrativi visivi, quindi non ci sarebbe la necessità di aggiungere le voci dei personaggi. Così, quando abbiamo deciso di aggiungerle alla colonna sonora, l’abbiamo fatto in modo creativo, per aumentare l’emozionalità delle scene, senza necessariamente dover fare attenzione alla comprensibilità del testo. Così le voci le abbiamo aggiunte solo in certi momenti, quando ci sembrava drammaturgicamente importante farlo.

A volte le voci sono preregistrate, a volte, come per “Inferno”, le voci sono fatte quasi tutte dal vivo da noi, e servono a rendere le scene più “infernali”. Diamo la voce ai personaggi (diavoli o dannati) prendendo il testo da frammenti di precisi episodi della “Divina Commedia”, ma rendiamo le voci molto elaborate e distorte. Così i personaggi diventano demoni mostruosi e irreali, oppure dannati condannati alla sofferenza eterna con la voce completamente de-umanizzata dalla sofferenza. In “Das Cabinet des Dr Caligari” e in “La Corazzata Potemkin” abbiamo invece lavorato con attori di madrelingua perché ci sembrava fondamentale mantenere il legame culturale con il paese di origine del film. Su queste voci è stato fatto un lungo lavoro di editing e di elaborazione timbrica per aumentarne l’espressività.

Che tipo di ascoltatore sei? Tornando alla voce, che rapporto hai con la canzone italiana o con la lirica?

Sono un compositore che lavora sul dettaglio del suono e la mia capacità di ascolto è diventata molto attenta proprio ai dettagli. I particolari mi condizionano molto: una compressione che mi sembra sbagliata, una distribuzione spaziale approssimata, un ritmo o una intonazione imprecisa mi distraggono dalla musica.

Ma quando ascolto la musica degli altri cerco di ridiventare un ascoltatore puro, per non perdere il contatto con la realtà, come succede a quei musicisti che si perdono nella tecnica. La musica non è fatta per i musicisti, ma per suscitare sensazioni negli altri, per qualsiasi persona che sia disposta ad ascoltare. È importante non dimenticare questo punto di vista.

Come ascoltatore sono onnivoro. Ascolto musica di qualsiasi genere. Ci sono alcuni brani che ho amato e amo ancora molto e ogni tanto riascolto: la musica etnica che va dall’estremo Oriente all’Africa, per esempio, il progressive rock e il free jazz, la musica elettronica (non quella di consumo, ma quella di ricerca) tra gli anni ‘60 e ‘90. E poi la musica antica (di cui solo una parte è la musica classica) a partire dal canto gregoriano fino ai grandi del ‘900: Debussy, Ravel, Bartok, Ligeti, il primo Stravinsky – guarda caso tutti musicisti originali e che non hanno mai fondato scuole.

Non amo però la musica elettronica leggera, per intenderci quella che usa un ritmo digitale banale e costante. Per quella ho una antipatia viscerale. Ho smesso di fare il batterista proprio per questo. Per me il ritmo è variazione e invenzione continua: musica insomma, che è anche invenzione in rapporto al tempo, e non un banale metronomo.

Dalla metà degli anni ‘70 la musica pop, e non solo purtroppo, ha iniziato ad utilizzare la batteria elettronica. Cassa, rullante, charleston (elettronici) sono diventati puramente dei metronomi: rigidi, implacabili e sempre uguali. La morte del ritmo, la morte della musica. Ma non è finita qui, questa meccanicità si è diffusa rapidamente: basta spingere un bottone (lo può fare chiunque sappia muovere anche solo un dito) e qualsiasi strumento elettronico può facilmente produrre rigidi suoni meccanici. Ho odiato profondamente la musica dei Kraftwerk per il loro uso superficiale dell’elettronica, sembra che abbiano inventato loro la musica elettronica, e invece si faceva già da più di vent’anni. La musica elettronica è nata alla fine degli anni ‘40 come strumento di creatività, poi rapidamente è diventata anche strumento del mercato musicale, uno strumento per fare musica in poco tempo e con poca fatica. Un po’ come passare da un ristorante che serve pesce fresco ad un Hamburger surgelato. Junk food, junk music.

Con la lirica ho un rapporto di grande amore. Ma è un amore impossibile, perché i suoi ambiti temporali non coincidono con i miei. Mi piace molto l’opera, l’opera italiana ma non solo. Ci ho avuto a che fare anche professionalmente, in ambiti particolari: ho curato la regia del suono di una “Traviata” amplificata e spazializzata da una quarantina di altoparlanti, e con Alessandro Cipriani ho composto e realizzato le musiche di un film su Turandot e la musica per due spettacoli dell’opera di Pechino.

