CINDYTALK

Cindytalk

Un racconto lunghissimo. Trent’anni di storia personale e di storia della musica che ci piace ascoltare. Quasi quaranta se consideriamo le parole dedicate ai suoi The Freeze. Si risale fino al grande spartiacque del punk, insomma. A cuore aperto Gordon Sharp/Cinder parla anche dei suoi difetti, delle sue delusioni, ci dice qualcosa che non avevo capito sul nuovo album e – capita sempre più di rado – ci dice pure la sua sulla società odierna, senza tagliar corto. Lungo la strada, tanti incontri: Hampson, gli Splintered, i This Mortal Coil, l’esplosione della techno, la letteratura e l’arte che stanno dietro le mille citazioni presenti nei titoli dei suoi dischi o nel libretto… tutto è collegato, tanti punti si possono unire con linee ancora non tracciate. Armatevi di pazienza, stavolta dovrebbe proprio valerne la pena.

Che rapporto hai nel quotidiano con le nuove tecnologie? Per esempio: sei uno di quelli dipendenti dal proprio smartphone? Percepisci gli aspetti alienanti di queste cose o preferisci vedere soprattutto le possibilità creative che il laptop ti ha dato?

Gordon Sharp/Cinder: Non sono luddista, ma nemmeno particolarmente innamorato dei gadget. Ho avuto per un po’ un iPhone, ma qualche anno fa me l’hanno rubato mentre suonavo a un piccolo festival a Londra. Non ne voglio comprare un altro. Adesso ho un telefonino stupido che a malapena funziona e mi distrugge la vita sociale, dato che incasina anche il più rudimentale tentativo di pianificare qualcosa con gli amici.

Di sicuro sono sempre curioso quando si tratta di nuove tecnologie, ma sono molto lontano dall’essere quel tipo di persona che su tutto deve fare un update/upgrade, continuamente. Tutto quello di cui ho bisogno è qualcosa che mi assista nel mio lavoro, non mi preoccupa che sia tecnologia nuova o vecchia, o l’ultimissima versione, a essere onesto. Di certo comprendo quel senso di sconnessione con gli smartphone, con le nuove tecnologie (Google Glass)… la retina collettiva adesso sta davvero bruciando in questa decadente società dello spettacolo. Ho una sensazione distopica: sotto questi aspetti noi siamo andati molto oltre quanto sappiamo gestire. L’esempio migliore è che una delle prime storie legate alla tecnologia della stampa in 3D sia quella di qualcuno che s’è costruito un’arma. Ovviamente è accaduto negli Stati Uniti. C’erano racconti di segno opposto nei quali si parlava di un più positivo uso sociale della cosa, ma resta comunque un esempio di quanto siamo in realtà primitivi. La tecnologia si è evoluta più velocemente di noi. Abbiamo un bisogno disperato di fare anche noi un balzo evolutivo. E presto.

In ogni caso ho sentimenti contrastanti. Sono sempre stato un avido lettore di fantascienza per tutta la vita, mi interessa molto di più il domani che lo ieri. Con la mia stessa musica ho sempre tentato di muovermi avanti come meglio potevo per tutti i trentasei anni nei quali l’ho fatta. Mi ricordo di quando ci fu l’esplosione della techno nei primi Novanta e c’era questo continuo discorso sul suo essere o non essere vera musica a causa della mancanza di vera strumentazione. “Coglioni techno senza volto” era il grido da ritardati della stampa rock, come se usare gli stessi accordi e la medesima forma canzone per decenni desse più legittimità ai “musicisti veri e propri”. Per me, anziché sentire la solita vecchia canzone dalle rock band, è più interessante ascoltare i dj mischiare strutture diverse, la loro musica e la musica di altri, sovrapporre tracce per creare nuove trame. Avevo sempre voluto decostruire (distruggere) quelle vecchie strutture con Cindytalk, così all’epoca m’era sembrato proprio un “mondo nuovo”. Sembra esserci ancora un fossato tra la strumentazione convenzionale e i computer e sento tuttora le stesse grida di chi dice che gli artisti che usano il computer rispondono alle loro email quando sono sul palco… non me ne può fregare di meno. Perché ti vuoi negare una qualsiasi possibilità quando si tratta di creazione? Sono sempre felice di lavorare con una band se si giunge ai risultati voluti, ma vedo in tutto e per tutto il computer come uno strumento, un mezzo che mi assiste nel realizzare la mia visione. In quanto cantante, in origine, non ho mai avuto molto equipaggiamento, avevo sempre un occhio nel governare il progetto nel suo insieme. Erano i “musicisti” nel collettivo che compravano e usavano i giocattoli. Vedevo le cose in maniera diversa, così quando mi sono messo da solo col mio computer ho cercato di far restare tutto semplice e di non entrare in tutto questo circo pornografico dell’equipaggiamento musicale.

