JAMES HORNER, Gorky Park OST

Un cordoglio ampio e condiviso ha fatto seguito alla morte di William Hurt, arrivata lo scorso 13 marzo dopo una strenua lotta, durata ben quattro anni, contro un tumore alla prostata. Addetti ai lavori e semplici appassionati hanno ricordato il talento, la sensibilità e la versatilità dell’attore americano.

Tra i protagonisti della rinascita hollywoodiana degli anni Ottanta, di cui rappresentava l’alternativa alla sfrontatezza yuppie, Hurt era un sex-symbol rassicurante, capace di mettere d’accordo madri e figlie. Proveniente da una famiglia benestante, dopo gli studi universitari in teologia era approdato al grande schermo con un film, in verità, tutt’altro che accondiscendente: il visionario “Stati di Allucinazione” del controverso regista britannico Ken Russell.
In seguito erano arrivate le parti ne “Il Grande Freddo”, “Turista per Caso”, “Fino alla Fine del Mondo” e anche un Premio Oscar per “Il Bacio della Donna Ragno”, adattamento dell’omonimo romanzo dello scrittore argentino Manuel Puig. Negli ultimi anni, Hurt aveva ridotto la presenza sulle scene, ma si era comunque ritagliato un suo spazio anche nel chiacchierato Marvel Cinematic Universe: dava, infatti, volto e voce al generale Thaddeus Ross, storico avversario dell’irascibile Hulk. E così, in occasione della sua morte, nei numerosi omaggi alla lunga carriera che fiorivano sui diversi social-network, si poteva scorgere una netta separazione generazionale: gli spettatori più adulti, dai quarant’anni in su, ne celebravano la seminale prima parte di carriera, mentre i più giovani lo piangevano ricordando proprio le apparizioni più fumettose.

In pochi hanno citato “Gorky Park”, film del 1983 tratto dal romanzo giallo di Martin Cruz Smith: eppure si tratta di una delle interpretazioni più iconiche di Hurt. Come ha sottolineato l’Agi, Hurt manteneva spesso “un’aria misteriosa da agente della cortina di ferro”. Nella pellicola, firmata dal solido mestierante Micheal Apted (pure uno 007 nel suo curriculum), si racconta dello scontro tra Arkadij Renko, giovane e ligio ispettore della polizia di Mosca, interpretato proprio da Hurt, e Jack Osborne, lo sfacciato commerciante di pellicce americano con le fattezze di Lee Marvin. Con la sua ambizione e i suoi modi spregiudicati, Osborne corrompe funzionari statali, anticipa l’avidità e la sperequazione tipiche della deriva capitalista della Russia post-sovietica e non si fa ovviamente problemi a lasciare qualche cadavere (possibilmente sfigurato) sulla sua strada. Il film in sé è solido e anche avvincente: pur non rientrando tra i capolavori del genere, riesce a trasmettere efficacemente quella sensazione di smarrimento totale così tipica del noir. Infatti, come hanno scritto sul tema una volta gli amici de I 400 Calci: “a un certo punto le vicende diventano così complicate ed escono talmente tante scatole cinesi che ti senti perso assieme ai protagonisti, irrimediabilmente soli”. Una perdita di riferimenti e una solitudine di cui il protagonista di “Gorky Park” sperimenta su più livelli: infatti, mentre si addentra nelle profondità dell’intrigo criminale, Arkadij è costretto a riconoscere il crescente tasso di corruzione che tocca tutti i livelli delle istituzioni sovietiche, dall’ufficio del procuratore fino al temibilissimo Kgb.

Il film, che non riesce a trasmettere appieno la succitata sensazione di disorientamento e vuoto, è però arricchito dalla colonna sonora di James Horner. Il compositore, che nel 1997 arriverà anche lui a trionfare alla notte degli Oscar (ben due per lo score di “Titanic”), è qui in una delle sue prime prove, ma confeziona un commento sonoro già assolutamente personale e spesso sorprendente. A partire dall’iniziale “Main Title”, dove mette subito in mostra sia i riferimenti orchestrali (palesi i riferimenti a Pyotr Ilich Tchaikovsky) sia le intromissioni elettroniche, evidentemente debitrici delle esperienze già seminali di Carpenter e dei Tangerine Dream cinematografici, che caratterizzano l’intera soundtrack. Le influenze sintetiche tornano e dominano, infatti, nella successiva e più massiccia e ritmicamente serrata “Following Kirwill”. Tutta l’opera ricerca una delicata alternanza: “Irina’s Teheme” è un delicato climax orchestrale, a cui fanno subito seguito i tre minuti quasi electro e angosciosi dell’accoppiata “Following KGB” e “Chase Through the Park” (più marziale la prima, più frenetica la seconda), perfette nel descrivere la crescente sensazione di disagio e di isolamento del protagonista William Hurt. “Arkady And Irina” sceglie un inedito minimalismo lirico per rappresentare il combattuto rapporto sentimentale dei due personaggi citati nel titolo. “Faceless Bodies” prosegue poi sulle stesse coordinate sperimentali, mentre il trittico conclusivo, che racchiude i brani dal minutaggio più corposo dell’intera colonna sonora, cerca una sintesi: a prevalere è forse l’influenza più classica (che domina per intero l’evocativa “Airport Farewell”), ma si conferma la comunque coraggiosa solidità di una soundtrack forse acerba, ma anche assai atipica rispetto la successiva produzione di Horner, più rassicurante e inevitabilmente prevedibile.