Per me l’opera (parlo dell’opera occidentale) ha un problema di ascolto oggi insormontabile, che non è quello dalla voce impostata, bensì quello della melodia. A me succede che quando ascolto un’opera, e lo faccio con molto piacere, poi le melodie mi entrano in testa e mi tornano continuamente in mente, così continuamente che dopo un po’ diventano ossessive e non riesco a pensare a nient’altro.

La stessa cosa succede per la musica leggera. Le melodie commerciali sono fatte per acchiappare le persone e renderle dipendenti. La pubblicità sfrutta esattamente questo meccanismo per fare ricordare il prodotto sponsorizzato. È per questo che nella mia musica le melodie sono poche e molto misurate. Nella mia musica inoltre non inserisco mai cadenze accordali dell’armonia tradizionale, cosa a cui non hanno rinunciato neanche i gruppi metal più duri. Quando stavo lavorando a “La guerra dei dischi”, avevo iniziato ad ascoltare l’hard rock degli anni ’90, per farmi una idea dei nuovi gruppi di quell’epoca. Ce n’erano alcuni con un sound veramente tostissimo. Tra quelli interessantiricordo Sonic Youth, Nirvana, Helmet, System Of A Down. Ma tutti (a meno forse di Sonic Youth e Nirvana) a un certo punto tirano fuori la cadenza accordale “primo/quinto/quarto/primo”: la banalità fatta musica, la sequenza accordale di qualsiasi melensa canzonetta pop, derivata poi dalla musica classica. A quel punto puoi essere tosto quanto vuoi, ma quella è una caduta di credibilità rovinosa.

Cinque dischi che sono stati fondamentali nel tuo percorso

Cinque sono un po’ pochi, Riducendo all’osso ne cito una decina.

Sono quasi tutti relativi al mio periodo di formazione musicale e li ho scelti in base alla loro influenza sul mio modo di pensare la musica, non tanto sul valore estetico in generale. Su ognuno di questi potrei raccontare molto, ma cito soltanto, il titolo, l’anno e l’autore. Non sono strettamente tutti cd, alcuni sono brani singoli che si possono trovare su internet. E aggiungo una nota importante: questi dischi, questi brani, appartengono a mondi musicali molto diversi, non si possono fare paragoni o graduatorie. Sono mondi non confrontabili tra loro, ma io riesco a farli convivere armonicamente.

La Mer (1905) Claude Debussy

Le Sacre Du Printemps (1911) Igor Stravinsky, diretta da Pierre Boulez

21st Century Schizoid Man (1969) King Krimson

Telemusik (1969 anno di pubblicazione del disco) Karlheinz Stockhausen

Burnt Weeny Sandwich (1970) Frank Zappa and Mother of Invention

Bali: court music and Bandar music (1971 anno di pubblicazione del disco) Unesco Collection

Arbeit Macht Frei (1973) Area

De natura Sonorum (1976) Bernard Parmegiani

Live in Paris (1989) Nusrat Fateh Ali Khan

Below the walls of Jerico (1990) Paul Dolden

Tongues of Fire (1996) Trevor Wishart

Dove trovi la musica? Un lavoro lento e paziente di speleologia per estrarre dal silenzio qualche sasso di suono, o invece la capti per aria e procedi per satori? Come componi? Che tipo di partiture usi? Grafiche, tradizionali? 

Prima della musica è importante trovare il suono. Il suono secondo la mitologia indiana esiste da prima della creazione, è da lì che partono tutte le cose. Così per fare musica io parto dal suono. Sono essenzialmente un cercatore di suoni.

Ogni volta che inizio una nuova composizione è come se andassi alla scoperta in una terra incognita. Non so bene cosa troverò e neanche se troverò qualcosa. È per prima cosa un percorso di apprendimento. L’esplorazione vive come sempre di esperienze esaltanti e di impasse esasperanti, ma nel procedere si costruisce a poco a poco un sistema di relazioni tra i suoni, ed è questa la cosa che mi interessa di più.  E a un certo punto, spesso inaspettatamente, l’illuminazione arriva. Il satori è l’idea musicale che lega il suono alla mente.

La musica è fatta di suoni, ma non è il suono stesso. La musica non esiste in concreto e non esiste senza un ascoltatore, la musica è l’elaborazione della sensazione sonora vissuta da ognuno che la ascolta.

La tecnologia elettronica ci dà la possibilità di fare musica producendo direttamente il suono, senza l’intermediazione della partitura. Un compositore elettroacustico può ascoltare direttamente il suono senza doverlo scrivere prima sulla carta. È questa la conquista della musica elettronica.

In realtà si potrebbe dire la stessa cosa di qualcuno che suona uno strumento acustico, ma non è esattamente così. Uno strumentista acustico può trarre dal suo strumento suoni meravigliosi ed essere un virtuoso straordinariamente bravo, ma è legato ad un sistema meccanico che ha i suoi limiti ed egli stesso ha dei limiti fisici nei movimenti.

