In space no one can hear you dream: Alien, Goldsmith, Mathieu

In space no one can hear you dream: Alien, Goldsmith, Mathieu

“Alien” di Ridley Scott è storia. Mother, il cervello elettronico che gestisce l’astronave-cargo Nostromo, sveglia l’equipaggio dall’ipersonno (necessario per non morire di vecchiaia attraversando lo spazio) perché ha ricevuto un SOS da un pianeta sconosciuto: la perlustrazione di questo pianeta si rivela avventata e uno dei protagonisti torna a bordo con un ospite molto indesiderato.

Una copia del film è custodita dall’americana Library Of Congress. Così quest’istituzione lo tramanda ai posteri:

This film’s appeal may lie in its reputation as “a haunted house movie in space”. Though not particularly original, “Alien” is distinguished by director Ridley Scott’s innovative ability to wring every ounce of suspense out of the B-movie staples he employs within the film’s hi-tech setting. Art designer H.R. Giger creates what has become one of cinema’s scariest monsters: a nightmarish hybrid of humanoid-insect-machine that Scott makes even more effective by obscuring it from view for much of the film. The cast, including Tom Skerritt and John Hurt, brings an appealing quality to their characters, and one character in particular, Sigourney Weaver’s warrant officer Ripley, became the model for the next generation of hardboiled heroines and solidified the prototype in subsequent sequels. Rounding out the cast and crew, cameraman Derek Vanlint and composer Jerry Goldsmith propel the emotions relentlessly from one visual horror to the next.

Well, it’s an interesting combination of elements, making him a… tough little son-of-a-bitch.

Certamente per motivi economici, ma non solo, “Alien” è diventato un mito dal quale estrarre seguiti, antefatti e – last but not least – una marea di brutte copie (uno dei primi film “da grandi” che ho visto al cine è “Leviathan” del 1989, mezzo “Alien”, mezzo “La Cosa”). Va considerata poi la sua espansione verso altri regni della creatività, penso ai fumetti e ai videogiochi, ma anche alla musica. Come nota Peter van Cooten su Headphone Commute, già Sleep Research Facility si ispirò all’interno della Nostromo  e ai suoi suoni per costruirci intorno un album nel 2001. Ho tratto dal libretto di questo disco il titolo del mio pezzo, che per coincidenza (o no?) si adatta come un guanto al lavoro commissionato a Stephan Mathieu dal museo ZKM di Karlsruhe, dal titolo Before Nostromo. Mathieu mi ha invogliato a risalire per gioco alla sorgente e a capire perché nel 2015, quasi quarant’anni dopo, andiamo  – come dichiara l’artista tedesco – a omaggiare il sound design di questo film.  Sterile, almeno da parte mia, tornare sulla meraviglia ottenuta da Scott e da H.R. Giger per la parte visiva, che è quella che tutti ricordiamo e conosciamo anche solo indirettamente. Provo piuttosto a scrivere della sua musica e, appunto, del suo “progetto sonoro”: anch’essi hanno parlato a qualcuno e lo hanno convinto ad agire.

Alien‘s sets and special effects are well done, but these things no longer surprise or tantalize us as they once did (un lungimirante Vincent Canby del NY Times, nel 1979)

Photo by Robert Penn - © 2003 Twentieth Century Fox. All Rights Reserved.
Photo by Robert Penn – © 2003 Twentieth Century Fox. All Rights Reserved.

Il compositore Jerry Goldsmith (1929 – 2004), un gigante che nella sua vita ha composto colonne sonore di ogni tipo per quasi cinquant’anni, all’epoca aveva da poco vinto il suo unico premio Oscar grazie a “The Omen” e si era occupato di altri film di genere fantascientifico e horror. Trascuriamo tutta la storia di contrasti tra lui e il regista e di come il suo lavoro originale abbia subito una sorta di taglia e cuci, raccontata per filo e per segno nell’edizione integrale dello score curata dall’Intrada nel 2007, e concentriamoci sul fatto che – accanto all’orchestra tradizionale – Goldsmith si serve dell’Echoplex per effettare e propagare all’infinito – nello spazio, appunto – il suono di alcuni strumenti, compreso quello di una conchiglia indiana che diviene il suo “drone alieno” per il film. Questo drone, combinato con lo stridore volutamente randomico dei violini sulle note più alte, apparve all’epoca così caratteristico, insettoso e inumano che Scott lo impose come apertura di tutto, non solo come commento all’esplorazione del relitto dove i protagonisti trovano le uova extraterrestri. Un altro passaggio da sentire per l’uso del tape delay sono le due note di flauto – ripetute accelerando – che fanno da sottofondo al risveglio dell’equipaggio del Nostromo dall’ipersonno, una traccia che rende bene il progressivo riprendere le funzioni vitali. Fa riflettere come il live processing di uno strumento sia una tecnica fondamentale anche per Mathieu, uno dei tratti distintivi della sua estetica, con la differenza che lui ha pure un laptop a sua disposizione. Al di là di questo collegamento un po’ forzoso, pare proprio che come sempre fantascienza, thriller e horror, estremi nel dna, siano i luoghi più vicini musicalmente alle cose che seguiamo, basta ricordarsi – tanto per fare un esempio attuale – che nel 2014 Mica Levi ha ricevuto gli elogi di tutto l’underground col suo lavoro per “Under the Skin” di Glazer, senza dimenticare i riconoscimenti mainstream.