Mi piacerebbe sapere quali erano i tuoi pensieri nei giorni in cui stavi diventando un “laptop musician”. Controllo completo sul processo creativo…

La sensazione prevalente in quel preciso momento era sollievo. Come dicevo prima, ero il cantante in un collettivo sperimentale, ma – per il modo in cui lavoravamo e anche se dirigevo io la musica – non ero in alcun modo un musicista tradizionale. Ero più un non-musicista à la Brian Eno. Tra il 1997 e il 2000, quando mi sono ritrovato senza una band, in un paese estero (Stati Uniti), non in grado di individuare i musicisti giusti coi quali proseguire il mio viaggio de-costruttivo, mi sono rivolto al giradischi per tagliuzzare i suoni, in uno sforzo di spingermi lungo nuove strade. Dopo un paio di anni vissuti come un terribile – però malefico – dj, ho capito che dovevo trovare un modo migliore per creare musica e mi sono preso un laptop. Ho iniziato così un percorso di apprendimento che è ancora lontano dal raggiungere il suo apice. C’è stato un periodo di più o meno cinque anni nel quale ho provato una profonda frustrazione per il non essere capace di proseguire Cindytalk nel modo che volevo, pensavo spesso che non fosse una questione di mancanza di idee a fermarmi, ma proprio la mia incapacità di trovare nuovi sistemi per fare le cose. Insomma, il computer non mi sembrò la scelta più logica, all’epoca sembrò proprio l’unica scelta. Il sollievo era il sentimento principale sì, seguito subito dopo dal realizzare che avrei potuto creare un nuovo viaggio per Cindytalk, uno che avrei potuto intraprendere con la mia velocità e la mia determinazione. C’è stato come un senso di definitiva liberazione nel compiere questo passo. Non sono convinto di riuscire ad abbracciare il concetto di “completo controllo del processo creativo” però! Non penso di essere quel tipo d’artista che ha il completo dominio su quello che fa. Mi piacciono il non-conoscere, l’accidente, l’errore. Volo alla cieca per la maggior parte del tempo. Questo non vuol dire che non ci sia una visione d’insieme, ma significa che mi arrendo volutamente al caso un po’ troppo spesso per essere una sorta di maestra dei miei mezzi. O forse questo è l’essere in controllo del processo creativo, essere in grado di arrendersi al caso con un computer (!!?).

Non mi sono mai ritenuto così tecnologicamente accorto, così si è sempre trattato di una strada accidentata per me. L’idea di portare live la mia musica era molto difficile da realizzare. Mi piace il punto in cui mi trovo ora, a riguardo: architetture di “sturm und drang sonoro” preparate prima con una voce umana che improvvisa nel tentativo di dare un senso al tutto…

Cindytalk

Consideri come una trilogia The Crackle Of My Soul, Up Here In The Clouds e Hold Everything Dear (sono stati creati nello stesso periodo, credo). Che cosa inizia ora con A Life Is Everywhere?

Li considero una trilogia solo in senso ampio. Una trilogia perché sono stati i primi tre lavori in una nuova direzione per Cindytalk e sono stati realizzati con uno stile più o meno coincidente. Anche se questo è accaduto principalmente perché all’epoca non c’era uno sfogo per loro. Non c’era una etichetta specifica alla quale indirizzarli. Ho anche riflettuto sul pubblicarli tramite una mia label, ma non sono mai stato sicuro della mia capacità di fare una cosa del genere adeguatamente. Da qualche parte nella mia testa speravo sempre che qualcuno mostrasse interesse e pubblicasse i dischi per me, così non mi sarei ammazzato con un’etichetta senza distribuzione. Quando questo è successo, tutti e tre gli album erano vicini al completamento.

Al momento A Life Is Everywhere è semplicemente il seguito di Hold Everything, Dear e precede quello che arriverà dopo. Ora come ora non so cosa arriverà dopo, ma io cerco sempre di andare avanti. A Life Is Everywhere è deliberatamente più percussivo dei suoi predecessori e sospetto che seguirò questa strada ancora per un po’, con l’intento di sperimentare un groove “astratto”.

Dopo trent’anni nei quali hai tentato di ottenere musiche non convenzionali, cosa ti fa ricominciare di nuovo ogni volta? E chi o che cosa ascolti nel 2013? Roba vecchia o nuova?