A proposito delle partiture, io scrivo la musica soltanto quando c’è la necessità di un interprete che debba eseguirla. La musica non è fatta di pallini neri scritti sulla carta, quelli sono solo indicazioni per chi deve eseguire, ma non sono “la musica”.

E in più nessuna partitura fornisce le indicazioni per l’esecuzione in tutti i dettagli. La scrittura tradizionale della musica, inventata più di mille anni fa in occidente, è stata un mezzo straordinario per l’evoluzione della musica occidentale, ma senza la trasmissione orale dell’esperienza esecutiva non è sufficiente ai fini di una corretta esecuzione. Una partitura è utile soltanto se viene letta da uno strumentista che ha studiato il suo strumento per almeno 10000 ore, altrimenti no. È dimostrato che 10000 ore è il tempo minimo dell’apprendimento della tecnica strumentale per un professionista.

Però, spesso, anche se non scrivo una partitura, per la fase di progettazione utilizzo molti metodi di notazione grafica, dalla scrittura tradizionale alla notazione grafica della forme d’onda e agli spettrogrammi della rappresentazione cartesiana. Invento, se serve, anche dei sistemi ibridi. Decido ogni volta a seconda della necessità. E capita anche, quando si lavora con dei bravi musicisti che conoscono bene la mia estetica, che uno schema grafico sia sufficiente come partitura. Quando si lavora alla musica contemporanea di qualsiasi genere con degli esecutori, c’è un punto di contatto tra compositore ed esecutore molto critico. Quanto è in grado un compositore di dettagliare una partitura dando indicazioni precise a chi la deve suonare? Per quanto egli conosca bene gli strumenti, se non ne ha una pratica profonda, non sarà in grado di indicare le sfumature esecutive, che a volte sono addirittura esclusivamente legate ad ogni individuale esecutore.

E quanto un esecutore, leggendo la partitura, si dovrà sforzare di eseguire una indicazione difficoltosa che invece potrebbe realizzare molto più facilmente e con meno sforzo interpretativo? È un dilemma che cerco ogni volta di pormi cercando di evitare inutili tecnicismi. Nei primi anni ’80 ho realizzato “Incontro con Rama”, un pezzo per trombone e dispositivo di accumulazione. L’accumulazione è una tecnica della musica elettronica che permette di sovrapporre continuamente suoni attraverso un sistema di lunghi ritardi variabili. Per la composizione di questo pezzo ho lavorato per una decina di giorni con Renzo Brocculi, trombonista straordinario, senza scrivere alcuna partitura. Durante le prove discutevamo insieme sui vari suoni che doveva emettere il trombone e le indicazioni strumentali se le annotava Renzo stesso mano a mano che procedevano le prove, mentre io annotavo contemporaneamente le mie istruzioni di variazione dell’accumulazione. Ognuno così si è preparato la propria partitura partendo dalla verifica pratica di una idea musicale astratta. La partitura completa l’ho scritta solo diversi anni dopo. La stessa metodologia l’ho adottata per vari altri pezzi, tra cui “de Zarb à Daf”, lavorando  con il percussionista Mahamad Ghavi Helm.

Quando lavoro con strumentisti che conosco bene, mi capita sempre più spesso di non scrivere partitura, ma di preparare soltanto schemi. I dettagli preferisco discuterli a voce, e comunque lasciando un margine di libertà. Credo che se si ha una estetica comune questo sia il metodo migliore. Ogni strumentista deve scegliere i dettagli tecnici che preferisce.

Ti occupi di un certo tipo di suoni da molti anni, ed in questo lasso di tempo la strumentazione si è evoluta parecchio: ci racconti cosa usavi agli inizi, a quali apparecchiature sei rimasto affezionato o di quali hai un ricordo particolare, quali usi oggi e cosa pensi della pervasività dell’uso della tecnologia nel fare musica?

Il film “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick inizia con un gruppo di primati che scoprono l’utilizzo di un utensile, un osso animale, per vincere i propri nemici: è questo l’inizio della tecnologia! Anche la musica si è sviluppata fin dai suoi primordi attraverso la tecnologia. Gli strumenti musicali hanno seguito e continuano a seguire lo stesso percorso che ha caratterizzato tutta l’evoluzione tecnologica. Un’opera d’arte nella stragrande maggioranza dei casi si diventa un oggetto reale attraverso l’impiego della tecnologia e in ogni epoca le più grandi opere d’arte sono state realizzate con le tecnologie all’avanguardia del proprio tempo. Gli strumenti musicali si evolvono costantemente da migliaia di anni. Gli strumenti dell’orchestra barocca e quelli dell’orchestra moderna, pur avendo gli stessi nomi, hanno una sonorità profondamente diversa. Pensiamo solo all’evoluzione del pianoforte, a come si è perfezionato ininterrottamente nel corso di vari secoli. Non dobbiamo stupirci quindi se oggi usiamo la tecnologia digitale per fare musica. Dovremmo stupirci del contrario!

