FOFOULAH, Daega Rek

FOFOULAH, Daega Rek

Secondo disco per l’ensemble di afro-dub Fofoulah, a seguire l’omonimo debutto del 2014, sempre per Glitterbeat. Il settetto, che vede uniti musicisti dell’Africa Occidentale e del Regno Unito, con Daega Rek centra in pieno il bersaglio: la produzione nitida e vagamente allucinata del tastierista Tom Challenger si sposa a meraviglia con la voce e i ritmi di Kaw Secka, che suona un sabar, cioè un membranofono in origine appartenente al popolo Wolof. Questo strumento veniva usato dai griot come mezzo di comunicazione tra i villaggi, proprio grazie alla sua capacità di farsi sentire anche a chilometri di distanza. Lo stesso sound futuribile e ancestrale che ha ci ha colpito in Ammar 808, con quella miscela speziata di bassline sintetiche e tamburi tribali, come un futuro arcaico al quale arrendersi con gioia: alle trame delle percussioni, registrate presso i prestigiosi Real World Studios, sono state poi sovrapposte improvvisazioni vocali e un certosino lavoro di produzione che ha aggiunto inaspettata profondità alle tracce. Immaginate gli African Head Charge con meno thc in corpo (la title-track) ma comunque pigramente stesi sotto uno spietato sole psychedelidub, un ibrido imprendibile e sinuoso tra movenze electro e profili enigmatici e desertici (“Njite”) oppure un classico e pugnace pezzo afro attraversato da stranianti brezze glitch (“Chebou Jane”). Un disco, come si diceva, concepito e lavorato con cura in studio, aggiungendo samples, registrazioni di varia provenienza della stessa band, partendo dal materiale ritmico iniziale per approdare altrove, sospinti da una febbre densa e sottile e da un vento carico di sabbia; se qualche numero (“Knicki”, “Kaddy”) suona meno a fuoco, poco male, è tutto il lavoro ad essere convincente e personale: una strana miscela di erbe di cui non sappiamo il nome ma dal sicuro effetto psicotropo; al perfetto punto di incrocio tra l’ipnosi languida e danzereccia di “Fat Freddy’s Drop” e l’estasi ossessiva dei tamburi rituali ghanesi (ricordo una compilation che nel 1997 mi scoperchiò letteralmente il cranio, Drums Of Death, prodotta da John Zorn, per la giapponese Avant, zeppa di registrazioni sul campo di musiche da funerale, torrenziali e capaci davvero di evocare gli spiriti). Lo stesso blend esotico e avventuroso, come visioni di un Lee Scratch Perry perso in Gambia, anima questo disco, perfetto per dancefloor coraggiosi, per sessioni di meditazione domestica: “Pulo” chiude il sipario con una escursione notturna in deserti e foreste iperreali, perfettamente calibrata tra vertigini dell’attualità e polvere di Dub Syndicate. La verità (Daega Rek)non ammette repliche.