La musica è il mio modo di comunicare. Non sono proprio un drago quanto a socievolezza, tendo a rinchiudermi, quindi il mio modo di condividere ciò che sono con la gente è creare suoni e usarli in modo poetico. Finché respirerò, vorrò comunicare, perciò immagino che continuerò a far musica per conversare col mondo, fino a quando ci potrà essere qualcuno in ascolto. Ho sempre pensato alla cosa come a qualcuno perso nello spazio, che sta mandando un segnale radio nella speranza che qualcun altro lo senta e gli risponda. C’è del pathos in questo, del romanticismo: ogni giorno ti svegli e vedi se il tuo segnale ha raggiunto una stella sconosciuta.

Ascolto un misto di musica vecchia e nuova, ma se possibile soprattutto nuova. Ultimamente mi stanno piacendo Raime, Ancient Methods, Emptyset, KTL, Dead Fader, Broken Note, The Outside Agency, Katharsys, Cortex, Baseforce One, Ekoplekz. Mi piace un sacco di vecchia roba dub, King Tubby, Scratch Perry… e mi piace pure l’afrofunk. “Musica classica”: Arvo Pärt, Sofia Gubaidulina, Victor Silvestrov… Autechre, musica tradizionale giapponese.

Mi piace sempre la musica che ascoltavo da giovane, così “vivo” ancora con Eno/Roxy Music, Bowie, Van Der Graaf Generator, Joy Division, Clock Dva, The Pop Group…

C’è soprattutto una cosa che adoro nei nuovi dischi di Cindytalk: suoni astratti e rumori fusi con emozioni e sentimenti, in una maniera unica. Stiamo davvero sentendo “il tuo animo crepitare”. È più facile per te di quanto possa sembrare a me?

Ho scelto quel titolo per l’album davvero deliberatamente. Era in parte la risposta emozionale alla musica che stavo facendo, in parte dichiarazione d’intenti e in parte un collegamento alla citazione di Artaud che avevo usato nelle note dell’album. Mi ci ero imbattuto mentre leggevo “Invisible Insurrection of a million Minds” di Alexander Trocchi: and if there is still one hellish, truly accursed thing in our time, it is our artistic dallying with forms, instead of being like victims burnt at the stake, signalling through the flames. Cosa interessante, non ho più sentito il bisogno di aggiungere citazioni alle copertine dei miei dischi, quella regge per tutto il mio lavoro attuale e forse anche per quelli del passato. Mi sembra insensato (avere il privilegio di) fare musica che in qualche modo non riesca a bruciare. Sì, stai ascoltando il mio animo crepitare.

Non è che lo trovi particolarmente facile. Mi sa che è la sola scelta che ho. Come dicevo prima, è il mio modo di comunicare e a volte sento che è il mio solo modo di comunicare, di sicuro nella maniera più profonda e risonante, al di là del chiacchiericcio idiota della vita quotidiana. Ho sempre amato il rumore e l’astrazione, ma la mia scelta personale con Cindytalk è di strutturare quei rumori in maniera emozionale per creare forme che sembrino una sorta di poesia sonica. I titoli diventano i versi non cantati, che nella maggior parte dei casi sono collegati direttamente – talvolta indirettamente – al paesaggio emotivo dei pezzi.

Gli Ulver anni fa hanno pubblicato un disco intitolato “Silence Teaches You How To Sing”. Hanno un cantante incredibile, ma per due o tre album l’hanno tenuto in silenzio. Che parte di te parla quando non canti?

Non so nulla degli Ulver ma m’è successo qualcosa di simile con l’album In This World del 1988. In reazione al mio coinvolgimento nei This Mortal Coil ho passato un periodo di tempo nel quale diffidavo della mia voce e così, con In This World, l’ho tolta e al suo posto ho usato il piano. Avevo molta meno familiarità col piano come strumento, penso sia questo il perché l’ho fatto. Ritengo sia chiaro che a me interessi la purezza dei segnali che mando… se sono capace di cantare facilmente brani che non sento davvero, allora forse sono a un punto tale che potrei anche mentire cantando e questo non è mai buono. La stessa cosa è successa con The Wind Is Strong, ho definitivamente smesso di cantare e di usare versi per un po’, anche se alla fine sapevo che li avrei usati di nuovo. Penso che sia così anche adesso. Non ho più usato la mia voce sin da Fiery Planet Eyes (che non è mai stato pubblicato), quindi sin da Wappinschaw (1994). Penso che ogni fibra del mio corpo parli quando non canto. Penso alla fin fine di essere un cantante, ma musicalmente mi sono spostato in luoghi nuovi. In un modo o nell’altro vorrei collegare tutti i miei lavori recenti alla mia voce, come in una sorta di espansione. Quando, come dicevo, ho lasciato la voce per il piano negli Ottanta, s’è trattato della stessa cosa: trovare un nuovo modo di comunicare. In un certo senso mi sono sempre considerato di più un artista che un musicista o cantante, perché io mi baso su di un progetto. Quando non ho potuto più entrare in uno studio con altri musicisti, ho trovato un’altra strada (il computer) per creare musica.