Il mio percorso musicale ha seguito tutto l’iter che, partendo dagli strumenti elettronici analogici, è arrivato a quelli digitali. All’inizio degli anni ’70 ho studiato al Conservatorio di Pesaro dove c’era uno studio elettronico analogico per la musica elettronica che per quei tempi era all’avanguardia. C’erano registratori a nastro Ampex multipista, generatori di forme d’onda, filtri, modulatori e un mixer. La tecnica di lavoro era completamente diversa da oggi. Si registrava il suono su nastro magnetico e per il montaggio si facevano una quantità infinita di taglia e incolla con le forbici antimagnetiche e il nastro adesivo. Per realizzare un pezzo di pochi minuti ci volevano mesi. Per produrre suoni elettronici si usavano generatori di forme d’onda, apparecchi molto grandi, costosissimi che si dovevano regolare a mano uno per uno. Per capire la differenza con oggi basti pensare che un piccolo computer portatile può generare migliaia di forme d’onda, mentre un generatore di allora era molto più grande e produceva il suono di una sola forma d’onda per volta.

In quello studio ho imparato tutto sulla musica elettronica e ci ho passato cinque anni intensissimi compresi anche il sabato e la domenica, quando il Conservatorio era chiuso. Ero rimasto d’accordo con il portiere: la mattina mi faceva entrare, mi chiudeva dentro e ritornava la sera per farmi uscire. È stato quel laboratorio il mio primo e amatissimo ambiente di lavoro.

All’inizio degli anni ’80 è arrivata la tecnologia digitale e così la possibilità degli strumenti elettronici di fare musica è cresciuta a velocità esponenziale. Una delle operazioni più importanti che ha portato il digitale è stata memorizzazione dei settaggi degli strumenti: i preset. Con i preset potevi finalmente richiamare una configurazione sonora anche molto complessa, in un istante.  Prima di questo, se dopo aver creato un suono soddisfacente da un sintetizzatore volevi realizzarne un altro diverso, dovevi smontare tutta la marea di cavi utilizzati, e creare una nuova configurazione di cavi e cambiare tutti i settaggi dei potenziometri. La memorizzazione in preset è un cambiamento gigantesco che oggi è diventata una funzione usuale per qualsiasi apparecchio digitale.

Il mio passaggio dall’analogico al digitale è stato tragico. Nel 1982 erano appena arrivati sul mercato gli antenati dei personal computer: i microprocessori. Erano circuiti in scatola di montaggio che dovevano essere assemblati da chi li acquistava, ed erano poco più potenti di una calcolatrice elettronica. Avevo commissionato ad un ingegnere il mio primo sistema digitale per far muovere il suono nello spazio per mezzo di un microprocessore. Si trattava di quattro VCA, amplificatori controllati in tensione, che dovevano muovere automaticamente il suono su quattro altoparlanti in una sequenza temporale stabilita. Il giorno in cui l’ingegnere mi portò il dispositivo ero entusiasta. Il tutto era stato assemblato in una scatola da scarpe da cui spuntava un groviglio inestricabile di fili: una costruzione dall’aspetto un po’ casalingo, ma ai primi test sembrava funzionare benissimo. Iniziamo le prove dello spettacolo di danza che stavamo allestendo, si accendono i primi fari e dalla scatola esce un fumo nero. Che cosa era successo? Chiamo immediatamente l’ingegnare e lui mi dice: “non puoi collegare alla rete elettrica del teatro nessun altro dispositivo, i microprocessori non supportano la minima variazione di corrente!”. E così il mio primo strumento digitale è finito tristemente nella pattumiera.

Vedo spesso che i miei studenti sono affascinati dall’elettronica vintage. Io che ho utilizzato quasi tutti gli strumenti degli ultimi cinquant’anni mi sono reso conto che per quanto si possa trovare congeniale uno strumento, per quanto ci si possa affezionare, prima o poi arriverà un altro dispositivo e una nuova tecnica che lo renderà obsoleto. Non credo ci si debba affezionare ad uno strumento, ma piuttosto ad un processo musicale.

Tra molti successi e qualche delusione la velocità dell’evoluzione tecnologica oggi è tale che per seguirla anche un musicista deve rinnovarsi continuamente. Siamo costretti ad uno studio e ad una formazione continua.

Come Edison Studio vi occupate anche di stimolare la creatività di altri autori attraverso il concorso “Sounds of Silences”: credi sia necessaria una nuova ecologia della colonna sonora, e da dove nasce questo interesse così forte per la musica per immagini?