Attenzione: s’è visto che Sleep Research Facility e Stephan Mathieu si riferiscono al sound design della pellicola, non a Goldsmith. A livello di ambiente sonoro, per “Alien” si è mosso persino Michel Chion, studioso francese dell’audio nel cinema (libri su Lynch, su 2001 di Kubrick…) e tra i primi a realizzare lavori di musica concreta: nel suo “L’audiovisione” scrive che il team di Scott usava la cacofonia per aumentare il realismo della rappresentazione, lo stesso – integro io – presente anche nelle scenografie e nella “lotta di classe” dei “macchinisti” Brett e Parker. Si possono portare molti esempi: il rombo costante dei motori (anche, assurdamente, se visti dallo spazio), il circolare continuo dell’aria all’interno della Nostromo, il vento devastante del pianeta visitato dai nostri eroi, il “drone” associato alla nebbia azzurra che avverte le uova del passaggio di qualcosa nelle loro vicinanze, il suono schifoso del “facehugger”, l’assenza di musica, sostituita da grida e piatti che si rompono, al momento dell’uscita della creatura dal petto dell’attore John Hurt, le sirene d’allarme. Per tutti questi aspetti, oltre al dvd come metodo per verificare le mie fonti, mi è stato utile questo breve articolo. Per parte mia, ma credo proprio che qualcuno lo abbia già notato, il trailer originale di Alien manda a casa tutte le scene noise contemporanee (Goldsmith e melodie del tutto assenti, e io mi cago ogni volta addosso).

Before Nostromo

Abbiamo già incrociato due volte Stephan Mathieu e osservato il suo metodo di lavoro. La trama che segue qui è semplice: ogni membro dell’equipaggio del Nostromo, gatto e – terrificante, a pensarci – Ash compresi, sognano subito prima di svegliarsi dall’ipersonno. Mathieu si serve di un armamentario per lui familiare: piano, gong, radio a onde corte, tape loops e quelli che chiama “entropic processes”, ovverosia, secondo la spiegazione fornita da egli stesso, registrare un segmento musicale, poi registrare questa stessa registrazione e così via, scarnificando sempre più ciò da cui si è partiti (se vi vengono in mente per analogia i Disintegration Loops, ecco… non siete i primi). L’intervento digitale qui, se c’è, arriva solo alla fine. Del resto a Goldsmith, per protrarre all’infinito un suono, bastava l’analogico… e dobbiamo tener conto del fatto che Mathieu proviene sì da una scena legata a doppio filo al computer, ma anche che l’ha rimessa sempre in discussione, interessandosi al suono acustico puro e a tecniche di editing “tradizionali”.

Senz’andare troppo fuori tema: Before Nostromo è costituito da nove tracce drone, scontornate e vaghe, che si portano dietro la malinconia tipica del loro autore, un filo spesso d’inquietudine, inevitabili richiami al contesto uditivo dell’astronave (il respiro, l’aria messa in circuito, i motori richiamati coi gong…) e qualche legame col personaggio a cui sono dedicate: quella per Kane, ad esempio, è molto cupa, quella per Ash sembra un video che va in buffering, quella di Ripley sta al centro e ha il minutaggio più lungo… L’artwork è clamoroso, perché a volte sembra imitare le forme delle creature di Giger utilizzando oggetti che mai avremmo associato ad esse, come fa chi al cinema deve simulare il suono di qualcosa d’inventato…

Un ultimo rimuginio: pochi mesi fa ci siamo imbattuti felicemente in Colony di Josh Graham, score di un film immaginario nello spazio, con grafiche iperrealistiche a ricostruirne il mondo. Scene di appartenenza differenti, approcci differenti: è Graham troppo presuntuoso e ingenuo nel mettersi a ricostruire tutto ex novo per poi musicarlo o è Mathieu troppo postmoderno nell’accettare l’incarico di chiosare un piccolo frammento di una narrazione già esistente? Ai posteri l’ardua sentenza, io intanto con questo pezzo vi ho suggerito almeno quattro dischi…