Se non fossi stato capace di fare quello che ho fatto, avrei trovato altre soluzioni: comporre fiori o fotografia. Io ho il bisogno di trovare il modo di dire “ciao”.

Ho campionato “Vivre Sa Vie” di Jean Luc Godard sull’album In This World (in “My Sun”): una conversazione notturna tra il protagonista, una prostituta e un vecchio artista. Il succo della discussione era che noi parliamo troppo e in generale diciamo troppo poco, ecco dunque che il vecchio artista dice alla giovane ragazza che tacere per un po’, allo scopo di ricalibrare le tue idee, è una buona decisione. Si trovava nella traccia-chiave del disco, una canzone dopo io ho smesso di cantare e sono rimasto zitto fino alla fine e anche per tutto il disco successivo.

Come vanno le cose con Editions Mego? Le uscite tipiche dell’etichetta sono un’influenza per te? Peter Rehberg ti aiuta in alcuni aspetti del creare un album (artwork, mastering, ma anche consigli musicali).

Sì, Editions Mego è una costante fonte d’ispirazione. Lo è stata sin da quando a fine Novanta sono diventato conscio dell’etichetta che l’ha originata (Mego). Non mi piace tutto quello che pubblica, ovviamente, ma copre così tanto interessante materiale storico e contemporaneo che finisce sempre per tirar fuori la gemma. Essere dentro Editions Mego mi dà la possibilità di lavorare con artisti visivi come David Coppenhall. Lui si è occupato delle copertine dei miei ultimi dischi. È una gioia enorme per me poter lavorare efficacemente con gente così tanto creativa come Dave e la sua partner Maggi di Sixism Design. I miei album sono passati per il mastering di Marcus Schmickler dei Piethopraxis e di Rashad Becker di Dubplates and Mastering. Non ho mai ricevuto consigli musicali da Peter, anche se una volta ha dato un occhio al mio set per il live e mi ha castigato perché uscivo dal mio pc direttamente dal buchetto per le cuffie! Ho comprato una scheda sonora il prima possibile. C’è stata ingenuità da parte mia, e il non essere in fissa con l’equipaggiamento. Sono molto felice di essere parte della famiglia di Editions Mego.

Quest’anno ho visto per la prima volta dal vivo il Signor Robert Hampson… coi Godflesh! È accaduto al Roadburn Festival. Che ne dici dei Godflesh? Collaborerai ancora con lui? Quale pensi sia il vostro terreno comune? Ho letto che hai grande stima per il suo lavoro.

No, mai stato un grande fan dei Godflesh. Non è il mio tipo di brivido. Troppo hard rock per i miei gusti. Ho apprezzato la musica di Robert sin da quando l’ho sentita nei primi Novanta. Non sono mai stato preso dai Loop, ancora una volta troppo rock per me, ma – non appena Robert ha cominciato a decostruire le sue idee con Main – io ho riconosciuto un compagno di viaggio. Condividiamo il desiderio di esplorare. Siamo sempre costantemente nell’atto di raggiungere nuove possibilità, senza guardare dietro, nella direzione delle glorie passate, anche se ho sentito di recente che ha riunito i Loop per alcuni live… e pensare che aveva sempre detto di non volerlo fare. Ah!

Penso che siamo musicalmente un po’ accostabili, ma abbiamo anche le nostre divergenze. Lui sembra andare in una direzione compositiva seria, mentre io sono sempre lì a tentare di far suonare la mia musica in cantine polverose, accompagnata da macchine per il fumo e strobo. Lui tra l’altro è più addentro il rock classico e i suoi antenati, mentre io provengo da un background di folk celtico, infiltrato da art-glam, punk e dopo in maniera molto pesante dal rave e tutto quello che ha fatto nascere. Spero che lavoreremo insieme ancora un giorno, ma al momento siamo su sentieri diversi. Il futuro ce lo dirà.

Cindytalk

Abbiamo assistito a un grosso revival post-punk. Vedi Camouflage Heart come parte di quel periodo storico? Che hai imparato da quegli anni? Te lo chiedo perché penso che Camouflage Heart sia sottovalutato, un po’ come – per esempio – gli Splintered sono una “post-punk” band sottovalutata (li cito perché tu hai collaborato con loro).