Immagini e suoni sono sempre di più integrati nella nostra vita. Nel cinema e nei video il suono, la musica, hanno una parte fondamentale, così come al contrario il visivo nella musica e nei concerti. È naturale che un musicista oggi sia interessato alle immagini.

Io sono stato sempre interessato al visivo, tant’è vero che tra i miei maestri, quello che considero il più importante non è un musicista, ma un pittore: Achille Perilli, uno tra i primi pittori astrati italiani, con cui ho lavorato per vari anni e che anche oggi, che ha novantasette anni, frequento. Però mi sono sempre considerato un musicista e non ho mai creato immagini, anche se spesso di queste ne ho creato il suono.

Oggi gli eventi artistici si fanno sempre più complessi e coinvolgono sempre di più la totalità della nostra percezione. Per realizzarli si richiede un lavoro di squadra, perché presuppongono una tale vastità di conoscenze che un solo artista non riuscirebbe mai ad avere. Niente di tutto questo sarebbe successo senza la tecnologia digitale che ha reso tecnicamente suono e immagine una cosa sola.

Dunque, visto che in Italia è ancora prevalente l’idea che il cinema sia un’arte visiva e che la maggioranza delle musiche dei film italiani seguono generalmente gli stereotipi più banali del linguaggio tonale, noi compositori di Edison Studio abbiamo pensato che sarebbe stato importante dare la dimostrazione che si può fare musica per film diversa ed artisticamente valida.

Il concorso Sounds of Silences lo abbiamo creato per questo, per dare la possibilità a giovani musicisti di creare colonne sonore per film in cui fossero stimolate invenzioni sonore non convenzionali. Abbiamo sinora realizzato cinque edizioni del concorso e tutte hanno dato risultati sorprendenti. Abbiamo avuto ogni anno oltre 100 partecipanti da tutto il mondo. Ai selezionati viene chiesto di comporre una colonna sonora per le opere del cinema muto. Non avendo questi film un rapporto con il suono, la libertà di realizzare una colonna sonora è totale. Voci, musica, suoni d’ambiente possono essere completamente reinventati.

È la stessa poetica che pervade i lavori di Edison Studio, la creazione di una colonna sonora che usa le tecniche del cinema in cui però la musica è usata in senso artistico.

Hai collaborato anche con improvvisatori: sul sito leggo che hai realizzato un personale sistema per l’elaborazione istantanea dei suoni prodotti dagli altri strumentisti che partecipano alla performance. Me ne parli? 

Nel 1965 Karlheinz Stockhusen ha realizzato Mikrophonie II, una composizione per un tam tam (che è un grande gong, ma con il suono indeterminato) e sei performer. Due di essi suonano il tam tam, due tenendo ognuno un microfono in mano variano il punto di amplificazione sullo strumento, e gli ultimi due variano la frequenza di due filtri per modificare il timbro del suono. Sono praticamente due catene seriali di esecuzione. Credo che questa sia la prima composizione concepita con una logica diversa nel rapporto tra gli esecutori. Non abbiamo più un gruppo di performer in cui ognuno suona il proprio strumento, ma qui un performer modifica un suono prodotto da un altro ed il risultato viene modificato a sua volta da un terzo esecutore. Una interazione in successione invece che la una somma di suoni.

Questo è un concetto assolutamente nuovo in musica, che non si era mai avuto prima e che è stato reso possibile dall’elettronica. È proprio in questo modo che mi pongo come performer e come improvvisatore nei concerti dal vivo.

Con l’aiuto di alcuni miei studenti, ultimo tra i quali Andrea Veneri, lavoro da una decina di anni ad un complesso sistema di elaborazione del suono che cattura i suoni dal vivo generati dagli strumentisti che stanno suonando con me e così elaboro creativamente il loro suono sia dal punto di vista timbrico che temporale. Contemporaneamente rimando all’ascolto questa elaborazione, e chi sta suonando ascolta il suo stesso suono elaborato e ha uno stimolo per fare una cosa nuova. È un feedback continuo che permette una interazione molto stretta tra l’esecutore che ha prodotto il suono e la mia elaborazione elettronica. Ognuno viene deve reagire al suono dall’altro.

I procedimenti principali dell’elaborazione del suono sono la granulazione, l’analisi e resintesi e il multidelay. Sono processi complessi che soltanto da pochi anni i personal computer riescono a calcolare. La granulazione si ottiene dividendo un suono i tanti frammenti, anche di millisecondi, e poi dopo averli elaborati li rimette insieme, non necessariamente nello stesso ordine. L’analisi e resintesi servono per scomporre il suono in tutti gli elementi dello spettro armonico e così si possono creare elaborazioni complesse. Il multidelay ripropone una quantità variabile di copie di un singolo suono e le riproduce ognuna con un diverso ritardo di tempo ed una posizione diversa dello spazio.

