GODFLESH, Purge

Ero al Roadburn nel 2013 quando Broadrick e Green – ospite Hampson dei Loop (che su quel disco c’era) – suonarono tutto Pure del 1992. Questo significa che il nome Godflesh è sacro già da decenni e che ogni album in uscita oggi con sopra questa scritta non può cambiare la Storia. Purge, secondo Broadrick, a livello di beat riprenderebbe le suggestioni hip hop di Pure, tanto è vero che le aperture di entrambi i dischi mettono in chiaro questo sin da subito. Poi, però, almeno secondo me, questo discorso lascia il tempo che trova: abbiamo a che fare con un uomo in grado di riprodurre ogni sezione ritmica esistente e di farla sua, merito anche della varietà di suoni che ha assorbito a Birmingham, dove ha vissuto, per questo da lui abbiamo ascoltato techno, dub (sentite gli Zonal), hip hop, drum’n’bass (sentite Us And Them), nessun beat (Final). Ma è davvero il motivo per cui tutti adoriamo i Godflesh? No. Quando si rimette sui Godflesh, oltre a collaborare con un bassista spaccapavimenti, a livello chitarristico Broadrick riprende quasi sempre gli aspetti punitivi e sofferenti di matrice Swans, perché probabilmente nella sua testa questo progetto è incasellato così e la mia idea è che da A World Lit Only By Fire del 2014 abbia iniziato un ripasso di quanto esplorato in fretta nei Novanta, un quantitativo di roba da cui tanti hanno attinto per poi sviluppare il loro sound. Quindi a essere determinante nei Godflesh è la combinazione tra idee eterodosse e aggressività. Si tratta, per chi compra dischi, di capire se adesso – con meno effetto sorpresa – i due nostri amici rompono ancora il culo e sono malati come piace a noi. Nel caso di Post-Self per me era così senz’ombra di dubbio. Anche a questo giro, se ascolto “Nero”, per me è ancora così, idem se proseguo con le linee spezzate di “Land Lord”, perché in entrambi i casi – nonostante quella sensazione di déjà entendu – qualcuno di nostra conoscenza dimostra di sapere bene anche come fabbricare riff assassini. Purge continua a ferire anche con “Army Of Non”, poi devia in modo furbo dal percorso con “Lazarus Leper” e prosegue con “Permission” (isolate il beat, potrebbe essere “Let Forever Be” dei Chemical Brothers) e le atmosfere apocalittiche di “The Father” (bellissime linee di synth o qualunque cosa siano, secondo me) e “Mythology Of Self”, supermassiccia come Gargantua. Infine G.C. Green sale in cattedra in “You’re The Judge The Jury And The Executioner”.

Quest’album regge bene il confronto col passato e forse non ha davvero molto da invidiare ai fratelli minori dei Godflesh apparsi nel Ventunesimo Secolo. Non possiamo chiedere di più e forse non c’è molto da chiedere in più.