Non sono sicuro che Camouflage Heart o Cindytalk siano comparsi molto in questo revival. Di certo avevamo una mentalità post-punk quando abbiamo iniziato, provenendo da una band punk/post-punk come i The Freeze (Scozia, 1976-1982). Ricordo che leggevo uno dei principali siti post-punk nel periodo in cui si sentiva la nostalgia di quello Zeitgeist e i Cindytalk non erano mai nominati nella lista di band di quell’epoca, quindi non sono persuaso che noi fossimo davvero i benvenuti in quel mondo. Di sicuro non ci siamo mai mossi deliberatamente in quella direzione, e non ci hanno mai invitato a suonare a qualche grosso festival post-punk. A essere onesto, non ho mai fatto troppa attenzione alla scene e spesso penso che ci siano certi codici che tu devi seguire per unirti alla gang. Io però non ho mai voluto far parte di una gang, quindi siamo rimasti fuori dal grosso di queste cose. Troppo spinosi per indossare qualcosa. Io considero i Cindytalk come parte di un continuo coi Freeze, la stessa band, sul serio, quindi abbiamo cominciato nel 1976, vicini all’inizio del punk, ci consideravamo una band punk ma cambiavamo costantemente il sound, perciò nel momento in cui siamo riusciti a pubblicare il nostro primo disco (In Colour, 1979) eravamo nel bel mezzo del periodo post-punk. Questo genere a me sembrava il punk con maggior libertà d’espressione, ma per me il punk era già questo, quindi a noi non importava come questa cosa si volesse etichettare. Ci influenzava anche la musica industrial europea. Nello specifico, Einstürzende Neubauten e Test Dept. ci entusiasmavano… l’idea che ogni suono intorno a noi fosse musica era fondante e la cosa regge ancora adesso. Non so veramente se Camouflage Heart sia sottovalutato o meno. Sono fiero dei primi album di Cindytalk, ma il fatto che alcuni di questi non siano mai stati ristampati dai tempi della prima uscita mi dice che non se ne pensa bene. Camouflage Heart e In This World sono stati oggetto di un “rip off” quando sono stati ristampati dalla Wheesht/Abraxas, quindi per me non conta. Wappinschaw e The Wind Is Strong sono stati stampati una volta e non hanno più rivisto la luce del giorno. Triste.

Per me Richo (leader degli Splintered, ndr) è stato a lungo un buon amico e un compagno di viaggio. Gli Splintered e i Cindytalk fecero uno split su sette pollici per il magazine Grim Humour nei primi Novanta. Ho fatto un paio d’anni fa un’uscita collaborativa per la sua Lumberton Trading Company (uno split con Philippe Petit, ndr) e lui mi ha invitato a realizzare qualcosa anche con Fourth Dimension. Decisamente uno con cui posso sempre lavorare.

Forse i nostri lettori non ne sono a conoscenza, ma live Cindytalk è un’altra esperienza. Dove ti vedremo nei prossimi mesi?

Uno dei miei più grossi desideri per Cindytalk è quello di creare una situazione live vibrante e free form. Idealmente vorrei poter disporre di tante versioni differenti. Una band completa come una basata su computer-voce-batteria. Voglio essere libero di cambiare, di mutare forma. Penso sia già chiaro che quando andiamo dal vivo abbiamo l’atteggiamento di chi vuol far terra bruciata. Raramente guardiamo indietro verso il vecchio repertorio, quindi nessuno s’aspetti i “vecchi classici”, che sono solo una piattaforma per la pura improvvisazione, per creare cose nuove mentre suoniamo. In realtà noi facciamo questo sin dai tardi Settanta. Abbiamo sempre suonato live canzoni nuove mai provate, sia come The Freeze sia come Cindytalk in epoca post-punk, solo che adesso questo modo di fare è pienamente sviluppato: un tappeto sonoro creato coi suoni dei miei album su Mego e il mio cantato improvvisato in questo paesaggio. Una collisione tra intensità digitale pre-impostata e una voce umana perduta, che cerca di far presa su piccole parti di melodia e ritmo.

Ora sto lavorando a un nuovo disco per Editions Mego. C’è un altro album intitolato In A World Without Hope, che verrà pubblicato quest’anno su Handmade Birds. Spero di suonare in Europa quest’autunno. Di sicuro Londra, spero l’Italia e possibilmente altri luoghi del continente. Incrociamo le dita. Mi hanno invitato in Australia (e spero Nuova Zelanda). Ci andrò la prossima primavera, augurandomi di passare per il Giappone per qualche altro show.