Questo sistema che abbiamo creato viene continuamente sviluppato e può essere usato sia nel lavoro di composizione in studio, sia soprattutto nei concerti di improvvisazione con altri strumentisti. All’inizio si poteva interagire con un solo strumento per volta – ho iniziato a fare concerti di improvvisazione con Daniele Roccato nel 2011 – ma adesso il sistema riesce a gestire anche tre o quattro strumenti diversi facendo elaborazioni indipendenti, come nel caso del concerto con Hamid Drake, Gianni Trovalusci e Ken Vandermark.

Immagina tre collaborazioni dei sogni (irrealizzabili perché i musicisti in questione non sono più tra noi) e tre possibili: dimmi chi, come e perché. 

Eccole, ma non sono tutte con musicisti.

Irrealizzabili

Nusrat Fateh Ali Khan. Cantante. Non ho mai sentito un suo concerto dal vivo, ma ho scoperto la sua energia espressiva attraverso le registrazioni. Una forza della natura: quando si incontrano Religione e una tecnica interpretativa straordinaria, sono di una energia dirompente. Aggiungerei a lui ed al suo gruppo alcuni strumentisti e l’elettronica.

Demetrio Stratos, che conoscevo quando era cantante degli Area e ho incontrato anche dopo, nei pochi ma essenziali anni in cui faceva concerti di sola voce.

Edgard Varèse. Il primo che negli anni ’50 ha realizzato musica per strumenti tradizionali e musica concreta. Il più grande tra i compositori che hanno prima sognato e poi appena intravisto le possibilità della musica elettronica. Vorrei comporre con lui un concerto per orchestra ed elaborazione elettronica.

Possibili

Bob Wilson, il regista. Ho sempre trovato bellissime le sue regie, perfette e stravaganti allo stesso tempo. Di grande sensibilità visiva e musicale. Ho visto il suo spettacolo “Einstein on the Beach” già nel 1976, sono rimasto folgorato.

Teatro Nö. Il teatro giapponese è sempre stato un teatro totale che mette insieme musica, canto, e recitazione. Un po’ come il teatro Cinese, ma più essenziale. Mi piacerebbe lavorare con una compagnia di teatro contemporaneo che prenda origine dal teatro Nö o dal più accessibile Kabuki. Ovviamente con l’elettronica.

Questa non è una collaborazione con persone precise, ma per fare una cosa del genere ci sarebbe bisogno di un grande staff di collaboratori.

Mi piacerebbe fare una grande installazione sonora in un grande spazio, tipo in mezzo al mare, oppure in un deserto, tipo il deserto del Gobi e che il suono si potesse ascoltare liberamente per chilometri.

Che rapporto hai con il pop, lo frequenti, te ne occupi? 

Mi sono occupato di pop fino a 19 anni, quando facevo il batterista, e poi subito dopo per mantenermi prima di diventare docente ho fatto la regia del suono nei concerti di musica pop, in particolare per Mia Martini. Dopo non me ne sono occupato più, anche se inevitabilmente i suoi bagliori mi giungono da tante parti e anche se qualche volta ci sfioriamo. Mi sento lontanissimo da lì. Ma certe canzoni le ascolto volentieri. Il fatto è che per ogni bella canzone che ascolti devi sorbirtene altre centinaia insignificanti. E comunque poi mi fanno l’effetto “opera”, si piantano in testa e non ne escono più. Odio il pensiero che la musica si debba canticchiare. È la sua morte, la morte della creazione artistica.

E poi non sono interessato al mondo che gira intorno musica pop. In quell’ambiente tutto sembra ruotare intorno alla musica, ma la musica alla fine è solo un accessorio. Non che l’ambiente della musica contemporanea sia migliore, intendiamoci, questo lo credevo a vent’anni, ma almeno la media dei musicisti preparati è confortante.

Avete portato di recente Inferno in Romania e hai fatto esperienze in giro per il mondo, ad esempio in Cina, Russia, Stati Uniti. Differenze rispetto al modo in cui viene vissuta e accolta la musica nel nostro paese? 

Con Edison Studio abbiamo portato le nostre colonne sonore in tutto il mondo. “Das Cabinet des Dr. Caligari” è stato commissionato dalla Computer Music Conference per la conferenza di Singapore, e poi lo abbiamo portato a Los Angeles e al Festival di Musica Elettronica di Bourges. “La Corazzata Potemkin” di Ėjzenštejn lo abbiamo eseguito a Mosca al festival dell’unione dei compositori russi. È stata una grande emozione sia per noi che per loro. L’accoglienza dei nostri concerti è sempre stata di grande entusiasmo, sia in presenza di un pubblico specializzato di festival di musica elettronica, sia in presenza di un normale pubblico del cinema commerciale. E in Romania abbiamo portato “Inferno” al Festival del cinema della Transilvania. Un festival che propone ogni anno un centinaio di film con le sale sempre strapiene di giovani entusiasti. È la dimostrazione che un tipo di lavoro come il nostro mette d’accordo sia il grande pubblico che il pubblico più esigente.

In genere negli altri paesi mi sembra ci sia più entusiasmo per la musica e gli spettacoli. Sarà forse che il fascino esercitato da un artista straniero esiste dappertutto, non solo da noi. In Italia questo fenomeno è particolarmente evidente. Ne ho avuto una dimostrazione già tanti anni fa quando Mark Dresser, noto contrabbassista americano, affascinato dall’Europa e dall’Italia in particolare, scelse di abitare a Roma. Dopo un paio di anni, in cui facemmo anche concerti insieme, Mark è stato costretto a tornare a New York, non riuscendo a trovare abbastanza concerti per sopravvivere. Da allora ha ripreso a lavorare moltissimo. Dopo qualche tempo ci siamo risentiti e mi ha detto: “Ho capito finalmente cosa devo fare per fare concerti ben pagati in Europa: devo abitare a New York.”

Ho una fascinazione particolare per l’Iran e quindi mi incuriosisce particolarmente “Zarbing”, il lavoro che avete allestito per percussioni persiane ed elettroniche: me ne parli? Che rapporto hai/avete con le musiche del mondo? 

Mi sono interessato alle musiche del mondo fin dal periodo degli studi. Negli anni ’60 frequentavo a Rimini un negozio di dischi che faceva importazioni da tutti il mondo. Oltre alle ultime novità della musica rock internazionale aveva un reparto grandissimo di dischi di musica etnica con lp introvabili da qualsiasi altra parte. Passavo ore e ore a guardare le copertine e ogni volta uscivo dal negozio con almeno un paio di dischi. Fin dalle prime scoperte, la musica balinese e indiana, le musiche di altre culture mi hanno aperto la mente. Non esiste solo la musica occidentale, ma ogni cultura ne ha una altrettanto profonda e altrettanto complessa quanto la nostra.

Queste musiche sono per me fonte di ispirazione e di emozione infinita, ne ho studiato anche le scale musicali, i ritmi e le strutture.

L’incontro con la musica persiana è avvenuto nel 1996. Avevo ricevuto dall’IMEB di Bourges una commissione per comporre un pezzo per percussione ed elettronica. Dopo essermi preparato il materiale per un pezzo per percussioni occidentali, all’arrivo in Francia incontro il percussionista che doveva suonare il mio pezzo, docente al conservatorio di Bourges. Mi aspettavo un musicista francese, invece trovo Mahamad Ghavi Helm, musicista iraniano residente in Francia. La sera mi invita a casa sua e scopro una casa piena di percussioni persiane, soprattutto zarb e daf. Lui incomincia a farmi sentire un po’ di suoni e io gli chiedo: “perché non facciamo un pezzo con questi strumenti?” e lui mi risponde: “se fai un pezzo con questi strumenti io lavorerò giorno e notte per suonarlo al meglio”. Così è iniziata la mia avventura nella musica persiana ed è nato “de Zarb à Daf” per zarb, daf ed elettronica. Con Mahamad abbiamo lavorato per mesi a questo pezzo, basato sui ritmi della musica persiana che vengono moltiplicati attraverso l’elaborazione elettronica fino a diventare una struttura ritmica complessissima. Mahamad conosce profondamente la musica tradizionale persiana, ma conosce anche perfettamente la musica contemporanea occidentale, per questo ci siamo trovati molto in sintonia. Ha accompagnato per anni uno dei più famosi cantanti persiani, Mohammad Reza Lotfi, e ha studiato con Sylvio Gualda, uno dei più grandi percussionisti contemporanei francesi. Da allora siamo diventati grandi amici ed abbiamo suonato questo pezzo molte volte in giro per il mondo, perfino al festival internazionale di musica persiana a Stoccolma, dove io ero il solo musicista non iraniano.

Successivamente anche gli altri compositori di Edison Studio hanno realizzato delle composizioni per lui, e così abbiamo realizzato “Zarbing”, il cd e il concerto che è costituito da pezzi per zarb, daf su testi del poeta persiano Jalàl ad-din Rûmi.

Come Edison Studio state per compiere 30 anni: mi racconti una vostra giornata-di lavoro-tipo, come vi siete incontrati e come siete soliti lavorare? La democrazia applicata alla musica funziona? 

Ci siamo incontrati a metà degli anni ’90 all’Edipan, che era uno studio di registrazione e una casa discografica a Roma. A quei tempi stava producendo alcuni dei radiofilm di cui ho parlato prima. Dato che i tecnici audio non erano pratici della produzione di musica elettronica, avevano chiesto a me ed alcuni altri compositori di fare il lavoro tecnico per chi non aveva esperienza di produzione elettroacustica. Alla conclusione dei radiofilm eravamo diventati un gruppo affiatato di compositori che lavorava con la musica elettronica, e partendo da Edi-pan si siamo chiamati Edi-son.

La realizzazione delle colonne sonore per i film muti è iniziata un po’ per caso qualche anno dopo, quando Walter Prati ci ha proposto di realizzare la colonna sonora per il film “Gli ultimi giorni di Pompei” al suo festival a Milano.

A differenza di tanti altri gruppi che fanno concerti con i film muti, creando un accompagnamento in genere improvvisato senza alcun rapporto con il film se non per la compresenza, noi abbiamo deciso di studiare profondamente il film per poi creare una vera e propria colonna sonora. Per fare questo adoperiamo non soltanto i suoni musicali, ma anche i suoni d’ambiente e, a volte, le voci. La prima realizzazione è andata talmente bene che da allora questa è diventata la nostra attività principale come gruppo. Realizzare una colonna sonora di questo tipo richiede ovviamente molto tempo, in genere oltre sei mesi di lavoro di 4 persone. Non c’è solo una giornata tipo in quello che facciamo, perché il nostro lavoro si svolge attraversano molte fasi.

Innanzitutto analizziamo il film per ottenere uno schema preciso della struttura delle scene. Questo è il punto di partenza che ci permetterà poi di pensare una colonna sonora coerente. Da qui parte un periodo di lavoro individuale, in cui ciascuno sperimenta liberamente i suoni sulle varie parti del film che lo ispirano di più. Quando abbiamo creato una certa quantità di materiali sonori inizia la fase di confronto in cui insieme ascoltiamo tutto il materiale prodotto. Ci saranno parti del film con proposte precise e altre con proposte appena abbozzate, e ci saranno parti in cui ancora nessuno ha proposto nulla.

In alcune sezioni capita anche che ci siano più proposte che si sovrappongono. In questo caso cerchiamo di capire se le varie idee possono coesistere. All’inizio ci sembrava difficile, ma abbiamo scoperto che nella maggior parte dei casi le idee possono convivere, e anche con risultati inaspettatamente suggestivi.

Con un lavoro di missaggio adeguato si possono mettere insieme idee musicali che ad un primo ascolto sembrano incompatibili. Questo è un momento molto interessante. La composizione viene elevata ad un tipo logico superiore, diventa una composizione di composizioni. In un film ci possono essere molte stratificazioni di suoni diversi: diverse musiche, diversi rumori d’ambiente e anche molte voci. Tutto ciò costituisce un agglomerato sonoro complesso e noi da compositori cerchiamo di organizzare il tutto in una unica struttura.

Nel cinema tradizionale questo non capita quasi mai perché il lavoro sul suono è diviso tra tante competenze considerate tecniche, e il lavoro musicale (quello di commento strumentale per intenderci) è lasciato di solito ad un unico compositore. Si creano così due mondi separati, musica astratta e suoni concreti, che si riuniscono solo alla fine, e spesso in modo approssimativo, mentre noi lavoriamo come se tutto il suono fosse una unica composizione.

Nella produzione di una singola colonna sonora le fasi di creazione individuale, di verifica e di decisione collettiva si ripetono molte volte, fino a che tutte le parti sono completate.

Essendo quattro compositori “alla pari” a volte non tutti siamo della stessa opinione, e ci sono discussioni, ma non ci sono mai stati punti di rottura insanabili. Tutto sommato musicalmente, pur avendo ognuno una precisa individualità, siamo abbastanza compatibili. Per opinioni musicali incompatibili, in trent’anni abbiamo litigato solo un paio di volte.

Molti altri compositori si stupiscono della nostra capacità di lavoro collettivo, ma di solito i compositori hanno una mentalità molto individualista, l’immagine collettiva del “compositore” è ancora oggi quella del genio solitario. Personalmente credo che questa sia una eredità del passato, oggi utile solo al business che alimenta la cultura dello star system. Vediamo oggi che in qualsiasi campo dell’attività umana i risultati più soddisfacenti sono dati dal lavoro collettivo e credo che questo valga anche per la musica.

Il genio creativo sarebbe ora di lasciarlo per sempre ai romantici decadenti.

Concludo con una citazione di Kafka, a cui vorrei rispondessi dicendomi cosa ti fa venire in mente: 

“Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio.
Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere”.

Le sirene sono il potere che ci sovrasta e che desideriamo ogni giorno sconfiggere, ma a questo potere non riusciremo mai neanche ad avvicinarci.